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Paolo Marenco
AO "G. Salvini" di Garbagnate Milanese, PO di Garbagnate Milanese, 1° Divisione di Medicina Generale, Servizio di Diabetologia e Malattie Metaboliche Correlate

 

Il piede diabetico neuropatico è il risultato di un danno neurologico del sistema nervoso periferico nelle sue componenti sensitiva, motoria e autonomica (1-2).

 

Fisiopatologia e patogenesi
La presenza di una o più di queste componenti può portare a differenti presentazioni del piede diabetico neuropatico, ma tutte espongono al rischio di una lesione che può portare all’amputazione ed anche alla morte del paziente, nei casi in cui si sovrapponga un’infezione che da locale può diventare sistemica (3-5).
La componente sensitiva può determinare perdita della percezione del dolore, che arriva fino all’estremo di un intervento chirurgico senza bisogno di anestesia. In pratica, può essere presente una lesione anche vasta e infetta, senza che ne venga rilevata la presenza se non con l’osservazione diretta da parte del paziente, di un suo familiare o di un operatore sanitario.
La componente motoria determina alterazioni del rapporto fra muscoli flessori ed estensori, con conseguente sbilanciamento delle articolazioni. Si possono avere quindi dita a griffe, accentuazione del cavo del piede, sporgenza delle teste metatarsali, accentuazione di alterazioni strutturali già presenti (valgismi).
La componente autonomica è meno evidente. Agirebbe sulla sudorazione del piede, determinando secchezza della cute, con conseguenti fissurazioni cutanee che possono sovra-infettarsi, e poi sul microcircolo, determinando edema periferico, ipertermia ed arrossamento.

 

Clinica
Ipo/iperestesie, alterazioni della sensibilità, assenza del riflesso achilleo caratterizzano i primi stadi nella neuropatia.
L’ulcera del piede diabetico neuropatico si localizza in aree di eccessiva e anomala pressione, tipicamente alla pianta del piede (mal perforante plantare), specialmente in corrispondenza delle teste metatarsali e del tallone, all’apice di dita a martello. Spesso i margini sono ipercheratosici, non sempre corrispondenti alla parte visibile della lesione, occorre eseguire la specillazione.
Le alterazioni del microcircolo e dei rapporti articolari possono determinare osteo-artropatia, con conseguente crollo della volta plantare, erosioni, microfratture, che rientrano nel quadro di piede di Charcot (6-26).
In sintesi:

  • il piede diabetico neuropatico è deforme, rossastro, asciutto/ipercheratosico, caldo, con polsi presenti;
  • l’ulcera neuropatica si presenta in regione plantare/zone di appoggio, ha margini duri, non è dolorosa.

 

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Diagnostica
L’iter diagnostico del piede diabetico neuropatico prevede:

  • DNI (Diabetic Neuropatic Index): un questionario a punti che individua la neuropatia (tabella);
  • test con il monofilamento di Semmes-Weinstein per testare la sensibilità pressoria (fig 1);
  • test con diapason (sensibilità vibratoria)(fig 2);
  • test con biotesiometro per testare la sensibilità vibratoria (fig 3);
  • valutazione dei riflessi (achilleo).

 

Calcolo DNI

Ispezione del piede:

  • deformità
  • cute secca
  • callosità
  • infezione
  • ulcera

Normale = 0
Alterato = 1
(Ulcera + 1)

Riflessi achillei

Presente = 0
Con rinforzo = 0.5
Assente = 1

Sensibilità vibratoria dell’alluce

Presente = 0
Con rinforzo = 0.5
Assente = 1

Test positivo se > 2 punti

 

 

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Figura 1: test con monofilamento

 

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Figura 2: test con diapason

 

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Figura 3: biotesiometro

 

La podografia può essere di ausilio nelle fase di prevenzione o dopo la guarigione della lesione, per lo studio della camminata e della conseguente distribuzione delle forze di pressione, per costruire un plantare specifico per il singolo paziente (fig 4,5).

 

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Figura 4: podografia

 

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Figura 5: telepodometro

 

Bibliografia

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Silvia Acquati
UO Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Dipartimento di Medicina Specialistica, Ospedale GB Morgagni, Forlì

(aggiornato al 7 settembre 2017)

 

Il piede diabetico vascolare (ischemico) è determinato dalla presenza di vasculopatia periferica, che si manifesta con la comparsa di ulcere e/o gangrena.
L’arteriopatia obliterante periferica (PAD) è più comune nei pazienti con diabete e circa il 50% dei pazienti con piede diabetico ulcerato è affetto da PAD. L’arteriopatia periferica nel diabete interessa prevalentemente il sistema vascolare infra-inguinale ed è diversa rispetto alla popolazione non diabetica per caratteristiche cliniche, trattamento ed esiti. Identificare la PAD in questi pazienti è importante, perché la sua presenza è associata ad esiti peggiori, come più lenta (o mancata) guarigione delle ulcere, maggiori tassi di amputazione degli arti inferiori, associazione con successivi eventi cardio-vascolari e mortalità.
La diagnosi di PAD è talora difficoltosa in pazienti con diabete, in quanto mancano spesso sintomi tipici, come claudicatio o dolore a riposo. Le calcificazioni della parete arteriosa, la presenza di infezione e la neuropatia periferica, spesso concomitanti, possono influire negativamente sulla validità dei test diagnostici per PAD. Di fronte a un sospetto di PAD, si dovrebbero sempre prendere in considerazione i potenziali effetti negativi sulla guarigione dell'ulcera e il rischio di amputazione.
La presenza di PAD deve essere ricercata annualmente in ogni paziente, almeno con anamnesi e palpazione dei polsi dei piedi. L’assenza dei polsi periferici e la presenza di un arto freddo, soffi femorali e un tempo di riempimento venoso lento sono tutti elementi clinici specifici che segnalano all'operatore sanitario la presenza di PAD. In una revisione sistematica recente (3), sono stati identificati come fattori predittivi di futura ulcerazione sintomi e segni di PAD, come polsi assenti, claudicatio e basso ABI.
Anche se l’anamnesi correttamente raccolta e l'esame obiettivo possono suggerire la presenza di PAD in un paziente con un'ulcera del piede, la loro sensibilità diagnostica è troppo bassa. Anche nelle mani di un esperto, nonostante la presenza di ischemia possono essere presenti polsi palpabili. Pertanto, in tutti i pazienti dovrebbe essere eseguita una valutazione più obiettiva. Nel contesto dell’esame clinico bisogna valutare forma dell’onda doppler delle arterie alla caviglia e al piede e misurare sia la pressione sistolica alla caviglia che l’indice caviglia-braccio ABI (vedi arteriopatia diabetica). Il riscontro di ABI < 0.9 è un test utile per la rilevazione di PAD nei soggetti diabetici asintomatici che non hanno neuropatia periferica. La neuropatia periferica è associata a calcificazioni della parete mediale delle arterie (sclerosi di Mönckeberg) nella parte inferiore della gamba, che può provocare arterie rigide ed elevato ABI, perché la sclerosi calcifica della tunica media non necessariamente causa stenosi arteriosa e ridotto flusso sanguigno. La presenza di arterie incomprimibili (definite da ABI ≥ 1.3), è un fattore associato a esiti peggiori nei pazienti ischemici. Al contrario, il rilevamento di una forma d’onda arteriosa trifasica con doppler portatile sembra più specifica per assenza di PAD. La pressione all’alluce può essere utile se ci sono fattori che influenzano l'ABI: la misurazione di un indice alluce-braccio (TBI) ≥ 0.75 rende improbabile la presenza di PAD. Tutte le tecniche devono essere eseguita in modo standardizzato da operatori qualificati. Gli operatori sanitari devono essere consapevoli dei limiti di ciascuna metodica e devono decidere quale utilizzare, singolarmente o in combinazione, in base alla loro competenza e alla disponibilità di test.
Nei pazienti con piede diabetico vascolare, nessun sintomo o segno specifico di arteriopatia può prevedere in modo affidabile la probabilità di guarigione dell'ulcera. Una qualsiasi delle seguenti rilevazioni aumenta di almeno il 25% la probabilità di guarigione:

  • pressione di perfusione cutanea di almeno 40 mmHg;
  • pressione all’alluce ≥ 30mmHg;
  • TcPO2 ≥ 25 mmHg (letteratura limitata).

Tuttavia, prevedere la guarigione di un'ulcera del piede diabetico è un processo complesso associato a variabili diverse dalla PAD, quali:

  • entità del danno tissutale;
  • presenza di infezione;
  • carico meccanico sull'ulcera;
  • comorbilità (es. IRC in stadio terminale, cardiopatia, anemia).

La guarigione è quindi correlata alla gravità del deficit di perfusione in associazione ad altre caratteristiche del piede e del paziente. Infine, la probabilità di guarigione è legata alla qualità delle cure delle sovramenzionate variabili.
Dato che la possibilità di guarigione è scarsa in pazienti con pressione al dito < 30 mmHg o TcPO2 < 25 mmHg, in questi pazienti risulta utile la diagnostica per immagini e la rivascolarizzazione. La diagnostica per immagini urgente e il trattamento devono essere presi in considerazione anche nei pazienti con PAD e valori maggiori di pressione all’alluce e TcPO2 se esistono fattori aggravanti la prognosi, come infezione ed estesa compromissione tissutale. Infine, alla luce della loro limitata utilità diagnostica e prognostica, nessuna delle prove di cui sopra può escludere completamente la PAD come causa di mancata guarigione di un'ulcera del piede; in questi pazienti dovrebbe pertanto essere effettuata la diagnostica per immagini al fine di determinare se il paziente può trarre beneficio dalla rivascolarizzazione. All’analisi post-hoc uno studio ha suggerito che un periodo di 4 settimane è sufficiente per valutare la probabilità di guarigione nei pazienti con ulcera neuropatica non complicata. In uno studio osservazionale, un minor tempo d’attesa per la rivascolarizzazione (< 8 settimane) era associato a maggiore probabilità di guarigione delle ulcere nel piede ischemico.
Per ragioni pragmatiche, si consiglia di prendere in considerazione l'imaging vascolare e la successiva rivascolarizzazione in presenza di ulcere neuro-ischemiche che non migliorano entro 6 settimane senza che siano documentabili altre cause. In passato, è stato attribuito un ruolo importante alla micro-angiopatia diabetica quale ostacolo alla guarigione. Tuttavia, non esiste attualmente alcuna prova in merito e la PAD è la più importante causa di ridotta perfusione del piede in un paziente diabetico. Tuttavia, va osservato che la PAD può non essere l’unica causa di ridotta perfusione distale, in quanto edema ed infezione possono contribuire a ridotta ossigenazione e dovrebbero essere trattati di conseguenza.
Decidere chi ha bisogno di rivascolarizzazione e quale procedura utilizzare è complesso. È inaccettabile fare affidamento su un solo esame clinico: prima di una procedura di rivascolarizzazione, dovrebbero essere ottenute informazioni anatomiche sulle arterie dell'arto inferiore, per valutare presenza, gravità e distribuzione di stenosi arteriose o occlusioni. Ottenere immagini dettagliate delle arterie sotto il ginocchio e del piede è di importanza critica nei pazienti con diabete. Le tecniche per definire il sistema arterioso dell'arto inferiore nei pazienti con diabete sono ecografia doppler, angio-MR, angio-TC e angiografia digitale, ognuna delle quali ha vantaggi, svantaggi e controindicazioni. La decisione su quale modalità di imaging utilizzare dipenderà da eventuali controindicazioni legate al paziente, nonché da disponibilità e competenze locali.
Lo scopo della rivascolarizzazione è ripristinare il flusso diretto in almeno una delle arterie del piede, preferibilmente l'arteria che alimenta la regione anatomica dell’ulcera, con lo scopo di assicurare pressione minima di perfusione cutanea di 40 mmHg, pressione all’alluce ≥ 30 mmHg e TcPO2 ≥ 25 mmHg. La portata sanguigna richiesta è influenzata da fattori, quali la presenza di infezione, l’entità del danno tessutale e il carico deambulatorio. Una procedura di rivascolarizzazione può avere diversi obiettivi:

  1. promuovere la guarigione delle ferite;
  2. contribuire alla risoluzione dell'infezione;
  3. ridurre il rischio o l’entità dell’amputazione.

Non è ancora chiaro come identificare quei pazienti con PAD e ulcera del piede che possono trarre maggior beneficio dalla rivascolarizzazione. È stato postulato che il ripristino del flusso pulsato attraverso un'arteria che alimenta direttamente la zona ulcerata abbia risultati migliori rispetto a quando il flusso viene distribuito da un vaso collaterale derivante da angiosomi limitrofi. Purtroppo molte delle casistiche riportate sono ad alto rischio di bias, senza univoca adeguatezza dell’indicazione o dei tentativi fatti o aggiustamento per gravità o durata dell’ulcera.
Un centro specializzato nel trattamento del piede diabetico dovrebbe avere a disposizione gli strumenti diagnostici necessari e la possibilità di accedere rapidamente sia a trattamenti endo-vascolari che chirurgici della PAD. I pazienti con segni di PAD e infezione del piede sono ad alto rischio di perdita estesa di tessuto e di amputazione maggiore e dovrebbero essere trattati in regime d’urgenza. Non esistono evidenze sufficienti per stabilire quale tecnica di rivascolarizzazione, endo-vascolare o chirurgica, sia superiore e le decisioni devono essere prese da un team multi-disciplinare, considerando vari fattori quali la topografia dell’arteriopatia, la disponibilità di vena autologa, le comorbilità e le competenze degli specialisti coinvolti. Le linee guida concordano nel raccomandare di evitare la rivascolarizzazione nei pazienti con scarse prospettive cliniche e con sfavorevole rapporto rischio-beneficio.
Dopo una procedura di rivascolarizzazione per un'ulcera del piede, il paziente deve essere seguito da un team multi-disciplinare nel contesto di un percorso diagnostico-terapeutico. Va infine ricordato che tutti i pazienti affetti da PAD hanno un elevato rischio di altre malattie cardio-vascolari, che richiedono percorsi diagnostici dedicati. Tutti i pazienti con diabete e ulcera ischemica del piede dovrebbero essere sottoposti a trattamento aggressivo dei fattori di rischio cardio-vascolare, tra cui il sostegno per smettere di fumare, il trattamento dell'ipertensione e la prescrizione di una statina, nonché basse dosi di aspirina o clopidogrel.

 

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Antimo Aiello
UOC Diabetologia-Endocrinologia, Ospedale Regionale Campobasso

 

Nel diabetico le infezioni del piede (piede diabetico infetto, PDI) sono fra le maggiori responsabili dell’elevata morbilità e mortalità e la causa più frequente di amputazione dell’arto inferiore. In studi clinici retrospettivi si è riscontrato che l’infezione conduce ad un’amputazione minore nel 24-60% dei casi e ad un’amputazione maggiore nel 10-40% dei casi.
Le infezioni del piede nelle persone con diabete di solito iniziano con una soluzione di continuità della cute, frequentemente con un’ulcerazione neuropatica. Ciò permette alla flora che normalmente colonizza la pelle di penetrare e raggiungere i tessuti sottocutanei e l’osso. La particolare anatomia del piede permette poi il diffondersi, rapidamente, dei batteri dalla superficie plantare o dorsale verso la caviglia. Sviluppo, progressione e mancata guarigione dell’infezione sono favoriti dalla concomitante presenza di arteriopatia (alterazioni trofiche, ridotto apporto di O2, nutrienti e farmaci, ridotta rimozione di tossine, mancata risposta iperemica all’infezione) e iperglicemia (compromissione dei meccanismi di distruzione ossidativa dei microrganismi, alterazioni immunitarie responsabili del circolo vizioso: infezione -> scompenso metabolico -> immuno-depressione -> infezione). Per questo in ogni caso di ulcera, soprattutto se infetta, sono obbligatori l’attenta valutazione vascolare e la correzione dell’iperglicemia. Si consiglia di coinvolgere precocemente un chirurgo vascolare, per valutare la necessità di rivascolarizzazione ogni volta che l’ischemia complica un PDI, ma soprattutto in ogni paziente con ischemia critica dell’arto. Poiché tutte le ferite della pelle ospitano microrganismi (compresi i potenziali patogeni), l’infezione, prima che microbiologicamente, deve essere diagnosticata clinicamente, valutando attentamente la situazione locale e tenendo presente che, anche in presenza di grave infezione al piede, nel diabetico possono essere assenti sintomi generali; di contro, infezioni di tessuti profondi, come l’osso, spesso danno ingannevolmente pochi segni superficiali. L’evidenza di infezione generalmente include i segni classici di infiammazione (rossore, calore, gonfiore, dolore) o secrezioni purulente, ma può includere anche segni secondari, come secrezione siero-ematica, tessuto di granulazione friabile, sfrangiamento dei bordi della ferita, cattivo odore, ritardata guarigione della lesione.

 

Fig 1. Flemmone V dito

 

Fig 2. Infezione da anaerobi

 

Fig 3. Infezione I dito

 

Una volta accertata la presenza di infezione, ne vanno valutate gravità ed estensione. Per far questo, si può utilizzare regolarmente uno degli schemi validati, come il PEDIS (Perfusion, Extent/size, Depth/tissue loss, Infection, and Sensation), sviluppato dal IWGDF (2), o quello proposto dal IDSA (7) e riportati nella tabella 1. Altre classificazioni molto usate sono quelle di Wagner (8) e della Texas University (9).

 

Tabella 1
Classificazione infezione al piede dei diabetici
(Gruppo di lavoro internazionale sul piede diabetico e Infectious Diseases Society of America)
Manifestazione clinica di infezione Grado PEDIS IDSA infezione/gravità
NON sintomi o segni di infezione
Presenza infezione definita dalla presenza di almeno 2 dei seguenti elementi:
  • gonfiore locale o indurimento
  • eritema
  • dolorabilità locale o dolore
  • calore locale
  • secrezione purulenta (spessore, secrezione opaca o sanguinolenta)
1 Non infette
Infezione locale coinvolgente solo la pelle e il tessuto sottocutaneo (senza il coinvolgimento di tessuti più profondi e senza segni sistemici come descritto di seguito).
Se presente, l’eritema deve essere da 0.5 cm fino a ≤ 2 cm intorno all'ulcera.
Escludere altre cause di risposta infiammatoria della pelle (ad esempio trauma, gotta, Charcot acuto, fratture, trombosi, stasi venosa).
2 Lieve
Infezione locale (come descritto sopra) con eritema > 2 cm, o coinvolgente strutture più profonde della pelle e dei tessuti sottocutanei (es. ascesso, osteomielite, artrite settica, fascite) e nessun segno di risposta infiammatoria sistemica (come descritto sotto). 3 Moderata
Infezione locale (come descritto sopra) con i segni di SIRS (systemic inflammatory response syndrome) come manifestato da ≥ 2 dei seguenti:
  • temperatura > 38°C o < 36°C
  • frequenza cardiaca > 90 battiti/min
  • frequenza respiratoria > 20 atti/min o PaCO2 < 32 mm Hg
  • numero di globuli bianchi > 12.000 o < 4000 cellule/mL o forme immature ≥ 10%
4 Severa

 

In caso di dito a salsicciotto (sausage toe), ulcere con osso esposto o specillabile (probe-to-bone test), lesione ulcerativa con superficie > 2 cm2 e profonda > 3 mm, lesioni croniche e localizzate a livello di prominenze ossee, o in ogni caso di ulcere che, seppur ben trattate e” scaricate”, non guariscono, va considerata la presenza di osteomielite. La diagnosi va confermata da Rx e RM e coltura positiva di tessuto osseo.
Ogni volta che si è in presenza di infezione, è opportuno trattarla in maniera aggressiva, visto che le infezioni al piede possono peggiorare rapidamente. Tutte le ferite devono essere attentamente controllate, palpate e sondate. Valutando attentamente la ferita, è necessario determinare la necessità di debridement, incisione e drenaggio o di altri interventi chirurgici. Si consiglia un intervento chirurgico urgente per infezioni del piede accompagnate da gas nei tessuti più profondi, in caso di ascesso o di fascite necrotizzante.
Lesioni clinicamente non infette non necessitano di copertura antibiotica, mentre per le lesioni clinicamente infette, in attesa degli esami microbiologici va iniziata una terapia antibiotica “empirica” basata sulla gravità dell’infezione, sul “probabile” agente eziologico (tabella 2) e sulle condizioni generali del soggetto.

 

Tabella 2
Terapia antibiotica “empirica”
Gravità infezione Germi sospettati Antibiotici consigliati
Grado 2 (lieve)
Terapia orale
Staphylococcus aureus (MSSA) Amoxicillina-clavulanico 1 g x 3
Levofloxacina 500 mg
Streptococcus spp Clindamicina 300 mg x 3
Doxiciclina 100-200 mg
Grado 3-4 (moderata-severa)
Terapia iniettiva
MSSA, Streptococcus, Enterobacteriacea ß-lattamasi inibitori Ceftriaxone 1 g im
Ampicillina-sulbactam 3 g ev x 3
Pseudomonas Piperacillina/tazobactam 4.5 g ev x 4
Ticarcillina/clavulanico 1.2 g im x 3
MRSA Vancomicina 1 g ev x 2
Linezolid 600 mg ev x 2

 

La copertura per MRSA nella scelta antibiotica empirica va iniziata in presenza dei seguenti fattori: alta prevalenza locale, recente ospedalizzazione o permanenza in strutture di lungo-degenza, recente terapia antibiotica, pregresso riscontro di infezione da MRSA a livello della stessa lesione, IRC in trattamento dialitico.
L’ospedalizzazione urgente è indicata quando:

  • è presente infezione grave, ischemia critica o instabilità metabolica;
  • c’è necessità di molteplici procedure diagnostiche o chirurgiche, di terapia endovenosa, di medicazioni frequenti e complesse.

Il ricovero in ospedale va consigliato anche per pazienti incapaci di seguire per motivi vari una corretta terapia o privi di supporto familiare adeguato.
Vista la gravità e la complessità del PDI, è fondamentale fornire un approccio multidisciplinare, coordinato preferibilmente da un team multi-professionale di gestione del piede diabetico.

 

Bibliografia

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Carlo Rivellini
UO Chirurgia Vascolare, Ospedale Santa Croce e Carle, Cuneo

 

Nel piede diabetico la diagnostica strumentale è prevalentemente mirata alla valutazione della presenza di un'arteriopatia ostruttiva (piede diabetico vascolare o misto) o soltanto di una neuropatia (piede neuropatico); l'anamnesi e l'esame obiettivo (valutazione dei polsi, degli annessi cutanei, del trofismo muscolare, della temperatura e sensibilità cutanea, ecc) già orientano in tal senso.
La diagnostica può essere più o meno invasiva, a seconda del grado di approfondimento diagnostico che si vuole ottenere, a sua volta correlato al tipo di trattamento: in caso di ischemia critica, dove si impone un intervento di rivascolarizzazione finalizzato al salvataggio d'arto, sarà necessaria una dettagliata caratterizzazione morfologica della patologia ostruttiva.

 

Valutazione non invasiva
Prevede l’uso di metodiche semplici e ripetibili, ma con dei limiti per cui spesso vanno integrate tra loro.
L'indice pressorio caviglia/braccio (ABI) è definito dal rapporto tra pressione sistolica alla caviglia e pressione sistolica al braccio e quindi è di solito 1 (arterie incomprimibili). Un ABI ridotto è un predittore importante di eventi cardiovascolari e di morte prematura (1,2).
L'ossimetria trans-cutanea (TcPO2) misura la tensione cutanea di ossigeno attraverso un trasduttore posizionato solitamente sul dorso del piede. Fornisce un'indicazione sulla gravità della patologia ostruttiva e sul potenziale riparativo di una lesione (il valore diagnostico di riferimento è circa 50 mmHg, mentre valori < 30 mmHg indicano uno scarso potenziale riparativo). È un esame semplice e ripetibile, ma più costoso dell'ABI (costo dell'apparecchiatura) e i valori possono essere condizionati da situazioni ambientali e legate al paziente (edema tessutale, temperatura ambientale, cellulite, ecc), per cui l'esito deve essere interpretato con una certa cautela. È comunque molto diffuso in ambito internistico, per la sua semplicità ed è ampiamente utilizzato per valutare il livello di amputazione (3,4).
L'ecocolor-doppler è una metodica ultrasonografica di imaging, che permette di ottenere informazioni sia di carattere morfologico che emodinamico: in pratica consente non solo di visualizzare i vasi e le eventuali lesioni (stenosi o occlusioni), ma anche di quantificare il loro effetto emodinamico (stato del run-off). L'esame è ripetibile e relativamente costoso (costo dell'apparecchiatura) e caratterizzato da un'elevata sensibilità e specificità se eseguito da personale ben addestrato (operatore-dipendente). In ambiente chirurgico, dove il chirurgo utilizza routinariamente l'ecocolor-doppler, la valutazione è talmente approfondita e mirata che spesso è utilizzata come “unica” metodica di imaging prima dell'intervento di rivascolarizzazione. Contestualmente agli arti inferiori, permette la valutazione degli altri distretti vascolari (carotideo, renale, ecc), che va sempre eseguita nel paziente diabetico.

 

Tecniche di imaging di secondo livello
Sono più o meno invasive, costose (richiedono l'utilizzo di apparecchiature molto sofisticate e personale dedicato) e non sono disponibili in tutti gli ospedali. Si tratta di tecniche angiografiche che permettono di ottenere una completa ricostruzione dell'albero vascolare sia bi- che tridimensionale, con un'immediata caratterizzazione della patologia ostruttiva (tipo, sede ed estensione delle lesioni, che spesso sono localizzate a più livelli) e consentono al chirurgo di eseguire un corretto planning della procedura di rivascolarizzazione.
L'angio-RM sta acquisendo un ruolo sempre più importante, grazie alle bobine di nuova generazione che consentono studi sempre più ampi, anche senza l'utilizzo di mezzo di contrasto. I limiti sono legati alla contaminazione venosa a livello del piede, alla mancanza di informazioni sul tipo di placca (calcifica, lipidica o fibrosa), alla presenza di artefatti ferromagnetici con assenza di segnale (stent metallici, artro-protesi) e alle controindicazioni generali allo studio RM (pace-maker, claustrofobia, protesi o suture metalliche) (5-8).

 

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Figura 1: angio-RM in paziente con occlusione della femorale superficiale e poplitea dx (ricostruzione MIP).

 

L'angio-TC rispetto alla RM risente meno di artefatti ferromagnetici ed è in grado di caratterizzare in modo ottimale il tipo di placca che determina la steno-ostruzione, permettendo di scegliere il tipo di tecnica e di materiale più idoneo a ogni singola procedura. Può inoltre fornire informazioni aggiuntive sui parenchimi circostanti e su eventuali comorbilità associate. L'evoluzione tecnologica (apparecchi multibanco) ha permesso di ridurre drasticamente i tempi di acquisizione e la dose di radiazione; tuttavia, è necessaria la somministrazione di un mezzo di contrasto iodato che può avere un effetto nefrotossico.

 

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Figura 2: angio-TC di paziente con occlusione femorale superficiale e poplitea dx (ricostruzione 3D volume rendering).

 

Infine, l'angiografia digitalizzata rimane il gold standard delle tecniche diagnostiche, perchè fornisce informazioni morfologiche con elevatissimo dettaglio (soprattutto a livello dei piccoli vasi e della circolazione molto periferica) ed emodinamiche. Si tratta di un esame invasivo e cruento, che prevede l'uso di radiazioni ionizzanti e di mezzi di contrasto iodati, con l'introduzione nelle arterie di guide e cateteri e necessita di apparecchiature molto sofisticate in ambienti e con personale dedicati. Ormai l'angiografia non è più solo un esame diagnostico, ma il più delle volte è l'esame di preparazione a una rivascolarizzazione endo-vascolare: sempre più spesso il paziente è stato già adeguatamente studiato con una (o più di una) delle metodiche sopra descritte e viene eseguita l'angiografia come esame preliminare a una rivascolarizzazione endo-vascolare (9-11).

 

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Figura 3: angiografia digitalizzata che mostra la scarsa vascolarizzazione del piede in un paziente diabetico.

 

 

Studio del piede e delle sue complicanze
In questo ambito è molto dibattuto e controverso l’utilizzo di metodiche di imaging di secondo livello. La cellulite, l’ascesso con o senza tramite fistoloso, la fascite necrotizzante, la mionecrosi, la tenosinovite, l’artropatia, l’osteomielite sono complicanze spesso presenti e visibili clinicamente, ma in alcuni casi possono essere misconosciute e presentarsi all’osservazione clinica solo quando raggiungono quadri patologici gravi ed eclatanti. La diagnosi precoce può permettere di instaurare un trattamento adeguato (terapia antibiotica, exeresi mirata, drenaggio, ecc) e quindi evitare l’estendersi del processo patologico, riducendo il rischio di amputazione. Soprattutto l’osteomielite può essere presente in assenza di segni obiettivi evidenti di flogosi del piede: dolore persistente, ulcerazione resistente alle terapie locali nonostante una buona vascolarizzazione, edema persistente devono sempre far sospettare processi infettivi sottostanti e in tal caso una diagnostica di secondo livello (RM, TC o PET) può evidenziare un problema che altrimenti rimarrebbe misconosciuto. La RM, in particolare, consente una diagnosi precoce di affezioni ossee (reazione periostale o osteolisi) o tendinee o dei tessuti molli, permettendo anche una diagnosi differenziale, soprattutto per le strutture del retro-piede (fratture post-traumatiche vs osteomieliti, osteonecrosi, tendiniti, sinoviti e lesioni della fascia plantare, ecc).

 

Bibliografia

  1. Ix JH, Miller RG, Criqui MH, Orchard TJ. Test characteristics of the anklebrachial index and ankle-brachial difference for medial arterial calcification on X-ray in type 1 diabetes. J Vasc Surg 2012, 56: 721-7.
  2. Park SC, Choi CY, Ha YI, Yang HE. Utility of toe-brachial index for diagnosis of peripheral artery disease. Arch Plast Surg 2012, 39: 227-31.
  3. Ballad JL, Eke CC, Bunt TJ, Killeen JD. A prospective evaluation of transcutaneous oxygen measurements in the management of diabetic foot problems. J Vasc Surg 1995, 22: 485-90.
  4. Faglia E, Clerici G, Caminiti M, et al. Evaluation of feasibility of ankle pressure and foot oximetry values for the detection of critical limb ischemia in diabetic patients. Vasc Endovascular Surg 2010, 44: 184-9.
  5. Collins R, Burch J, Cranny G, et al. Duplex ultrasonography, magnetic resonance angiography, and computed tomography angiography for diagnosis and assessment of symptomatic, lower limb peripheral arterial disease: systematic review. BMJ 2007, 334: 1257-66.
  6. ACC/AHA guidelines for the management of patients with peripheral arterial disease (lower extremity, renal, mesenteric, and abdominal aortic). J Vasc Interv Radiol 2006, 17: 1383-98.
  7. Bradbury AW, Adam DJ. Diagnosis of peripheral arterial disease of the lower limb. BMJ 2007, 334: 1229-30.
  8. Visser K, Hunink MG. Peripheral arterial disease: gadolinium-enhanced MR angiography versus color-guided duplex US: a meta-analysis. Radiology 2000, 216: 67-77.
  9. Hingorani A, Ascher E, Marks N. Preprocedural imaging: new options to reduce need for contrast angiography. Semin Vasc Surg 2007, 20: 15-28.
  10. Lapeyre M, Kobeiter H, Desgranges P, et al. Assessment of critical limb ischemia in patients with diabetes: comparison of MR angiography and digital subtraction angiography. AJR Am J Roentgenol 2005, 185: 1641-50.
  11. Sanverdi SE, Ergen BF, Oznur A. Current challenges in imaging of the diabetic foot. Diabet Foot Ankle 2012, 3: 18754.
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Antimo Aiello
UOC Diabetologia-Endocrinologia, Ospedale Regionale Campobasso

 

Le infezioni del piede diabetico rappresentano un problema clinico-economico e sociale di grande rilevanza, per l’evidente difficoltà di gestione sia diagnostica che terapeutica. I processi infettivi del piede sono i principali responsabili della maggior parte degli eventi di amputazione maggiore degli arti inferiori e le infezioni, di fatto, precedono gli interventi amputativi in oltre i due-terzi dei casi (1-2).
Tutte le soluzioni di continuo della cute sono contaminate e/o colonizzate da germi presenti sulla superficie, ma non tutte sono sede di infezione, ovvero di diffusione e moltiplicazione degli agenti patogeni attraverso i tessuti, associata a una risposta immunitaria più o meno severa da parte dell’ospite. Per la caratterizzazione dell’ulcera può essere utilizzata la Texas University Classification o, per meglio definire l’estensione e l’entità del processo infettivo, la classificazione PEDIS, che definisce la presenza di segni clinici locali di infiammazione e la loro estensione con associati o meno sintomi e segni sistemici, insieme alla IDSA classification, che definisce il grado di severità del processo infettivo (3-4).
Per lesioni clinicamente non infette, non è opportuno effettuare il prelievo per esame microbiologico, che comunque va eseguito sempre prima di iniziare qualsiasi terapia antibiotica. Il corretto campionamento microbiologico delle lesioni appare di fondamentale importanza per ottenere risultati utili ad iniziare una terapia corretta e mirata. La raccolta del campione a livello di una lesione ulcerativa con segni clinici di infezione prevede le seguenti azioni (4):

  1. pulizia della lesione ulcerativa con garze imbevute di soluzione salina;
  2. prelievo di tessuto profondo ottenuto dopo curettage della lesione ulcerativa o mediante biopsia;
  3. ago-aspirazione di secrezione purulenta a livello di tramiti fistolosi, ascessi;
  4. biopsia diretta dell’osso, evitando esecuzione di tamponi anche profondi.

Sono sconsigliati esami colturali da tamponi superficiali, dato che possono contenere molti contaminanti, mentre campioni di tessuto profondo infetto sono ricchi di veri patogeni (4).

 

Norme per l’esecuzione del prelievo per esame colturale
Norme da osservare Azioni da evitare
Raccogliere un campione profondo per ciascuna lesione sospetta osservata.
Pulire ed eseguire debridment e lavaggio della ferita prima della raccolta dei campioni.
Ottenere un campione tissutale tramite scraping con bisturi sterile o curettage dalla base dell’ulcera dopo il debridment.
Aspirare con siringa sterile eventuali secrezioni osservate.
Inviare rapidamente il campione in un contenitore sterile con appropriato mezzo di trasporto per coltura di aerobi/anaerobi e possibilmente per esame Gram diretto.
Raccogliere campioni da una lesione NON infetta secondo criterio clinico.
Ottenere campioni su ulcera o ferita sporca/non lavata e in assenza di curettage locale.
Ottenere campioni tramite tampone superficiale eseguito sull’ulcera o sulla secrezione.
Raccogliere il campione dai bordi della lesione e non dalla zona centrale e profonda.

 

Molti sono i microrganismi implicati nei vari studi e molto frequentemente l’infezione al piede è polimicrobica. L’epidemiologia è influenzata dallo stato del paziente, dalle caratteristiche della lesione e dalla comunità di provenienza. L’influenza di fattori ambientali rende utilissima una casistica locale, che tra l’altro possa indirizzare all’avvio, in attesa degli esiti delle culture, di una terapia antibiotica “empirica”. Inoltre la composizione della flora microbica delle infezioni al piede può variare al prolungarsi del tempo di guarigione.
Il frammento di tessuto/biopsia deve giungere al laboratorio nel più breve tempo possibile, soprattutto se su questo si intende ricercare gli anaerobi; in questo caso è indicato il trasporto in E-swab (tamponi floccati a rilascio totale) ovvero assicurarsi che il campione viaggi in bio-bag (con dispositivi in grado di mantenere l’anaerobiosi). Il campione (biopsia/tessuto/osseo) se di grandi dimensioni dovrebbe essere omogeneizzato, anche se tale procedura ne comporta una manipolazione che potrebbe aumentare i rischi della contaminazione. La procedura consigliata in alternativa è lo sminuzzamento con forbici sterili. Il campione deve essere pre-arricchito in mezzo liquido (BHI broth, o terreni del sistema H&BL Alifax) e incubato overnight a 35 ± 2°C (mediamente 0.5 mL/5 mL brodo o con il sistema H&BL 0.5 mL in vials da 2 mL).
Per causare infezione è richiesta una carica batterica di 105. Questo valore, detto “colonizzazione critica”, è il precursore dello stato di infezione. La carica critica è più bassa per alcuni batteri, come lo Streptococco ß-emolitico, a conferma del fatto che tipo di microrganismo e sue caratteristiche sono importanti nel definire l’infezione.
La distribuzione delle specie patogene aerobie/anaerobie facoltative, in ordine di frequenza, vede prevalere Stafilococchi meticillino-sensibili e meticillino-resistenti, Stafilococchi coagulasi-negativi, Streptococcus spp, Enterococus spp, Enterobacteriaceae, Corinebatteri e Pseudomonas aeruginosa. Tra le specie anaerobie pure si annoverano cocchi Gram positivi (Peptococcus e Peptostreptococcus), Prevotella spp, Clostridia, Fusobacterium spp e ceppi di Bacteroides fragilis (5).

 

Bibliografia

  1. Boulton AJ, Vileikyte L, Ragnarson-Tennvall G, Alpelqvist J. The global burden of diabetic foot disease. Lancet 2005, 366: 1719-24.
  2. Nicolau DP, Stein GE. Therapeutic options for diabetic foot infections. J Am Podiatr Med Assoc 2010, 100: 52-63.
  3. International Working Group on the Diabetic Foot. International Consensus on the Diabetic Foot. Amsterdam 1999: 1-96.
  4. Tascini C, Piaggesi A, Tagliaferri E, et al. Microbiology at first visit of moderate-to-severe diabetic foot infection with antimicrobial activity and a survey of quinolone monotherapy. Diabetes Res Clin Pract 2011, 94: 133-9.
  5. Lipsky BA, Berendt AR, Cornia PB, et al. 2012 Infectious Disease Society of America clinical practice guideline for the diagnosis and treatment of diabetic foot infections. Clin Infect Dis 2012, 54: 132-73.
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Terapia farmacologica

Terapia chirurgica

Altre terapie

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Enrico Papini, Roberta Rinaldi e Irene Misischi
UOC di Endocrinologia, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale, Roma

 

INTRODUZIONE

Il piede diabetico rappresenta la causa più importante di morbilità e mortalità nelle persone affette da diabete mellito e uno dei maggiori impegni in termini di assistenza sanitaria e costi sociali.
La neuropatia e l’arteriopatia periferica (PAD) predispongono entrambe alle lesioni ulcerative a carico degli arti inferiori e possono condurre ad amputazione. Nonostante la percentuale di amputazioni si sia ridotta nel corso degli ultimi decenni, resta comunque molto più elevata rispetto a quella della popolazione generale. Per tale motivo, è importante l’impegno inter-disciplinare per un’efficace prevenzione e un tempestivo e incisivo trattamento di lesioni già presenti (1).

 

VALUTAZIONE DEL RISCHIO

Fattori di rischio per ulcere agli arti inferiori nel paziente diabetico:

  • neuropatia periferica
  • precedente ulcerazione o amputazione
  • deformità strutturali
  • limitazioni articolari
  • vasculopatia periferica
  • elevati valori di emoglobina glicata
  • onicomicosi

 

DIAGNOSI

La perdita di sensibilità al monofilamento di 10 g di Semmes Weinstein sulla superficie plantare distale è un elemento predittore significativo e indipendente di futura ulcera cutanea e di amputazione.
Sono state proposte numerose classificazioni per le ulcere agli arti inferiori. Di queste la più utilizzata e validata è la Texas Diabetic Wound Classification System.
Nei pazienti diabetici affetti da ischemia, l’arteriopatia colpisce prevalentemente le arterie sotto il ginocchio rispetto alle persone non diabetiche. Metodi non invasivi per la diagnosi di arteriopatia includono:

  • l’indice ABI (ankle-brachial blood pressure index)
  • la pressione sistolica all’alluce attraverso la fotopletismografia (PPG)
  • l’ossimetria transcutanea (tcPO2)
  • l’ecodoppler degli arti inferiori.

Nonostante l’ABI sia una tecnica accessibile e di semplice esecuzione, può sottostimare il grado di ostruzione periferica a causa della presenza, in alcuni individui affetti da diabete, di calcificazione della media nelle arterie degli arti inferiori.
Attualmente nelle persone in cui si abbia il forte sospetto di arteriopatia periferica è opportuno eseguire angio-TC o angio-RM che costituiscono una valida alternativa all’angiografia. Cautela va comunque esercitata anche in tali procedure, per il rischio di indurre insufficienza renale da mezzo di contrasto iodato nella TC e di fibrosi sistemica nefrogenica nella RM (2).

 

Esame del piede
L’ispezione del piede comprende la valutazione della temperatura della cute, dal momento che il calore rappresenta il primo segno di infiammazione in un piede poco sensibile e può essere il primo segno di neuro-artropatia di Charcot acuta. Il piede di Charcot acuto si può associare anche a eritema e gonfiore, con tutte le caratteristiche di una cellulite. La diagnosi differenziale tra piede di Charcot e infezione del piede può essere molto problematica. I radiogrammi hanno bassa sensibilità e specificità nel differenziare le osteomieliti dalle modificazioni strutturali del piede di Charcot. La RM del piede può essere di aiuto nel chiarire la diagnosi, anche se nessun esame radiologico singolo si è dimostrato efficace.

 

PREVENZIONE E TRATTAMENTO

La prevenzione delle ulcere cutanee prevede varie misure quali:

  • educazione del paziente
  • periodica e regolare ispezione dei piedi
  • adozione di calzature adeguate per ridurre la pressione plantare e accogliere le deformità
  • debridement delle ipercheratosi
  • diagnosi e trattamento precoce delle ulcere già presenti
  • valutazione del rischio di amputazione.

Generalmente il trattamento delle ulcere, da eseguire con approccio multidisciplinare, comprende anche:

  • stretto controllo glicemico
  • valutazione assetto vascolare
  • medicazioni locali
  • drenaggio delle infezioni e ascessi qualora presenti.

Non si possono fare raccomandazioni specifiche rispetto ai vari tipi di medicazione locale, perché non esistono prove sufficienti che sostengano l’uso di una piuttosto che un’altra. Tuttavia, il concetto fondamentale è che il trattamento più idoneo comprenda la creazione di un ambiente ottimale, lo scarico della pressione nella zona ulcerata e, nelle ulcere non ischemiche, il regolare debridement del tessuto non vitale. Inoltre, in generale andrebbero preferite le medicazioni che mantengono un ambiente umido.
Ci sono inoltre prove insufficienti a favore dell’uso della negative pressure wound therapy (NPWT) nelle ulcere neuropatiche. Ci sono tuttavia alcune evidenze a sostegno di un suo utilizzo nel post-operatorio dopo esteso debridement chirurgico.
Nei pazienti diabetici è stato valutato l’uso di fattori di crescita e sostituti dermici per favorire la cicatrizzazione, ma gli studi sono limitati come casistica, durata e follow-up.
Lo scarico delle lesioni può essere ottenuto con calzature temporanee fino alla cicatrizzazione dell’ulcera. Gambaletti fissi e rimovibili si sono dimostrati efficaci nel ridurre la pressione, ma richiedono una selezione accurata dei pazienti e presenza di personale specializzato.
Quando le deformità ossee impediscono l’uso di una calzatura adeguata, occorre considerare l’approccio chirurgico.
Il trattamento del piede di Charcot acuto richiede immobilizzazione dell’arto per molti mesi in un total contact cast o in un dispositivo rimovibile finché la temperatura ritorna nella norma.

 

Infezione
L’infezione può complicare le ulcere cutanee del piede e farle progredire rapidamente verso una condizione che mette a rischio l’arto e la vita stessa del paziente.
I germi patogeni che si riscontrano più frequentemente all’inizio di un’infezione sono Staphylococcus Aureus, Streptococcus Pyogenes (gruppo A) e Streptococcus Agalactiae (gruppo B). Con il passare del tempo e la presenza di tessuto meno vitale, entrano in gioco micro-organismi gram-negativi e anaerobi, dando luogo a infezioni polimicrobiche. Campioni ottenuti da un tampone superficiale sono meno affidabili rispetto a quelli prelevati più in profondità con il debridement.
All’inizio la terapia antibiotica è empirica e ad ampio spettro e successivamente viene effettuata sulla base della sensibilità ottenuta nell’antibiogramma dell’esame colturale (3).
Il diabete mal controllato può essere considerato un’immunopatia con ridotta risposta cellulare alle infezioni. Oltre il 50% dei pazienti diabetici con infezione non ha segni sistemici di infezione, quali febbre o leucocitosi.
Le infezioni profonde spesso richiedono un urgente debridement chirurgico in associazione alla terapia antibiotica.
Nei pazienti con PAD la rivascolarizzazione ha un potenziale beneficio nel salvataggio dell’arto a lungo termine, anche se i risultati nei pazienti diabetici sono inferiori rispetto alla popolazione non diabetica (2).

L’ossigeno-terapia iperbarica (OTI) non rientra nella terapia di routine dell’ulcera neuropatica/neuro-ischemica con o senza infezione, ma può essere presa in considerazione come trattamento aggiuntivo in pazienti altamente selezionati, con lesioni non suscettibili di guarigione, in cui siano stati tentati tutti i tipi di intervento. Le linee guida SIAARTI, SIMSI, ANCIP per l'OTI in gangrena e ulcere cutanee nel paziente diabetico indicano che, prima di avviare il paziente alla terapia, devono essere soddisfatti alcuni criteri:

  • è necessario attuare lo studio vascolare dell'ulcera diabetica con adeguato iter diagnostico;
  • è necessaria la valutazione di una possibile rivascolarizzazione chirurgica;
  • l'OTI è indicata elettivamente nelle ulcere diabetiche ischemiche in presenza di un flusso ematico efficace (PA sistolica alla caviglia > 40 mm Hg);
  • l'ossimetria trans-cutanea guida alla corretta applicazione dell'OTI: TcPO2 basale > 20 mm Hg risulta essenziale per l'indicazione all'OTI;
  • l'OTI è elettiva nelle ulcere diabetiche ischemiche gravi (grado 3-5 Wagner o IIB,C,D e IIIA,B,C,D classificazione Texas University) con alto rischio di amputazione;
  • è prioritario sottoporre il paziente a toilette chirurgica prima dell'OTI.

I criteri d'inclusione risultano essere:

  • ulcera ischemica:
  • rivascolarizzazione con ipossia intorno all'ulcera:
  • paziente rivascolarizzato in presenza di ulcere apicali o vasta perdita di sostanza;
  • paziente rivascolarizzato con ulcere in attesa d'intervento di chirurgia ricostruttiva;
  • in attesa di rivascolarizzazione in presenza di gangrena umida;
  • paziente non operabile che rientra nello stadio > IIB secondo Texas University:
  • TcPO2 basale > 20 mm Hg;
  • ulcere cutanee per deiscenza del moncone in paziente precedentemente sottoposto ad amputazione;
  • ulcera neuropatica: TcPO2 ≤ 50 mm Hg nonostante corretta applicazione dello scarico plantare (con scarpa talus o total cast).

Per quanto riguarda l'utilizzo delle prostaglandine nel trattamento dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori, queste non rappresentano un’alternativa alla rivascolarizzazione chirurgica. La somministrazione parenterale di PGE-1 o iloprost da 7 a 28 giorni può essere presa in considerazione per ridurre il dolore ischemico e facilitare la guarigione delle ulcere in pazienti con CLI, ma l’efficacia è limitata a una piccola percentuale di pazienti e comunque non per ridurre il rischio di amputazione o di morte (2,4).

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Schaper NC, Andros G, Apelqvist J, et al; International Working Group on Diabetic foot. Specific guidelines for the diagnosis and treatment of peripheral arterial disease in a patient with diabetes and ulceration of the foot 2011. Diabetes Metab Res Rev 2012, 28 suppl 1: 236-7.
  2. Rooke TW, Hirsch AT, Misra S, et al; American College of Cardiology Foundation Task Force; American Heart Association Task Force. Management of patients with peripheral artery disease (compilation of 2005 and 2011 ACCF/AHA Guideline Recommendations): a report of the American College of Cardiology Foundation/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. J Am Coll Cardiol 2013, 61: 1555-70.
  3. Lipsky BA, Berendt AR, Cornia PB, et al, Infectious Diseases Society of America. 2012 Infectious Diseases Society of America clinical practice guideline for the diagnosis and treatment of diabetic foot infections. Clin Infect Dis 2012, 54: e132-73.
  4. AMD-SICVE-SID-SIRM. Documento di consenso su trattamento arteriopatia periferica nel diabetico. 2012.
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Carlo Rivellini
UO Chirurgia Vascolare, Ospedale Santa Croce e Carle, Cuneo

 

Introduzione e valutazione preliminare
La chirurgia è spesso necessaria nella cura del piede diabetico, soprattutto in presenza di lesioni o complicanze che tardano a guarire con altri trattamenti. L’approccio può essere demolitivo o correttivo e il più delle volte è associato a interventi di rivascolarizzazione, visto che nella maggior parte dei casi la lesione è causata da un deficit di perfusione (piede diabetico vascolare o misto). In presenza di un'arteriopatia ostruttiva con importante deficit di perfusione, ogni trattamento locale, dalla medicazione all'amputazione minore o anche un intervento correttivo, è destinato al fallimento con peggioramento del quadro patologico locale.
In presenza di una lesione ulcerativa, bisogna innanzitutto valutare la presenza e l'entità di un'arteriopatia e di conseguenza l’utilità e il tipo di intervento di rivascolarizzazione, da scegliere sulla base dei seguenti criteri clinici: il potenziale riparativo della lesione, le condizioni locali del piede e la sua funzionalità in fase post-riparativa, le condizioni dell’albero vascolare e infine le condizioni generali del paziente.Per potenziale riparativo si intende la reale possibilità di guarigione che la lesione presenta in funzione della perfusione del piede. Da questo punto di vista, possono essere di aiuto l’ossimetria trans-cutanea (TcP02) e la valutazione della pressione all’alluce (ABI): secondo la TASC 2, le lesioni a carico del piede vanno generalmente incontro a guarigione se la pressione all’alluce è > 50 mmHg e se la TcP02 è > 50 mmHg, mentre la possibilità di guarigione è remota se entrambi i parametri presentano valori < 30 mmHg (1-4).
Se nonostante un ottimale trattamento locale e buoni valori di ossimetria, la lesione non mostra segni di evoluzione verso la guarigione, una volta escluse influenze negative di carattere generale (malnutrizione, presenza di sottostante osteomielite, ecc), va sempre presa in considerazione la possibilità che l’ulcera non evolva positivamente perchè è presente una condizione ischemica non adeguatamente evidenziata, che richiede una vascolarizzazione. Di contro, a volte, una vasculopatia periferica può manifestarsi direttamente con un quadro di gangrena, indurre la falsa convinzione che un intervento di rivascolarizzazione sia tardivo e inutile, condizionando una scelta di tipo amputativo. Va sempre però tenuta in considerazione la possibilità che il quadro clinico locale appaia più compromesso della realtà ed è possibile salvare un arto che a prima impressione sembrerebbe definitivamente perso. Esistono però dei quadri clinici in cui il coinvolgimento è tale, che non c’è praticamente alcuna possibilità di salvare il piede ed è necessario ricorrere in prima battuta a un'amputazione maggiore. Anche in tali casi, però, come nei casi di amputazione parziale del piede, è indispensabile studiare l’albero vascolare, perché la correzione di un'ischemia sottostante può permettere una distalizzazione dell’amputazione e garantire una migliore e tempestiva guarigione del moncone.
Qualunque lesione del piede non va mai sottovalutata, indipendentemente dalle sue dimensioni; anche per il piede vale il concetto del “Time is tissue”, per cui cure tardive o inadeguate comportano la perdita irreversibile di porzioni di tessuto del piede (5-7).

 

Rivascolarizzazione
Molto importante è la scelta del tipo di rivascolarizzazione, che deve tenere conto delle caratteristiche anatomiche dell'albero vascolare e delle lesioni, nonchè del run-off; nel TASC II sono stati chiaramente individuati gli ambiti in cui intervenire, distretto per distretto, con una rivascolarizzazione chirurgica o endo-vascolare, ma in ogni caso, qualunque sia la scelta, la rivascolarizzazione deve permettere la ricostituzione di un flusso diretto fino alla pedidia e/o all’arcata plantare. Ovviamente, la scelta del tipo di rivascolarizzazione deve tener conto non solo dell'aspetto morfologico della lesione, ma anche delle caratteristiche generali del paziente, come età, aspettativa di vita, necessità funzionali, comorbilità e rischio chirurgico: per un paziente ad alto rischio o con ridotta aspettativa di vita, può essere attuata una rivascolarizzazione endo-luminale, anche se morfologicamente presenta delle lesioni estese. Molti pazienti affetti da ischemia critica sono anziani con elevata comorbilità ed elevato rischio operatorio e in questi casi una procedura di rivascolarizzazione chirurgica non è proponibile, mentre può ancora essere presa in considerazione una procedura percutanea, ridotta tecnicamente alla minima invasività possibile, al fine di migliorare la qualità di vita (8-12). In casi complessi la procedura può essere divisa in più step, onde ridurre lo stress e i volumi di mezzo di contrasto somministrato, valutando dopo ogni fase il risultato clinico e la funzione renale e procedendo a una rivascolarizzazione più approfondita solo in caso di necessità, dopo aver verificato il non deterioramento della funzione renale. Nei pazienti che possono essere trattati con entrambe le metodiche, chirurgica o percutanea, qualora si decida per un approccio “angioplasty first strategy” deve essere seguita la regola fondamentale di rispetto delle cosiddette “landing zones” chirurgiche (cioè di rispetto delle zone di atterraggio di un eventuale by-pass).

 

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Figura 1: by-pass femoro-popliteo infra-genicolato in vena grande safena

 

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Figura 2: angioplastica trans-cutanea (PTA) della tibiale posteriore

 

In questi ultimi anni è cresciuta molto, anche sotto la spinta dell'industria che ha creato materiali e apparecchiature estremamente performanti, la “chirurgia ibrida”. Si tratta di un approccio chirurgico mini-invasivo al paziente critico grazie alla combinazione nello stesso intervento di tecniche di chirurgia aperta ed endo-vascolari. Queste metodiche vengono messe in atto in ambienti concepiti ad hoc (le sale ibride), dove sono presenti sia gli strumenti chirurgici che le apparecchiature radiologiche, dove è possibile portare a termine rivascolarizzazioni molto complesse su pazienti critici con un minimo impatto chirurgico (13-16).
La rivascolarizzazione deve essere non solo diretta ma il più possibile estesa: numerosi studi hanno dimostrato che la percentuale di salvataggio d'arto è direttamente proporzionale al numero di vasi infra-poplitei rivascolarizzati e che la riperfusione delle tibiali garantisce un risultato migliore rispetto alla riperfusione della sola peroniera. In caso di impossibilità tecnica di trattamento delle arterie tibiali, un’opzione praticabile con successo è l’angioplastica dei rami perforanti distali della peroniera.
Quando non è possibile ottenere una rivascolarizzazione completa per motivi tecnici o per la necessità di ridurre i tempi procedurali e la dose di mezzo di contrasto, gli sforzi vanno concentrati sulla cosiddetta “wound related artery”, cioè la rivascolarizzazione deve mirare alla riapertura dell’arteria che irrora l’angiosoma del piede sede delle lesioni ischemiche. La rivascolarizzazione completa e quella della wound related artery non devono essere perseguite in modo acritico: la procedura deve essere sempre personalizzata sulla base di una strategia tecnica realistica, sulla tipologia delle lesioni tissutali e del loro trattamento chirurgico ortopedico e sulle condizioni cliniche generali del paziente (17-20).
Riassumendo, è evidente che lo scenario è piuttosto complesso e gravato da una incredibile numerosità delle variabili in gioco, che riguardano non solo le indicazioni e il paziente ma anche la disponibilità dei materiali e le capacità individuali (la cosiddetta "expertise"). In linea di massima, quando possibile e soprattutto per lesioni estese, è da preferire un approccio chirurgico (by-pass o TEA), mentre per lesioni segmentarie o in pazienti ad alto rischio è da preferire un approccio percutaneo. La chirurgia ibrida rappresenta una risorsa valida in situazioni complesse, soprattutto per patologie multi-livello (iliaca + femoro-poplitea o femoro-poplitea + tibiale).

 

Amputazione
È da prendere in considerazione come terapia primaria solo quando si presenta uno stato settico legato alla gangrena del piede, non controllabile con la terapia antibiotica. In questo contesto è lo stato generale a condizionare la scelta amputativa, in quanto un intervento tardivo potrebbe compromettere la sopravvivenza del paziente. Nel piede acuto diabetico la priorità è il drenaggio del piede e l'amputazione rimane una scelta salva-vita. A distanza di alcuni giorni dal drenaggio, quando l'infezione è sotto controllo, si valuta che tipo di ricostruzione mettere in atto, se il tessuto residuo è sufficiente a garantire un appoggio. Infatti, un ulteriore aspetto da valutare è la funzionalità residua dell’arto in fase post-riparativa: una necrosi estesa alla maggior parte del piede impedisce con presumibile certezza una ripresa funzionale del piede stesso e quindi è inutile procedere a una rivascolarizzazione. L’impossibilità di riparare il danno arterioso è divenuta la principale indicazione alle amputazioni primarie (circa il 60% dei pazienti). I pazienti allettati con piede diabetico hanno una contrattura spastica degli arti in posizione antalgica. Questi pazienti non hanno particolari vantaggi da una ricostruzione vascolare aggressiva e un’amputazione primaria può essere l’opzione terapeutica appropriata.
Il livello ideale di amputazione è il livello più distale che ha possibilità di guarire. Nei casi in cui si prevede di poter conservare un appoggio bipodalico, allora è indicata un'amputazione minore, cercando di conservare più tessuto possibile e di confezionare un'amputazione che interferisca il meno possibile con la meccanica del piede.

 

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Figura 3: ascesso del piede (piede acuto)

 

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Figura 4: piede acuto con fascite necrotizzante, fase del drenaggio.

 

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 Figura 5: piede acuto diabetico, fase della ricostruzione

 

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Fig 6: amputazione I dito

 

 

Chirurgia preventiva
In alcuni casi l'intervento chirurgico non è conseguente all'ulcerazione, ma serve a prevenirla: alcune deformità del piede come le dita in griffe, l'alluce valgo, il cavismo non correggibile con plantare, disallineamenti e disarticolazioni delle ossa devono essere corretti, perchè possono portare alla formazione di ulcerazioni.

 

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Paolo Marenco
AO "G. Salvini" di Garbagnate Milanese, PO di Garbagnate Milanese, 1° Divisione di Medicina Generale, Servizio di Diabetologia e Malattie Metaboliche Correlate

 

Ortesi nella prevenzione primaria
Usare plantari e scarpe protettive in tutti i pazienti con perdita della sensibilità e/o deformità del piede: scarpe termo-deformabili o auto-modellanti con plantare personalizzato prevengono lesioni da sfregamento dovute alle deformità e/o da ipercarico.

 

Ortesi nella prevenzione secondaria
Le aree sede di pregressa lesione sono molto più vulnerabili, per la ridotta elasticità del tessuto cicatriziale. Usare scarpe curative in tutti i pazienti con pregresse ulcere o amputazioni minori: scarpe con suola rigida e plantare su calco per ottimizzare lo scarico delle pressioni.
Lo scarico della lesione è la principale terapia dell’ulcera neuropatica. Il metodo più semplice è il posizionamento del paziente a letto, tuttavia tale sistema non è percorribile (1-3).
Il gold standard della terapia è il gambaletto gessato, in quanto consente di scaricare completamente la zona di pressione e permette al paziente di svolgere le normali attività quotidiane. Il gambaletto può essere fatto con le bende gessate, ma negli ultimi anni sono diventate di uso comune le vetroresine, che riducono drasticamente le lesioni dovute al gesso (4).
In alternativa si possono usare tutori, scarpe e stivali total contact casting, meglio se resi irremovibili. Su tratta di sistemi pre-confezionati con cuscini interni riempiti di aria. L'impiego in ulcere neuropatiche, non ischemiche, non infette, richiede personale ben addestrato (5,6) (fig 1).

 

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Figura 1


In pazienti con particolari difficoltà alla deambulazione si possono adoperare scarpe con plantare scavato in corrispondenza dell’area di lesione (fig 2).

 

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Figura 2

 

L'uso della terapia a pressione negativa si è dimostrato efficace nel favorire la guarigione di ampie lesioni dopo interventi di debridment aggressivo, ma solo in presenza di una buona vascolarizzazione periferica (7-10).
Il trattamento del piede di Charcot richiede la totale immobilizzazione dell’arto anche per alcuni mesi e comunque fino alla normalizzazione della temperatura (11).
La terapia iperbarica è indicata nelle infezioni da anaerobi e nei pazienti affetti da APCP non operabile.
Per quanto riguarda la medicazione della lesione, fondamentale è la detersione (12-13). Il debridement può essere di tipo chirurgico, enzimatico (collagenasi) o autolitico (idrogel). Le medicazioni possono essere semplici o avanzate. Queste ultime sono rappresentate da materiali di copertura con caratteristiche di biocompatibilità, qualità che si identifica nell'interazione del materiale con un tessuto e nell'evocazione di una specifica risposta. È importante sottolineare che non esiste una medicazione ideale in grado di accompagnare l'ulcera in tutte le fasi fino alla guarigione; esistono invece medicazioni diverse, utilizzabili a scopi differenziati nelle varie fasi del processo di guarigione. Se il prodotto è dotato di proprietà antisettiche (iodio, argento), ciò può essere di aiuto nel detergere la superficie dell'ulcera, ma trova scarsa giustificazione l'uso di un agente antisettico sulle ulcere pulite. È opportuno mantenere un appropriato grado di umidità alla superficie di un'ulcera; idrogel e idrofibre possono essere di beneficio nelle ferite più asciutte, mentre un essudato in eccesso deve essere rimosso con preparazioni adeguatamente assorbenti. Dopo la pulizia dell'ulcera e l'applicazione di qualunque prodotto, l'ulcera va coperta, per proteggerla da traumi e per mantenere adeguatamente caldo ed umido il letto dell'ulcera. L'uso improprio di medicazioni occlusive e/o il non regolare cambio della medicazione e/o non adeguata pulizia della superficie dell'ulcera possono peggiorare la prognosi, per l'accumulo di un'eccessiva quantità di essudato che favorisce la macerazione della cute circostante.

 

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Figura 3


La medicazione della fase di ricostruzione può essere tradizionale, avanzata o attiva (14-22):

  • quella tradizionale si limita a determinare emostasi e a formare un ambiente anti-settico;
  • la medicazione avanzata può essere applicata solo su lesioni asettiche e favorisce la guarigione mediante il controllo dell’essudato e il mantenimento di un ambiente umido;
  • la medicazione attiva può essere applicata solo su lesioni deterse ed asettiche, stimola specifiche tappe della ricostruzione tissutale.

 

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Silvio Settembrini
Servizio di Malattie Metaboliche e Diabetologia, ASL Napoli 1 Centro

 

La crescita progressiva di prevalenza e incidenza del diabete mellito e dell’obesità, non più solamente nel mondo occidentale, ma anche in aree quali il Sud-Est Asiatico e l’America Latina, pone l’attenzione sulle correlazioni sempre più strette tra queste due condizioni: circa l’80-90% dei pazienti con diabete mellito di tipo 2 sono obesi, e dunque l’obesità si può considerare il maggior fattore di rischio per lo sviluppo di diabete tipo 2, il cui grado condiziona la comparsa del diabete. In tutti i paesi europei e negli USA la prevalenza del diabete tipo 2 nella popolazione obesa è di circa 2-3 volte superiore rispetto alla popolazione generale, e la prevalenza di  diabete tipo 2 aumenta in maniera significativa all’aumentare del sovrappeso, sia nei soggetti più giovani che nei più anziani (1).
Durata dell’obesità e distribuzione dell’adiposità viscerale e centrale, insieme al rapido incremento del peso sono ulteriori fattori di rischio di sviluppo di diabete tipo 2. Altro elemento di rischio relativo di diabete tipo 2 nei due sessi è il BMI: sia nei maschi (2), che nelle femmine (3) è stata documentata una significativa associazione tra BMI e predizione di sviluppo di diabete tipo 2, con aumento del rischio relativo all’aumentare progressivo del BMI. Peraltro, lo studio prospettico IRAS (4) ha documentato che in una popolazione normale la circonferenza vita elevata, ma non il BMI elevato, risulta il maggiore predittore di declino di sensibilità insulinica e dunque di rischio di sviluppo di diabete 2. Altri autori (5) hanno proposto analisi fattoriali per correlare gli elementi predittivi di diabete nell’obesità: con analisi multivariata, la predizione di diabete nei soggetti non diabetici si raggruppa in tre gruppi:

  • metabolico, che comprende BMI, circonferenza vita, glicemia 2° ora, sensibilità insulinica, HDL-colesterolo e PAI-1;
  • cosiddetto “infiammatorio”, costituito da proteina C reattiva, fibrinogeno, sensibilità insulinica;
  • pressorio, rappresentato dai valori di pressione arteriosa.

Ciascuno dei tre gruppi costituiva un predittore significativo di diabete, ribadendo come l’obesità, soprattutto viscerale con lo stato pro-infiammatorio che comporta  cronicamente, rappresenti un importante predittore indipendente di sviluppo di diabete di tipo 2.
Riassumendo, gli indicatori di rischio di sviluppo di diabete mellito di tipo 2 possono essere compresi:

  • nel BMI attuale, nella precocità di comparsa dell’obesità e nella sua durata, e nella valutazione cronologica dell’incremento assoluto di peso realizzatosi nell’età adulta;
  • inoltre, nell’analisi delle caratteristiche dell’obesità addominale: aumentato rapporto vita/fianchi (6) e aumentata circonferenza addominale (7), con correlati quali l’iperinsulinemia a digiuno e l’ipertrofia degli adipociti addominali (8,9).

Ora, per ciò che attiene la correlazione tra sindrome metabolica e diabete mellito di tipo 2 (10), è più agevole la definizione di causa-effetto per i rapporti tra insulino-resistenza, iperglicemia e ipertensione arteriosa; più complessi e articolati sono i determinanti patogenetici nello sviluppo di diabete mellito tipo 2 nel paziente obeso. Si va da una teoria metabolica in senso stretto, che spiega l’iperglicemia come la conseguenza di una lipo-gluco-tossicità diffusa organo-sistemica (11,12), ad altre che vedono il primum movens nel mitocondrio e nella sua disfunzione, con conseguente ridotta biogenesi mitocondriale e stress ossidativo (13). Ancora si discute poi sulla disfunzione adipocitaria e la liberazione di adipocitochine (14) e, più in generale, su una teoria immuno-infiammatoria (15). Questa vedrebbe una risposta immune alla disregolazione adipocitaria (16) e al sovraflusso di substrati lipidici, con reclutamento macrofagico e linfocitario (17), up-regulation immuno-citochinica e attivazione di sistemi trascrizionali, quali il NFkB (Nuclear Factor kB) o il Nfr2 (Nuclear factor (erythroid-derived 2)-like 2)(18), con successiva amplificazione molecolare e cellulare di meccanismi patogenetici, il cui complesso, il cosiddetto “infiammasoma” (19) automantiene la malattia, orientandone gli sviluppi successivi. Altri autori incentrano la genesi del diabete su singole vie di segnale, quali il sistema Smad-TGFß (20), oppure su difetti traslazionali, identificando in taluni microRNA (21) elementi predisponenti, o ancora su geni candidati e di suscettibilità (22), o sullo stress del reticolo endoplasmico liscio (23).
Del tutto recentemente si sta consolidando una teoria che vede nella disregolazione del microbiota intestinale un momento centrale nella genesi del diabete (24,25). Il micro-ambiente intestinale, in risposta a un eccessivo carico di nutrienti glicidici e lipidici e a sostanze di varia natura e provenienza contenute negli alimenti (conservanti, metalli, disruptors, ecc.), inizia a produrre svariate endo-tossine. Queste attraversano la barriera intestinale e si diffondono in tutti gli organi, con conseguenze metaboliche sfavorevoli, oltre a determinare apoptosi della cellula L intestinale, che produce GLP-1, indispensabile   alla ß-cellula per  il suo  differenziamento e per lo stimolo sull’insulina in risposta a un pasto di carboidrati. Il fatto che le terapie farmacologiche a base di incretine (analoghi GLP-1 e inibitori DPP-IV)(26-28) oppure la chirurgia bariatrica (29) ripristinino un’adeguata attività incretinica, con notevole miglioramento della glicemia e talora ripristino dell’omeostasi del glucosio, sono a favore del ruolo del microbiota intestinale quale “controllore” di un adeguato equilibrio metabolico.

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Figura 1 (modif da 11)

 

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Francesco Tassone
SC di Endocrinologia, Diabetologia e Metabolismo; ASO Santa Croce e Carle, Cuneo

(aggiornato al 18 marzo 2020)

 

Rispetto alla popolazione generale, la malattia cardio-vascolare aterosclerotica (ASCVD) colpisce maggiormente i pazienti affetti da diabete mellito, costituendo in loro la principale causa di mortalità.
La malattia aterosclerotica ha un’eziologia multi-fattoriale, che conmprende ipertensione, dislipidemia, obesità, infiammazione cronica, stile di vita sedentario e fumo di sigaretta. Studi epidemiologici hanno dimostrato che la presenza di diabete mellito, particolarmente se associato alla dislipidemia, determina un netto incremento del rischio CV se comparato a quello conferito dagli altri singoli fattori di rischio.

 

FISIOPATOLOGIA DELLA DISLIPIDEMIA NEL DIABETE (1)
Sebbene la prevalenza di dislipidemia sia maggiore in pazienti con diabete mellito tipo 2 (DMT2), alcune alterazioni lipidiche possono essere presenti anche in pazienti affetti da diabete mellito tipo 1 (DMT1). Tali pazienti, se scompensati dal punto di vista glico-metabolico, presentano elevati livelli di lipoproteine ricche in trigliceridi (VLDL e chilomicroni - CM), a causa di una ridotta attività della lipoprotein-lipasi (LPL) nei muscoli e negli adipociti. Ciò promuove un incremento dello scambio di esteri del colesterolo dalle HDL e dalle LDL in sostituzione dei trigliceridi (TG) contenuti nei CM e nelle VLDL, con conseguente riduzione dei livelli di HDL e incremento di LDL piccole e dense. Poichè l’espressione del recettore per le LDL è regolata in parte dall’insulina, l’insulino-deficienza è anche associata a un incremento sia dei livelli assoluti di LDL sia del numero di particelle LDL, sia dei livelli di apo-lipoproteina B100.
Molti pazienti con DMT2 presentano un insieme di anomalie lipidiche, che includono elevati livelli di TG a digiuno e post-prandiali e ridotti livelli di colesterolo HDL. I livelli di colesterolo totale ed LDL solitamente non sono differenti tra pazienti affetti da DMT2 e popolazione generale, anche se alcuni studi, tra cui lo Strong Heart Study, riportano che donne affette da DMT2 possono presentare livelli modestamente incrementati di colesterolo LDL.
Nonostante i livelli assoluti di colesterolo LDL siano solitamente normali, i pazienti con DMT2 presentano livelli incrementati di LDL piccole e dense. Questo fenotipo dislipidemico dei pazienti affetti da DMT2 frequentemente non viene corretto con il miglioramento del controllo glico-metabolico ed è presente spesso anche nei pazienti insulino-resistenti ‘prediabetici’.
La fisiopatologia della dislipidemia nel DMT2 è complessa, ma in breve si può ricondurre a due alterazioni principali, i difetti dell’azione insulinica e l’iperglicemia.
La ridotta azione insulinica tipica dei pazienti affetti da DMT2 con insulino-resistenza ha come conseguenza una ridotta azione dell’LPL, con conseguente incremento di TG e decremento dei livelli di colesterolo HDL. Inoltre, in condizioni di insulino-resistenza si osserva un incremento del flusso di acidi grassi non esterificati dal tessuto adiposo viscerale, che riduce ulteriormente l’attività della LPL, stimolando la sovra-produzione epatica di grosse particelle VLDL che, insieme ai CM assorbiti dall’intestino, saturano l’attività della LPL. Questo contribuisce all’iperlipemia post-prandiale che si osserva negli individui insulino-resistenti. La formazione di LDL piccole e dense è principalmente modulata dall’azione della “cholesteryl-ester-transfer-protein” (CETP), che promuove lo scambio di esteri del colesterolo dalle VLDL o dai CM verso le LDL. In questo modo si formano particelle LDL ricche in trigliceridi e povere di esteri del colesterolo, che sono metabolizzate dalla LPL o dalla lipasi epatica, generando così le LDL piccole e dense. Le LDL piccole e dense sono presenti nei pazienti insulino-resistenti e/o affetti da DMT2 anche in presenza di livelli relativamente normali di TG.
È stata inoltre descritta una lipogenesi epatica ‘de novo’ di TG e VLDL in condizioni di obesità e insulino-resistenza, che contribuisce ulteriormente alla dislipidemia.
Altri aspetti della dislipidemia che caratterizzano DMT2 e insulino-resistenza sono i livelli ridotti di colesterolo HDL e Apo-A1, in relazione all’azione della CETP, all’azione incrementata della lipasi epatica e all’idrolisi aumentata dei TG con produzione di HDL più piccole e dense. Queste sono rimosse più rapidamente a livello epatico rispetto alle HDL più grosse dal punto di vista dimensionale e ciò contribuisce a un’ulteriore riduzione dei livelli assoluti di HDL e Apo A1.

 

COME GESTIRE LA DISLIPIDEMIA NEI DIABETICI
Indicazioni delle linee guida
Secondo le più recenti LG ADA (2), negli adulti che non assumono statine o altra terapia ipolipemizzante è ragionevole eseguire un profilo lipidico al momento della diagnosi di diabete, da ripetere ogni 5 anni se il paziente è < 40 anni, oppure più frequentemente se indicato. Viene raccomandato inoltre di eseguire un profilo lipidico all'inizio della terapia con statine o con altra terapia ipolipemizzante, 4-12 settimane dopo l'inizio della terapia o di una modifica di dose, e successivamente ogni anno, poiché può aiutare a monitorare la risposta alla terapia e dare informazioni sull’aderenza.
Le recenti LG diabetologiche italiane SID-AMD 2018 (3) indicano che possono essere utilizzati come obiettivi secondari colesterolo-non-HDL e valori di Apo B, in particolare nei diabetici con TG > 200 mg/dL.
Nelle ultime LG AACE 2017 (4) il diabete con ASCVD è inserito nella nuova categoria di rischio ‘estremo’, in cui sono raccomandati i seguenti obiettivi: LDL < 55 mg/dL, colesterolo-non-HDL < 80 mg/dL e Apo B < 70 mg/dL.
Le linee guida lipidologiche ESC/EAS 2019 (5) specificano che i pazienti diabetici ‘giovani’, cioè DMT1 < 35 anni e DMT2 < 50 anni, sono da considerare a rischio CV ‘moderato’, in cui applicare target di LDL < 100 mg/dL. Dal punto di vista terapeutico, sono raccomandate:

  • modifiche dello stile di vita focalizzate alla perdita di peso (se indicato);
  • alimentazione mediterranea o modelli alimentari tipo ‘dieta DASH’;
  • riduzione di grassi saturi e grassi trans; incremento dell’introito di acidi grassi omega-3, fibre, fitosteroli;
  • maggiore attività fisica per migliorare il profilo lipidico e ridurre il rischio di ASCVD;
  • intensificazione delle modifiche dello stile di vita e ottimizzazione del controllo glicemico per pazienti con livelli elevati di TG (≥ 150 mg/dL) e/o bassi di colesterolo HDL (< 40 mg/dL nell’uomo, < 50 mg/dL nelle donne).

 

Prevenzione primaria
Oltre alle modifiche dello stile di vita, aggiungere terapia con statine nei diabetici con:

  • età di 40-75 anni senza ASCVD, utilizzando statine a “intensità moderata”;
  • età di 20-39 anni con ulteriori fattori di rischio di ASCVD;
  • molteplici fattori di rischio per ASCVD o età di 50-70 anni, utilizzando statine ad “alta intensità”.

Nei diabetici adulti con rischio ASCVD elevato o molto elevato, può essere ragionevole aggiungere alla dose massima tollerata di statine anche ezetimibe, per ottenere una riduzione di colesterolo LDL ≥ 50%.

 

Prevenzione secondaria
Oltre alle modifiche dello stile di vita, la terapia con statine nei diabetici:

  • deve essere somministrata se presente ASCVD, utilizzando statine ad alta intensità;
  • deve essere comunque utilizzata al dosaggio massimo tollerato nei pazienti che non tollerano la statina ad alta intensità;
  • se di età > 75 anni:
    • è ragionevole continuare il trattamento se già in corso;
    • potrebbe essere ragionevole iniziare la terapia dopo aver discusso potenziali benefici e rischi;
  • deve prevedere l'aggiunta di ulteriori farmaci ipolipemizzanti (come ezetimibe, preferibile per il costo inferiore, o anti-PCSK9) se ASCVD a rischio molto elevato utilizzando criteri specifici e se colesterolo LDL > 70 mg/dL durante terapia con statine a dosi massimali.

La terapia con statine è controindicata in gravidanza.
SID-AMD 2018 raccomandano che nei pazienti con sindrome coronarica acuta, indipendentemente dai valori di colesterolo LDL, la terapia con statine vada iniziata già in fase acuta e proseguita per almeno 6 mesi ad alte dosi (3).

 

Trattamento di altre frazioni lipoproteiche e/o altri target (oltre al colesterolo LDL)

Si raccomanda:

  • per i pazienti con TG a digiuno > 500 mg/dL, valutare cause secondarie di ipertrigliceridemia e considerare la terapia medica (fibrati, omega-3) per ridurre il rischio di pancreatite;
  • negli adulti con ipertrigliceridemia moderata (TG 175-499 mg/dL), trattare i fattori legati allo stile di vita (obesità e sindrome metabolica), i fattori secondari (diabete, patologie epatiche o renali croniche, sindrome nefrosica, ipotiroidismo) e fare attenzione ai farmaci che aumentano i TG;
  • nei pazienti con ASCVD o altri fattori di rischio per ASCVD già in terapia con statine, con colesterolo LDL controllato ma TG elevati (135–499 mg/dL), considerare l’aggiunta di icosapent-etile per ridurre il rischio CV.

Secondo SID-AMD 2018 (3) nella dislipidemia mista con TG stabilmente > 200 mg/dL si può considerare di associare il fenofibrato alla statina.

 

Altre terapia di combinazione
La terapia di combinazione statina più fibrato non ha dimostrato di migliorare gli esiti di ASCVD e generalmente non è raccomandata.
La terapia di combinazione statina più niacina non ha dimostrato di fornire un ulteriore beneficio CV e può aumentare la rischio di ictus con ulteriore effetti collaterali, pertanto non è generalmente consigliata.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Jaiswal M, Schinske A, Pop-Busui R. Lipids and lipid management in diabetes. Best Pract Res Clin Endocrinol Metab 2014, 28: 325-38.
  2. Cardiovascular Disease and Risk Management: Standards of Medical Care in Diabetes – 2020. Diabetes Care 2020, 43 suppl 1: S111–34.
  3. SID-AMD. Standard italiani per la cura del diabete mellito. 2018.
  4. Jellinger PS, et al. AACE and ACE Guidelines for management of dyslipidemia and prevention of cardiovascular disease. Endocr Pract 2017, 23 suppl 2: 1-87.
  5. Authors/Task Force members; ESC Committee for Practice Guidelines (CPG); ESC National Cardiac Societies. 2019 ESC/EAS guidelines for the management of dyslipidaemias: Lipid modification to reduce cardiovascular risk. Atherosclerosis 2019, 290: 140-205.
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Alberto Blatto
SC Endocrinologia e Malattie Metaboliche, ASL Città di Torino, sede Ospedale Maria Vittoria

(aggiornato al 26 dicembre 2019)

 

Le complicanze macro-vascolari rappresentano la principale causa di morbilità e mortalità nei pazienti diabetici (prevalentemente di tipo 2), come pure dell’aumento dei costi diretti e indiretti della malattia (1,2).
S. Haffner e coll in uno studio del 1998 affermarono che un paziente diabetico con anamnesi negativa per infarto miocardico (IM) aveva un rischio maggiore di incorrere in un IM di un soggetto non diabetico che avesse già avuto un evento ischemico cardiaco (3). Questa affermazione negli anni è stata, peraltro, ridimensionata. Alcuni studi hanno evidenziato che l’età cardio-vascolare (CV) di un soggetto diabetico anticipa da 10 a 15 anni quella cronologica. L’iperglicemia rappresenta, comunque, un fattore indipendente di rischio CV, così come le varie comorbilità spesso associate al diabete: ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia (e dislipidemia in generale), fumo di sigaretta e iperaggregabilità piastrinica. Tutte queste condizioni favoriscono la comparsa delle classiche manifestazioni cliniche aterosclerotiche CV: coronaropatia e arteriopatia periferica.
L’aumentato rischio CV coinvolge sia il diabetico di tipo 1 che di tipo 2; se in quest’ultimo l’aterosclerosi (favorita da ipertensione e dislipidemia) gioca un ruolo fondamentale, nel diabete tipo 1 il rischio è direttamente proporzionale all’età, alla durata del diabete, al grado di compenso, alla presenza di retinopatia e di microalbuminuria.
Nel 2008 Gaede e coll pubblicarono lo studio STENO 2 e dimostrarono che un trattamento multi-fattoriale intensivo, che prevedesse uno stretto controllo glicemico e l’uso di bloccanti del sistema renina-angiotensina, aspirina e agenti ipolipemizzanti, era efficace nel ridurre il rischio di complicanze CV non fatali in pazienti con diabete mellito di tipo 2 e microalbuminuria. Lo studio dimostrò che questo approccio riduceva anche l’incidenza di mortalità da qualsiasi causa e per eventi CV. È probabile che questi farmaci (e loro succedanei) rappresentino, insieme alle modifiche dello stile di vita, alla cessazione del fumo, ecc, veri e propri “protettori” delle arterie dei soggetti diabetici (4).
In tutti i pazienti con diabete tipo 2 deve essere implementato un intervento intensivo e multi-fattoriale teso all’ottimizzazione di tutti i fattori di rischio CV mediante modifiche dello stile di vita e idonea terapia farmacologica (livello della prova I, forza della raccomandazione A).
È consigliabile che in tutte le persone con diabete, a partire dalla diagnosi della malattia, sia effettuato annualmente uno screening per la malattia CV (livello della prova III, forza della raccomandazione B) (1,2). Tutte le persone con diabete, indipendentemente dal livello di rischio, devono eseguire annualmente (livello della prova III, forza della raccomandazione B):

  • esame dei polsi periferici e ricerca di soffi vascolari;
  • ECG basale;
  • determinazione dell’indice caviglia-braccio  di Winsor.

Fondamentale appare, peraltro, il riconoscimento precoce della cardiopatia ischemica cosiddetta “silente”. Interessante, a questo proposito, appare la “Consensus” (2010) AMD, SID, ANMCO, ARCA, SIC, SISA. Lo screening deve essere effettuato solo in pazienti con ragionevole aspettativa e qualità di vita, in particolare se potenzialmente candidabili per una rivascolarizzazione; inoltre, la probabilità di riscontro di cardiopatia ischemica silente nella popolazione testata deve essere sufficientemente elevata, al fine di ottimizzare il rapporto costo-beneficio dello screening.
Tornando al rapporto fra diabete (tipo 2 in particolare) e malattia CV, bisogna affrontare i singoli fattori di rischio (che concorrono alla valutazione del rischio CV globale).

Ipertensione arteriosa: non si segnalano nuovi farmaci in aggiunta al considerevole numero di molecole a disposizione (ACE-inibitori, sartani, calcio-antagonisti, ß-bloccanti, α-bloccanti, diuretici, nei vari dosaggi e nelle varie combinazioni precostituite).

Dislipidemia: considerando che cLDL è un fattore di rischio indipendente per IM nel diabete e tenendo presente che le statine sono farmaci da anni sul mercato, sembrerebbe facile pensare che la maggioranza dei pazienti siano a target per questo parametro; i dati della letteratura, viceversa, parlano di percentuale deludente. Ma quale target? ADA 2019 e AMD/SID 2018 parlano di target cLDL ≤ 100 mg/dL in pazienti diabetici in prevenzione primaria con fattori di rischio CV e ≤ 70 mg/dL in prevenzione secondaria. Peraltro, la recente pubblicazione (2019) delle linee guida ESC/EAS (5) parla chiaramente di nuovi target per i pazienti diabetici, definiti chiaramente a rischio CV alto/molto alto:

  • prevenzione secondaria in paziente a rischio CV molto elevato: cLDL ≤ 55 mg/dL (raccomandazione I A);
  • prevenzione primaria in pazienti a rischio CV molto elevato: cLDL ≤ 55 mg/dL (I C);
  • prevenzione primaria in pazienti ad alto rischio: cLDL ≤ 70 mg/dL (I A);
  • prevenzione in pazienti a rischio moderato (quindi non diabetici): cLDL ≤ 100 mg/dL (II A).

Soluzioni in ambulatorio di diabetologia:

  • abbandono delle statine deboli (simvastatina, pravastatina, lovastatina);
  • alti dosaggi di atorvastatina e rosuvastatina;
  • associazioni (precostituite e non) con ezetimibe;
  • maggiore utilizzo di inibitori PCSK9 (evolocumab, alirocumab), che sono molto costosi, ma hanno raggiunto ottimi risultati con valori di cLDL anche minori dei target richiesti da ESC/EAS.

Aggregazione piastrinica: non indicazioni diverse dall’uso di anti-aggreganti piastrinici vecchi (acido acetil-salicilico, clopidogrel, ticlopidina) e nuovi (ticagrelor e prasugrel). Nella persona diabetica si conferma la scarsa utilità in prevenzione primaria.

Compenso glico-metabolico: è noto che il miglioramento del compenso riduce il rischio CV; la riduzione di 1% di HbA1c riduce del 14% il rischio di attacco ischemico cardiaco, del 43% il rischio di amputazione e del 12% il rischio di ictus. Molte sono le armi a disposizione del diabetologo per raggiungere il target di HbA1c (6-7%). Ma le novità sono rappresentate da due classi di farmaci che hanno dimostrato, oltre ad una azione ipoglicemizzante, la capacità di proteggere il cuore (e il rene).

Agonisti recettoriali del GLP-1

  • liraglutide ha dimostrato nello studio LEADER (9000 pazienti in prevenzione primaria arruolati) di ridurre il numero di MACE, di mortalità CV e mortalità da tutte le cause (6);
  • semaglutide nello studio SUSTAIN 6 ha dimostrato la capacità di ridurre i MACE di oltre il 25% (7);
  • risultati simili anche per dulaglutide (studio REWIND, 8) ed exenatide LAR (studio EXSCEL, 9).

Inibitori SGLT-2:

  • empagliflozin nello studio EMPAREG Outcome ha dimostrato, in una popolazione in prevenzione secondaria, di ridurre i MACE (in particolare la mortalità CV del 38%) e i ricoveri per scompenso cardiaco (10);
  • canagliflozin nello studio CANVAS ha dimostrato analoghi risultati, anche se con rischi relativi non così eclatanti (11);
  • dapagliflozin nello studio DECLARE, in una popolazione per il 50% in prevenzione primaria, ha dimostrato una diminuzione significativa dei MACE (IMA ridotto dell’11%) e una riduzione del 27% del rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco (12). Gli effetti positivi sul sistema cardiaco sembrano slegati dall’effetto sul compenso glicemico (circa 0.5-0.8% di riduzione di HbA1c).

A ulteriore dimostrazione di questo dato, si segnala il trial DAPA-HF, nel quale i dati protettivi sulla riduzione del rischio di ricovero per scompenso cardiaco, erano appannaggio anche di pazienti non diabetici e con frazione di eiezione ridotta (13,14). Dapagliflozin (e in generale le gliflozine) è da intendersi quindi come farmaco cardiologico?
Infine, si sottolinea la nuova possibilità di un ruolo della micro-angiopatia diabetica, nella genesi dello scompenso cardiaco, notoriamente attribuito alla macro-angiopatia.

 

Bibliografia

  1. Standards of medical care in diabetes 2020. Diabetes Care 2020, 43 (suppl 1): 1-204.
  2. AMD-SID. Standard italiani per la cura del diabete mellito. 2018.
  3. Haffner SM, et al. Mortality from coronary heart disease in subjects with type 2 diabetes and in nondiabetic subjects with and without prior myocardial infarction. N Engl J Med 1998, 339: 229-34.
  4. Gaede P, et al. Effect of multifactorial intervention on mortality in type 2 diabetes. N Engl J Med 2008, 358: 580-91.
  5. Mach F, et al. 2019 ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias: lipid modification to reduce cardiovascular risk. Eur Heart J 2019, DOI: 10.1093/eurheartj/ehz455.
  6. Marso SP, et al, LEADER Study. Liraglutide and cardiovascular outcomes in type 2 diabetes. N Engl J Med 2016, 375: 311-22.
  7. Marso SP, et al, SUSTAIN-6 Investigators. Semaglutide and cardiovascular outcomes in patients with type 2 diabetes. N Engl J Med 2016, 375: 1834-44.
  8. Gerstein HC, et al, REWIND Investigators. Dulaglutide and cardiovascular outcomes in type 2 diabetes (REWIND): a double-blind, randomised placebo-controlled trial. Lancet 2019, 394: 121-30.
  9. Holman RR, et al, EXSCEL Study Group. Effects of once-weekly exenatide on cardiovascular outcomes in type 2 diabetes. N Engl J Med 2017, 377: 1228-39.
  10. Zinman B, et al, Empareg OUTCOME Study. Empagliflozin, cardiovascular outcomes, and mortality in type 2 diabetes. N Engl J Med 2015, 373: 2117-2
  11. Neal B, et al. CANVAS Program Collaborative Group. Canagliflozin and cardiovascular and renal events in type 2 diabetes. N Engl J Med 2017, 377: 644-57.
  12. Mosenzon O, et al. Effects of dapagliflozin on development and progression of kidney disease in patients with type 2 diabetes: an analysis from the DECLARE-TIMI 58 randomised trial. Lancet Diabetes Endocrinol 2019, 7: 606-17.
  13. Mc Murray JJV, et al. Dapagliflozin in patients with heart failure and reduced ejection fraction. DAPA HF trial. N Engl J Med 2019, 381: 1995-2008.
  14. Tromp J, et al, ASIAN-HF. Microvascular disease in patients with diabetes with heart failure and reduced ejection versus preserved ejection fraction. Diabetes Care 2019, 42: 1792-9.
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Alessandra Fusco
Centro Diabetologia ASL Avellino

(aggiornato al 14 dicembre 2019)

 

Epidemiologia
Ipertensione arteriosa essenziale e diabete mellito (DM) sono due patologie croniche molto comuni. La prevalenza del DM tipo 2 (DMT2) è in crescita nelle popolazioni che adottano stili di vita caratterizzati da sedentarietà ed eccessivo introito calorico. Sia DM che ipertensione sono fattori di rischio per malattia coronarica, patologia cerebro-vascolare e scompenso cardiaco congestizio (1-2). Le complicanze micro-vascolari, retinopatia e nefropatia, sono più frequenti nei diabetici ipertesi (3-4). L’ipertensione è due volte più frequente nei diabetici rispetto ai non diabetici, mentre i pazienti ipertesi hanno un rischio aumentato di sviluppare DM. Nel San Antonio Heart Study, l’85% dei pazienti con DMT2 aveva ipertensione, mentre il 50% di quelli ipertesi sviluppava intolleranza glucidica o DMT2 (5). La prevalenza sia di ipertensione che di DM aumenta con l’aumentare dell’età (6) e per questo spesso le due patologie coesistono nei soggetti anziani.
La definizione di ipertensione nel DM è simile a quella della popolazione non diabetica, e la soglia per iniziare un trattamento farmacologico è un valore di pressione arteriosa (PA) persistentemente al di sopra di 140/90 mmHg. I pazienti con DM possono presentare ipertensione sistolica isolata e sono più resistenti al trattamento farmacologico. Nella survey EUROASPIRE, solo il 54% dei pazienti diabetici raggiungeva valori di PA < 140/90 mmHg (7).

 

Aspetti fisiopatologici e molecolari
DM e ipertensione sono spesso associati a obesità e insulino-resistenza (8) e condividono alcuni fattori di rischio cardio-vascolare (CV), quali la disfunzione endoteliale, l’infiammazione vascolare, l’aterosclerosi, la dislipidemia (figura).

 

 

Fenomeni che predispongono alla malattia cardio-vascolare nel Diabete e nell’Ipertensione. Fattori di rischio comuni favoriscono la comparsa di Ipertensione e/o Diabete, che si associano ad aterosclerosi, disfunzione endoteliale, infiammazione, fibrosi vascolare e rimodellamento strutturale della parete vasale, determinando la malattia cardio-vascolare (9).

 

La malattia macro-vascolare è una condizione clinica caratterizzata da un processo infiammatorio complesso, che può indurre infarto del miocardio, ictus, arteriopatia periferica. Il principale processo patologico associato alla malattia macro-vascolare è l’aterosclerosi, che è accelerata dal DM e dall’ipertensione arteriosa. Nel soggetto sano, l’insulina mantiene l’omeostasi del glucosio, attraverso la sua azione sul metabolismo dei carboidrati, delle proteine e dei lipidi. La perdita della sensibilità all’insulina (insulino-resistenza) coinvolge soprattutto fegato, muscoli e tessuto adiposo, ed è selettiva per il metabolismo del glucosio e dei lipidi, mentre risparmia l’azione sodio-ritentiva dell’insulina a livello del tubulo renale (10). L’insulino-resistenza è presente anche molti anni prima della comparsa del DM, è spesso associata all’obesità, ma può essere presente anche in soggetti magri con ipertensione arteriosa (11). L’eccessivo introito calorico induce ipertrofia degli adipociti, con aumento dei depositi di lipidi; nel grasso viscerale gli adipociti ipertrofici sono più suscettibili all’apoptosi, e ciò favorisce l’infiltrazione dei macrofagi e la produzione di citochine infiammatorie. Le conseguenze metaboliche dell’insulino-resistenza e lo status pro-infiammatorio favoriscono la disfunzione endoteliale, un fenomeno cruciale nel modulare il processo dell’aterosclerosi, sia nell’ipertensione arteriosa che nel DM (12). L’infiammazione cronica dell’endotelio vascolare e delle cellule muscolari della parete vasale, causa proliferazione cellulare, ipertrofia, rimodellamento ed apoptosi (13). Questi fenomeni accelerano lo squilibrio tra le proteine della parete vasale, elastina e collagene, che compromette la compliance e l’elasticità del vaso, un fenotipo caratteristico dell’ipertensione arteriosa. Alcuni aspetti fisiopatologici che coinvolgono il sistema adrenergico, il sistema incretinico e quello dei canali del calcio, sono comuni sia al DM che all’ipertensione (14). Alterazioni dei canali del calcio possono inibire la trascrizione del gene dell’insulina e indurre ritenzione di liquidi e aumento della rigidità delle arteriole.
I meccanismi molecolari che mediano le complicanze CV nei pazienti con DM e ipertensione includono accumulo di AGE (prodotti finali della glicazione), stress ossidativo, infiammazione, attivazione del sistema immune, microRNA. L’iperglicemia favorisce la formazione degli AGE, che si accumulano nella matrice extra-cellulare dei vasi e contribuiscono al danno vascolare nei diabetici, stimolando la produzione di radicali liberi (ROS). I ROS favoriscono i processi infiammatori e immunitari a livello della parete vasale. L’ipertensione amplifica questi fenomeni, accelerando il danno endoteliale nel DM. Il legame tra infiammazione e attivazione del sistema immune nelle malattie metaboliche e nell’ipertensione arteriosa è supportato da numerosi studi sperimentali. Le citochine infiammatorie (quali TNF-alfa, gamma-interferon, IL-1 e IL-12) possono influenzare la sensibilità insulinica periferica tissutale e modulare il rilascio di insulina dalle cellule pancreatiche (15,16). I microRNA sono RNA non codificanti implicati nell’espressione genica e nella patogenesi di molti processi patologici, tra cui il DMT2 e le sue complicanze. Sono stati identificati alcuni microRNA specifici delle ß-cellule pancreatiche, che sembrano avere un ruolo nella secrezione insulinica e nella funzione pancreatica (17).

 

Obiettivi pressori
La riduzione della PA nei diabetici è essenziale, tuttavia è ancora controverso quale sia il target pressorio ottimale.
Nello studio UKPDS, è stata valutato l’effetto del controllo pressorio sugli esiti CV in pazienti diabetici. Sono stati reclutati 1148 pazienti diabetici randomizzati a un controllo pressorio intensivo (PA < 150/85) o meno stringente (PA < 180/105) (18). Dopo un follow-up di circa 8 anni, il gruppo con controllo pressorio più stringente, aveva una riduzione degli end-point CV, della morte per cause legate al diabete, di ictus, degli end-point micro-vascolari e dello scompenso cardiaco. Inoltre, lo studio ha dimostrato che il controllo pressorio è importante quanto quello glicemico nel prevenire gli eventi CV.
Lo studio ACCORD-BP ha valutato gli effetti del controllo intensivo della pressione arteriosa in diabetici da almeno 10 anni, ipertesi, con una malattia CV pregressa o almeno due fattori di rischio CV (19). Lo studio prevedeva due gruppi di trattamento, il cui target di PA sistolica era < 140 mmHg o < 120 mmHg. Non si è registrata nessuna differenza negli esiti primari CV tra i due gruppi, mentre il gruppo con target più ambizioso aveva assunto un maggior numero di farmaci e aveva avuto un maggior numero di eventi avversi.
I risultati dello studio ACCORD-BP sono in apparente contrasto con quelli dello studio SPRINT, su pazienti ipertesi non diabetici, che ha invece dimostrato i benefici di un controllo pressorio intensivo (PA sistolica < 120 mmHg) in termini di riduzione della mortalità CV, in particolare nei soggetti anziani (< 75 anni) (20).
Non è chiaro quale sia la spiegazione dei differenti risultati ottenuti negli studi ACCORD-BP e SPRINT. Alcuni ipotizzano che nei diabetici l’obiettivo pressorio dovrebbe essere meno stringente, perché il DM ha un effetto negativo sui meccanismi di auto-regolazione del flusso sanguigno arteriolare, che rende il diabetico più vulnerabile ai danni dell’ipoafflusso sanguigno agli organi vitali. Una meta-analisi di 13 studi con 37.000 pazienti diabetici ipertesi conclude che il controllo intensivo della PA sistolica (< 130 mmHg) si associa a una riduzione del 10% del rischio di mortalità per tutte le cause, anche se non si osservano differenze in termini di eventi micro- e macro-vascolari. Per quanto riguarda l’ictus, un controllo intensivo della PA induce una riduzione del 17% del rischio, che si riduce ulteriormente per valori di PA < 120 mmHg (21). Un’altra meta-analisi (31 studi randomizzati con oltre 73.000 pazienti diabetici ipertesi) documenta una riduzione del 31% del rischio di ictus (riduzione del 13% per diminuzione di 5 mmHg di PA sistolica o 2 mmHg di PA diastolica). Il rischio di infarto del miocardio, però, non si modifica in maniera significativa nel gruppo con controllo pressorio intensivo (22).
È stato osservato che i pazienti diabetici hanno una maggiore probabilità di avere una ipertensione “notturna” o non-dipping”. La presenza della neuropatia diabetica si associa a minor riduzione della PA notturna, frequenza cardiaca a riposo più elevata e maggiore variabilità della PA rispetto ai soggetti non diabetici (23). Uno studio clinico ha documentato una riduzione del rischio CV correlato con la riduzione della PA notturna, quando almeno un farmaco anti-ipertensivo era somministrato alla sera (24).
L’obiettivo pressorio ottimale nel diabetico è ancora oggetto di dibattito e vi sono differenze tra le varie linee guida. Le linee guida AACE raccomandano nella maggior parte dei pazienti un obiettivo terapeutico < 130/80 mmHg (25). Nei pazienti fragili, con comorbilità, complicanze e in quelli con effetti collaterali dei farmaci, possono essere presi in considerazione obiettivi meno stringenti. Un target più ambizioso (< 120/80 mmHg) deve essere preso in considerazione in alcuni soggetti in cui può essere raggiunto con sicurezza senza il rischio di effetti collaterali. Le linee guida ESC 2019 propongono in pazienti diabetici un target di PA sistolica < 130 mmHg ma > 120; nei pazienti ultra65enni il target di PA sistolica è 130-139 mmHg (26). Per la PA diastolica, è raccomandato un target tra 70 e 80 mmHg. Sono ancora dibattuti i target pressori ottimali per pazienti giovani con DMT1, pazienti con recente diagnosi di DMT2, e diabetici con malattia coronarica.

 

Terapia
Tutte le linee guida sottolineano l’importanza della terapia non farmacologica sul controllo pressorio nei diabetici: calo ponderale, riduzione dell’apporto di sale con la dieta, attività fisica regolare.
Per quanto riguarda i farmaci da utilizzare, la maggior parte delle linee guida concorda nell’iniziare la terapia con ACE-inibitore o sartano, soprattutto in presenza di albuminuria. È stato dimostrato che sia ACE-inibitori che sartani hanno un impatto favorevole sul metabolismo glucidico, prevenendo la comparsa di DMT2 nei pazienti ipertesi (27).
L’uso dei β-bloccanti può associarsi a effetti metabolici negativi, quali aumento dei trigliceridi, riduzione di HDL, aumento di peso, riduzione della sensibilità insulinica e mascheramento dei sintomi di ipoglicemia (28). L’uso di questi farmaci è frequente in add-on alla terapia anti-ipertensiva nei diabetici con aritmia, scompenso cardiaco e malattia coronarica.
I calcio-antagonisti sono considerati ottimi farmaci per l’ipertensione nei diabetici, sia in prima linea che in add-on ad altri anti-ipertensivi, soprattutto nei diabetici anziani con ipertensione sistolica isolata (29).
Anche i diuretici, nonostante i potenziali effetti sfavorevoli sul metabolismo glucidico, possono essere utilizzati nei diabetici ipertesi, monitorando periodicamente gli elettroliti sierici.
Circa due terzi dei pazienti diabetici necessitano di almeno due farmaci per il controllo della pressione, e le linee guida suggeriscono l’aggiunta di un calcio-antagonista o di un diuretico ai farmaci che agiscono sul sistema renina-angiotensina-aldosterone.
Recentemente, sono state introdotte nuove classi di farmaci ipoglicemizzanti che hanno effetti sulla PA. Gli agonisti del GLP-1, oltre agli effetti glicemici, inducono un significativo calo ponderale e possono ridurre la PA sistolica di 1.5-2.5 mmHg. L’effetto sulla pressione arteriosa può essere in parte mitigato da un incremento della frequenza cardiaca mediante attivazione del sistema nervoso simpatico (30,31). Gli inibitori del co-trasportatore sodio/glucosio di tipo 2 sono efficaci nel controllo glicemico, riducono il peso corporeo e riducono la PA sistolica e diastolica di 3-5 mmHg e 2-3 mmHg, rispettivamente (32). I meccanismi attraverso i quali questi farmaci riducono la PA nei diabetici sono ancora dibattuti; alcune ipotesi riguardano l’effetto diuretico, un’azione di rimodellamento dei nefroni, la riduzione della rigidità delle arterie e la perdita di peso (33).

 

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Vito A Giagulli
UOT di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, PT di Conversano ASL Bari

 

Il possibile collegamento fra diabete mellito (DM) e gonadi è nell’insulino-resistenza (IR), che di per sé non è una malattia, ma piuttosto un’anomalia fisio-patologica comune a diverse condizioni cliniche quali il sovrappeso, l’obesità e il DM conclamato.
L’IR gioca un ruolo sia nella genesi della PCOS (femmine) sia nel deficit di testosterone (T, ipogonadismo maschile) insieme naturalmente all’incremento di peso (e alla conseguente variazione della composizione corporea). Inoltre, l’IR può essere a sua volta facilitata da eccesso di androgeni nella donna (PCOS) e deficit di T nel maschio. Questa condizione fisiopatologica ha un ruolo nel determinare la composizione corporea, sia nel maschio che nella donna, che si caratterizza con la presenza dell’obesità viscerale. Nello stesso tempo tale condizione si associa a una variazione del metabolismo lipidico (in senso aterogeno) e glicidico (con condizioni prediabetiche –IFG, IGT- o francamente diabetiche).

Nell’uomo esiste una correlazione (ripetutamente confermata) fra basse concentrazioni di androgeni e obesità viscerale (1). Dopo trattamento con T, si riduce il grasso viscerale, l’utilizzazione dei lipidi, il turn-over dei trigliceridi e l’attività della lipoprotein-lipasi, mentre viene stimolata la lipolisi. A ridotte concentrazione di T si può perciò giustificare l’accumulo di tessuto adiposo nell’uomo, in particolare a livello viscerale; un recente studio ha verificato che obesità ed età sono correlati dominanti a bassi livelli di T, indipendentemente dal DM2 (2). Inoltre, una recente meta-analisi (3) ha documentato che la riduzione del peso in obesi maschi risolveva la condizione di ipogonadismo, con aumento del T totale (TT), della sex hormone-binding globulin (SHBG) e soprattutto del T libero (FT), considerato la frazione biologicamente attiva del T.
In relazione  all’azione del T sulla sensibilità insulinica, si è visto che in maschi di età media con relativo ipogonadismo e adiposità viscerale, la terapia sostitutiva con T a basse dosi (tali da indurre valori fisiologici di T circolante) determina un marcato aumento della sensibilità insulinica, fino alla sua normalizzazione dopo 9 mesi di trattamento (4). Inoltre, la somministrazione cronica di T ai pazienti maschi con ipogonadismo porta a una riduzione significativa della massa grassa con aumento di quella magra (5).
Tenendo conto di tali premesse, la terapia sostitutiva con T nei soggetti con deficit androgenico dovrebbe comportare benefici, in particolare: la riduzione della massa grassa, l’aumento della massa magra, il miglioramento della sensibilità insulinica, il mantenimento della densità ossea, il miglioramento del profilo lipidico e della pressione arteriosa; tutto ciò comporterebbe una riduzione del rischio cardiovascolare.
Tuttavia, a oggi non abbiamo evidenze tali che suggeriscano l’utilizzo indiscriminato del T nei soggetti anziani. Numerosi studi in questo senso hanno avuto risultati discordanti, anche perché sono state utilizzate formulazioni e dosi di T estremamente variabili e/o non è stata fatta un’accurata selezione dei pazienti da trattare. Sebbene le condizioni di ipogonadismo congenito pre-puberale richiedano sicuramente un trattamento cronico con T, l’Endocrine Society ha invitato a selezionare con cura i pazienti da sottoporre a terapia androgenica sostitutiva e di attenersi strettamente alle linee guida emanate nel 2010 (6).

Nella donna obesa, al contrario dell’uomo, è presente un aumento di TT e FT, mentre la SHBG risulta ridotta (7,8). In particolare nelle donne con PCOS associata a obesità è spiccato l’iperandrogenismo, soprattutto in quelle con obesità viscerale. Se T risulta aumentato, SHBG è invece ridotta: questi due aspetti sono associati a IR nelle donne, sia pre- che post-menopausa (9). Anche in questo caso, se migliora l’iperandrogenismo migliora anche l’IR e quindi l’iperandrogenismo è seguito da una condizione di IR. L’IR ha come conseguenza l’iperinsulinemia secondaria e questa causa un’aumentata produzione di androgeni, creando un circolo vizioso. L’iperandrogenismo sembra più pronunciato nelle donne con obesità centrale o viscerale (7).
Queste e altre caratteristiche sono presenti nelle donne con PCOS, una condizione comune nelle donne in età fertile, con potenziali conseguenze cliniche quali: infertilità, emorragie disfunzionali, iperplasia endometriale, obesità, IR sino a diabete mellito tipo 2 conclamato e aumentato del rischio di cancro uterino. Dopo controversie sulla definizione non univoca di PCOS, nel 2003 la Consensus ESHRE/ASRM di Rotterdam affermò che per la diagnosi era necessaria la presenza di almeno 2 delle 3 seguenti caratteristiche: iperandrogenismo, oligo-anovulazione cronica e ovaio policistico. In accordo alle indicazioni di Rotterdam, è possibile suddividere le donne con PCOS in 3 fenotipi (10): la forma classica (iperandrogenismo con oligomenorrea, senza ovaio policistico), la forma ovulatoria (iperandrogenismo con ovaio policistico) e la forma normo-androgenica (oligomenorrea e ovaio policistico). In relazione alla presenza dell’IR, tuttavia, i tre fenotipi si comportano in maniera differente, essendo le forme con iperandrogenismo quelle che presentano maggiore IR ed obesità addominale (10). Infine, la stretta relazione tra iperandrogenismo e IR nelle donne con PCOS è anche evidente nel caso di trattamento con metformina. Infatti, il fenotipo con iperandrogenismo sembra avere una risposta migliore a questo trattamento (11).

Esiste anche una correlazione fra diabete e disfunzioni sessuali, sia nei maschi che nelle  femmine.
Nel sesso maschile è stato ben documentato come il diabete mellito sia un fattore di aumentato rischio per la disfunzione erettile (DE) rispetto a una popolazione non diabetica (12). Numerosi studi dimostrano correlazione fra scadente controllo glicemico e rischio di DE, o ancora come migliore controllo glicemico sia associato con migliore funzione erettile. Cambiamenti nello stile di vita, e quindi incremento dell’attività fisica, dieta mediterranea, ridotto introito calorico e di conseguenza, calo ponderale, possono migliorare la funzione erettile, migliorando la disfunzione endoteliale, riducendo l’IR e riducendo lo stato pro-infiammatorio associato al diabete e alle malattie metaboliche (13,14).
L’iperglicemia, che è il principale determinante di complicanze vascolari, in particolare micro, potrebbe partecipare al meccanismo patogenetico della disfunzione sessuale (anche via neuropatia). A ciò si aggiungano le numerose condizioni cliniche, quali ipertensione arteriosa, sovrappeso-obesità, sindrome metabolica (SM), fumo, dislipidemia aterogena che sono di per sé fattori di rischio per disfunzioni sessuali, sia nelle donne che negli uomini. L’iperlipemia aterogena, lo stato pro-infiammatorio, e soprattutto l’iperglicemia, sia via micro- che via macro-angiopatia possono generare la riduzione del T nel maschio. Livelli di T al di sotto della norma sono stati rilevati nel 25% di pazienti con DM2 (15), associati a livelli di LH ed FSH inappropriatamente bassi nel grande obeso o normali/bassi nel diabetico senza obesità conclamata (1,15,16). Il calo ponderale ripristina i normali livelli di T e FT, incrementando anche i livelli circolanti di SHBG (17).
Il T regola da vicino ogni componente della funzione erettile e modula anche il timing dell’erezione, coordinandola con l’atto sessuale, ma va precisato che non va considerato come farmaco di prima scelta per la disfunzione erettile se il paziente non presenta franco ipogonadismo (18). Il meccanismo implicato nel deficit di T nel DM include bassi livelli di SHBG (dovuti all’IR), aumentata conversione di T in estradiolo (per aumentata attività dell’aromatasi nel tessuto adiposo viscerale) e aumentati livelli di mediatori dell’infiammazione che, insieme all’iperglicemia, possono interferire, riducendola, sulla secrezione di GnRH e conseguentemente di LH (15).
Ricordiamo che già alla prima diagnosi di DM si può rilevare la DE; per tale motivo sarebbe opportuno uno screening di disfunzione sessuale tra le cure di routine nel trattamento del DM2 (12).
La terapia della DE è multifattoriale, poiché deve agire su varie componenti. Dopo aver promosso cambiamenti dello stile di vita e miglioramenti del compenso glico-metabolico, il passo successivo è ricorrere ai PDE5-inibitori, che rappresentano il trattamento di prima linea nella DE. Questi farmaci favoriscono l’erezione inibendo l’enzima 5’-fosfodiesterasi responsabile della degradazione del GMP ciclico nella muscolatura liscia dei corpi cavernosi. Ciò favorisce la prolungata attività del GMP ciclico, che, a sua volta, riduce le concentrazioni di calcio intra-cellulare, mantenendo il rilassamento della muscolatura liscia e la rigidità del pene durante l’erezione. Sildenafil, vardenafil, tadalafil e avanafil differiscono tra di loro per tempo di insorgenza e durata di azione, ma hanno lo stesso profilo di sicurezza ed efficacia. È stato riportato che i diabetici con DE sono meno responsivi ai PDE5-inibitori se paragonati a soggetti non diabetici con DE (19); non esistono inoltre effetti negativi dei PDE5-inibitori sull’apparato CV, come documentato da una recente meta-analisi (20).In pazienti che non rispondono ai PDE5-inibitori, si può valutare la possibilità di utilizzare l’iniezione intra-cavernosa di papaverina, fentolamina o PGE1, da sole o in combinazione. La terapia con T, raccomandata solo nei pazienti con deficit conclamato di T (18), è disponibile in varie formulazioni: orali, gel, cerotti, impianti e iniezioni. Tuttavia, i prodotti trans-cutanei e l’iniettivo long-acting (testosterone undecanoato) - quest’ultimo meglio nei soggetti più giovani - proprio per le loro caratteristiche farmacocinetiche sembrano soddisfare meglio i criteri di una terapia sostitutiva accurata senza importanti effetti indesiderati (21).

Lo stato di “benessere” generale può ulteriormente contribuire a ridurre disfunzioni sessuali in entrambi i sessi. Tuttavia, nel sesso femminile la dimensione psico-patologica (per es. il vissuto sessuale e affettivo, la somatizzazione, ecc) che ha un grande ruolo nella fase post-menopausale, è fortemente associata alle disfunzioni sessuali (22); è stata apprezzata tuttavia una maggiore prevalenza delle stesse nelle donne con SM: in esse sembra che i fattori di rischio presenti nella SM e alti livelli di trigliceridemia possano essere predittori di disfunzione sessuale (22).
Un discorso a parte meritano le pazienti con PCOS, nelle quali giocano un ruolo nella disfunzione sessuale l’infertilità e le turbe mestruali (insieme agli aspetti psicosomatici che sembrano essere maggiormente presenti in questa classe di pazienti) (23).

In conclusione, appare sempre più evidente il link tra obesità, patologie gonadiche e diabete mellito e tra questi disturbi endocrino-metabolici e la salute sessuale in ambo i sessi: in particolare, sottolineiamo la necessità di insistere su un adeguato stile di vita per la prevenzione e il superamento di eventi patologici tra loro correlati.

 

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Anda Mihaela Naciu & Gaia Tabacco
UOC Patologie osteo-metaboliche e della tiroide, Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-medico, Roma

(aggiornato al novembre 2023)

 

Introduzione
Anche se l’osteoporosi è una complicanza ormai riconosciuta del diabete mellito, gli effetti del diabete sul metabolismo osseo sono un’area di continuo studio. Per quanto il diabete rappresenti un fattore di rischio indipendente di fragilità scheletrica, studi epidemiologici hanno dimostrato l’importanza della compartecipazione di altri fattori di rischio, comuni anche ai soggetti non diabetici, come l’età, il sesso femminile, la familiarità per fratture, la storia clinica di pregressa frattura da fragilità e l’aumentato rischio di cadute (1).
Il diabete di tipo 1 (DM1) e il diabete di tipo 2 (DM2) hanno effetti diversi sul tessuto scheletrico. I soggetti con DM1 presentano tipicamente una riduzione della densità minerale ossea (BMD) associata ad alterazioni geometriche, dovute in parte all’età di insorgenza della malattia (2-5). Al contrario, i soggetti con DM2 presentano BMD normale o aumentata (6,7). Tuttavia, sia nel DM1 che nel DM2 è presente un aumento del rischio di frattura in qualsiasi sito scheletrico e in particolare a livello femorale (2,6,7-9). Nei soggetti con DM2 l’incremento del rischio di frattura è evidente anche in assenza di riduzione della BMD, valutata mediante densitometria ossea (DXA). A oggi, la discrepanza tra valori di BMD nei soggetti con DM2 e aumento del rischio di frattura non è stata completamente chiarita e si pensa possa essere determinata da un'alterazione della qualità dell'osso (9,10), non apprezzabile mediante DXA.
Studi di popolazione hanno dimostrato un’associazione tra rischio di frattura e presenza di complicanze micro- e macro-vascolari, come neuropatia periferica, malattia cardio-vascolare e insufficienza cardiaca (11). Nel DM1, il rischio di frattura femorale è maggiore rispetto al DM2, forse per l’aumentata prevalenza di complicanze croniche (es. vascolari), la maggiore durata di malattia, la precoce età di manifestazione del diabete, l’indice di massa corporea (BMI), la dose giornaliera insulinica e il controllo glicemico. Tutti questi fattori sono stati variabilmente associati a ridotta BMD (3).

 

Patogenesi
L'esatto meccanismo alla base della fragilità ossea e delle fratture nel DM1 e nel DM2 non è del tutto conosciuto. Il tessuto scheletrico è un sistema dinamico, nel quale il rimodellamento mediato dall’attività degli osteoblasti (deputati alla neoformazione) e degli osteoclasti (deputati al riassorbimento) mantiene in equilibrio i livelli di calcio e fosforo e preserva la resistenza scheletrica. Questo processo dinamico coinvolge complessi meccanismi regolatori che, in corso di patologie come il diabete, possono essere alterati e determinare una riduzione della resistenza scheletrica.
Alcuni meccanismi che determinano fragilità scheletrica sono comuni a entrambe le tipologie del diabete. Il DM1 presenta, tuttavia, alcune peculiarità: la più importante è l’età di insorgenza della malattia. Nel DM1, infatti, la diagnosi avviene prima di aver raggiunto il picco di massa ossea ed è quindi possibile che la malattia possa comprometterne il raggiungimento. Inoltre, la durata di malattia è più lunga rispetto al DM2, con maggiore esposizione ai prodotti avanzati di glicazione (AGE) e loro deposizione nel collagene (12). Infatti, l’iperglicemia cronica induce la glicosilazione non enzimatica e la trasformazione degli AGE in varie proteine ossee, soprattutto a livello del collagene di tipo I, determinando riduzione della qualità dell’osso e conseguente aumento della fragilità scheletrica. Gli AGE inoltre riducono numero e funzionalità di osteoblasti, osteoclasti e osteociti, contribuendo al basso turn-over osseo.
Sia nei soggetti con DM1 che con DM2 il tessuto scheletrico è caratterizzato da basso turn-over, che dal punto di vista clinico si traduce in bassi livelli dei marcatori di apposizione (ad es. l’osteocalcina) e di riassorbimento (ad es. il CTX) (13). Studi istomorfometrici hanno confermato la riduzione della formazione ossea e in parte del riassorbimento (14).
Le complicanze micro- e macro-vascolari del diabete possono danneggiare anche l’osso. Un danno a livello micro-vascolare può alterare il micro-ambiente del midollo osseo dove si trovano le cellule progenitrici ossee e determinare alterazione dello sviluppo delle cellule pluri-potenti, stimolando la differenziazione verso la linea adipocitaria piuttosto che osteocitaria, aumentando, quindi, la quota di tessuto adiposo nell’osso. Studi in vitro hanno mostrato come l’iperglicemia inibisca gli osteoblasti attraverso l’inibizione della via Wnt/ß-catenina e dell’attività di Runx2 (14,15) e stimoli la differenziazione in senso adipocitario delle cellule mesenchimali, attraverso l’aumento dell’espressione di geni come PPARγ. Altri studi hanno dimostrato correlazione tra tessuto adiposo osseo, livelli di emoglobina glicata e fratture (2,16-18). L’effetto dell’iperglicemia sugli osteoclasti è meno chiaro. La ridotta produzione di insulina nel DM1 e l’insulino-resistenza nel DM2 sono associate anch’esse a ridotto turn-over scheletrico, dovuto a riduzione dell’effetto anabolico dell’insulina sullo scheletro.
L’impatto delle complicanze micro-vascolari sulla salute ossea è stato valutato a livello clinico con la tomografia quantitativa periferica ad alta risoluzione (HR-pQCT), che ha dimostrato come nel DM2 ci sia una correlazione tra complicanze micro-vascolari e alterazione della componente corticale dell’osso, a spiegare in parte l’aumento della porosità corticale. Secondo la valutazione HR-pQCT, nel DM1 le complicanze micro-vascolari si associano a deficit sia di osso corticale che trabecolare (1).
Per capire la patogenesi del danno osseo in corso di diabete, sono fondamentali le metodiche in grado di valutare non solo la massa ma anche la qualità dell’osso, dato particolarmente importante nel DM2, dove la BMD (normale o paradossalmente aumentata) non permette di stimare correttamente la resistenza ossea e il rischio di frattura. Nella pratica clinica si potrebbe utilizzare il Trabecular Bone Score (TBS), indice indiretto di micro-architettura ossea derivato dalle scansioni DXA del tratto lombare. Il valore di TBS è minore nei pazienti con DM1 e DM2 rispetto alla popolazione di controllo della stessa età, a confermare il coinvolgimento della componente qualitativa dell’osso in entrambe le patologie. Il TBS è inoltre in grado di predire il rischio di frattura indipendentemente dai valori di BMD (19).
Inoltre, fattori aggiuntivi sono rappresentati da ridotti livelli di IGF-1 e vitamina D e dalla presenza di uno stato infiammatorio cronico di origine autoimmune nel DM1 (8,9). Infine, come avviene in altri tessuti, iperglicemia e glicosuria possono incrementare la perdita urinaria di calcio, determinando la negativizzazione del bilancio calcico (13,15).
Infine, nei pazienti con DM1 e DM2 molto spesso viene sottovalutato il ruolo delle cadute, di cui è stato dimostrato l’aumento con le conseguenti fratture, in parte dovuto all’aumentata prevalenza di neuropatia periferica e autonomica rispetto alla popolazione generale, ma soprattutto agli episodi ipoglicemici, in particolare nei pazienti in trattamento con insulina o sulfaniluree (1).

 

Farmaci ipoglicemizzanti e metabolismo scheletrico
È noto che alcuni farmaci ipoglicemizzanti possono influenzare positivamente o negativamente il metabolismo scheletrico.
Metformina e biguanidi sembrano avere un effetto neutro o addirittura positivo, stimolando l’attività osteoblastica e la neoformazione scheletrica (20).
I glitazonici (agonisti del PPARγ) sono stati associati a incremento del rischio di frattura, poiché l’attivazione del PPARγ favorisce la differenziazione delle cellule mesenchimali in senso adipocitario, a discapito della produzione di osteoblasti (20,21). L’aumentato rischio di frattura è rilevato già dopo 12-14 mesi di utilizzo.
Gli agonisti del recettore GLP-1 e gli inibitori di SGLT-2 hanno effetto neutro sul metabolismo osseo (22). Inizialmente si pensava che il canagliflozin potesse determinare un aumentato rischio di fratture femorali, ma questi dati non sono stati poi confermati nei due studi successivi, CANVAS-R e CREDENCE. Sono state condotte diverse metanalisi al fine di analizzare il potenziale effetto negativo degli inibitori di SGLT-2 sul rischio di frattura, senza osservare alcun incremento rispetto al placebo (22). Sono in corso studi per valutare un possibile effetto protettivo sull’osso degli agonisti del recettore GLP-1.
Le sulfaniluree sono associate ad aumentato rischio di ipoglicemia e conseguentemente di cadute; pertanto, dovrebbero essere usate con cautela in questa tipologia di pazienti (23).
Nel DM2 è stato dimostrato un aumento del rischio fratturativo nei soggetti trattati con insulina rispetto ad altri farmaci ipoglicemizzanti. L’insulina aumenta il rischio di ipoglicemia e quindi di cadute, ma solitamente, viene utilizzata nelle forme più complicate di DM2 e questo potrebbe essere un bias nella valutazione del rischio di frattura (1).

 

Approccio clinico alle alterazioni scheletriche nel diabete mellito (tabella)
Nella pratica clinica è molto importante identificare fattori clinici in grado di individuare i soggetti con DM1 e DM2 a più elevato rischio di frattura. Per valutare correttamente il rischio di frattura nel diabete, in particolare nel DM2, si deve tenere conto non solo della BMD (i cui valori vanno interpretati con cautela), ma anche delle caratteristiche cliniche dei pazienti.
Il FRAX sottostima il rischio di frattura nei soggetti con DM2, ma è possibile migliorare la predizione dell’algoritmo, con alcune correzioni (1):

  • utilizzando la stessa correzione impiegata per gli affetti da artrite reumatoide;
  • riducendo il T-score del collo femorale di 0.5;
  • aumentando l’età di 10 anni.

Alla valutazione della BMD, va aggiunta anche la valutazione di fattori di rischio per frattura BMD-indipendenti:

  • nei soggetti con DM1: presenza di complicanze croniche, in particolare renali, insorgenza di malattia in giovane età, ridotto BMI, pregresse fratture da fragilità e scarso controllo glicemico (2);
  • nei soggetti con DM2, il rischio di frattura sembra più associato allo scarso controllo glicemico e alla durata di malattia.

La International Foundation for Osteoporosis consiglia la prevenzione delle fratture in presenza dei seguenti fattori di rischio:

Quali esami eseguire:

  • per i pazienti con DM1, la DXA rimane il gold standard, da eseguire come primo esame di inquadramento in tutti i pazienti sopra i 50 anni di età (più precocemente solo in presenza di fattori di rischio specifici o celiachia);
  • nei pazienti con DM2 va richiesta la DXA (dove possibile con il TBS -19) nei pazienti sopra i 50 anni di età e deve essere calcolato il rischio fratturativo con il FRAX (considerando l’utilizzo di un fattore correttivo per migliorare la predizione dell’algoritmo, vedi sopra) (25). In considerazione della scarsa capacità della DXA di predire il rischio di frattura in questi soggetti, appare utile eseguire una radiografia della colonna dorsale e lombare per valutare la presenza di fratture morfometriche (25).

In futuro, inoltre, la maggiore diffusione della pQCT (10), che alcuni studi hanno suggerito essere migliore della densitometria ossea nel predire il rischio di frattura, potrebbe aiutare a migliorare la predizione del rischio di frattura. Inoltre, così come nei soggetti non diabetici, è opportuno eseguire lo screening per altre cause di osteoporosi secondarie.

 

Caratteristiche del metabolismo osseo nel DM1 e DM
  DM1 DM2
Turn-over scheletrico

Basso:

  • ridotta formazione ossea: riduzione dell’osteoblastogenesi, della differenziazione, dell’attività e del numero degli osteoblasti, precoce morte osteoblastica;
  • ridotto/normale riassorbimento osseo.
Caratteristiche scheletriche
  • BMD ridotta
  • Alterazioni geometriche (ossa più piccole e sottili)
  • Ridotta resistenza/qualità ossea
  • BMD normale/elevata
  • Alterazioni geometriche (femore con diametro più piccolo, porosità corticale)
  • Ridotta resistenza/qualità ossea
Rischio di frattura Aumentato
Sito di fratture
  • Qualsiasi tipo
  • Femore
  • Vertebre
  • Femore
  • Vertebre
  • Polso
  • Arti inferiori
  • Spalla
Fattori clinici associati alla massa ossea (ridotta nel DM1 o elevata/normale nel DM2)
  • Insorgenza in giovane età
  • Scarso controllo glicemico
  • Presenza di complicanze croniche
  • Dose insulinica giornaliera > 0.67 U/kg
  • BMI < 23.5 kg/m2
  • ClCr < 88.8 mL/min
  • Giovane età
  • Scarso controllo glicemico
  • BMI elevato
  • Sesso maschile
Fattori clinici associati alle fratture
  • Bassa massa ossea lombare (per fratture vertebrali di grado moderato e severo)
  • Scarso controllo glicemico
  • Presenza di complicanze croniche
  • Scarso controllo glicemico
  • Durata di malattia
Procedure strumentali e di laboratorio
  • Esami generali e del metabolismo calcio-fosforo per escludere le altre forme di osteoporosi secondaria
  • Densitometria ossea lombare-femorale
  • Radiografia della colonna dorso-lombare
Trattamento delle alterazioni scheletriche
  • Ottimizzazione del trattamento diabetico con miglioramento del controllo glicemico
  • Evitare assunzione di glitazoni nel DM2
  • Prevenzione e follow-up complicanze croniche del diabete
  • Supplementazione con calcio se necessario
  • Supplementazione con vitamina D se necessario
  • Attività fisica regolare
DM1 – diabete mellito di tipo 1; DM2 – diabete mellito di tipo 2; BMD: densità minerale ossea; BMI – indice di massa corporea; ClCr: Clearance della creatinina

 

 

Trattamento
La riduzione del rischio di frattura nei pazienti con DM1 e DM2 deve partire dall’ottimizzazione del compenso glicemico con la conseguente riduzione delle complicanze croniche. Inoltre, dovrebbe essere limitato l’utilizzo dei glitazonici, in considerazione dell’effetto negativo sul metabolismo scheletrico (15), in particolare nelle donne in post-menopausa.
In tutti i pazienti dovrebbe essere garantito un adeguato introito di calcio e vitamina D. In caso di inadeguato introito dietetico di calcio (< 1000 mg/die), dovrebbe essere raccomandata la supplementazione con calcio carbonato. Tutti i soggetti con valori di vitamina D < 30 ng/mL (75 nmol/L) dovrebbero essere supplementati con colecalciferolo (vitamina D3), per ripristinare valori al di sopra di questa soglia (26). Tutti i pazienti dovrebbero inoltre essere incoraggiati a svolgere attività fisica, sia per gli effetti sulla BMD, sia per il miglioramento del metabolismo glucidico e la riduzione del rischio di frattura (15).
Non ci sono studi randomizzati che hanno valutato l’efficacia dei trattamenti per l’osteoporosi nelle persone con diabete, esistono tuttavia evidenze da analisi post-hoc e studi osservazionali.
L’utilizzo dei bisfosfonati attualmente in uso (alendronato, risedronato e zoledronato) sembra avere la stessa efficacia anti-fratturativa rispetto ai soggetti non diabetici (20).
Il denosumab ha dimostrato una buona efficacia nella prevenzione delle fratture vertebrali (1). Inoltre, sembrerebbe che denosumab abbia la capacità di ridurre i livelli circolanti della proteina DPP4 e di aumentare allo stesso tempo anche quelli di GLP-1, aiutando a regolare il controllo glicemico dei pazienti trattati (27).
In considerazione del meccanismo fisiopatologico del danno osseo nel DM1 e DM2, legato a ridotto turn-over scheletrico, l’utilizzo di farmaci osteo-anabolici potrebbe rappresentare un’ottima opzione terapeutica. I dati osservazionali di teriparatide e abaloparatide dimostrano che sono efficaci almeno quanto nei soggetti non diabetici.
Considerando, l’aumento dei livelli di sclerostina dimostrato nei soggetti con DM2, ci sarebbe un razionale nell’utilizzo di romosozumab in questi pazienti. Tuttavia, i problemi di sicurezza cardio-vascolare rappresentano al momento una limitazione importante all’uso di questo farmaco in questo setting di pazienti (1).

 

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Cinzia Massafra1, Vincenzo Fiore2, Antonella Poggi2, Vito Angelo Giagulli3, Edoardo Guastamacchia3, Vincenzo Triggiani3
1Specialista Ambulatoriale – Casa di Comunità - Cologno Monzese, ASST Nord Milano
2UOC Medicina-Geriatria, PO San Giovanni Evangelista, Tivoli (RM)
3Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Policlinico di Bari

(aggiornato a novembre 2023)

 

Epidemiologia
Secondo i dati del WHO, nel mondo 537 milioni di persone sono diabetiche e 280 milioni soffrono di depressione (circa 5%) (WHO 2021).
La relazione tra malattie croniche e depressione è bidirezionale: un malato cronico ha un rischio maggiore di sviluppare depressione e un depresso di ammalarsi di patologie croniche.
Il diabete mellito (DM) è la patologia cronica che meglio esprime questo rapporto: dal diabete alla depressione (20-25%) e dalla depressione al diabete (60%) (1). Studi epidemiologici confermano che, rispetto ai non depressi, i pazienti depressi hanno fino al 60% di rischio di sviluppare DM (2-5). Uno studio epidemiologico su 90686 partecipanti ha dimostrato che l’impatto psicologico della diagnosi di DM aumenta il rischio di sviluppare disturbi d’ansia e la depressione era più frequente in coloro a cui era stato diagnosticato il DM (6). Le metanalisi che hanno esaminato la relazione tra iperglicemia e diverse categorie di rischio hanno dimostrato che gli individui con alterato metabolismo del glucosio o DM non diagnosticato hanno minor probabilità di depressione quando confrontati ai pazienti affetti da DM tipo 2 diagnosticato (7,8).
La depressione è una delle comorbilità più frequenti sia nei pazienti con diabete di tipo 1 (DM1) che di tipo 2 (DM2): circa il 20-30% dei pazienti con DM soffre di disturbi depressivi clinicamente rilevanti, il 10% dei quali è affetto da disturbo depressivo maggiore (9-11). La depressione può peggiorare il controllo glicemico, aumentando il rischio di sviluppare complicanze ed esiti avversi, mentre il miglioramento dei sintomi depressivi è generalmente associato a miglior controllo glicemico. Una metanalisi di 34 studi ha evidenziato che i livelli di HbA1c sono più elevati nei pazienti con DM2 e depressione (12).
Esiste una correlazione tra la gravità dei sintomi depressivi e il grado di complicanze diabetiche (13). I disturbi depressivi anche lievi nei pazienti con DM rappresentano un importante problema clinico, perché hanno peggior prognosi a lungo termine. Secondo uno studio di coorte retrospettivo, la presenza di depressione nei pazienti con DM determina un rischio 2.3 volte maggiore di sviluppare complicazioni acute, di 1.6 volte quelle a lungo termine e aumenta il rischio di mortalità fino a 2.8 volte (14,15).
La presenza di depressione in corso di DM favorisce la progressione delle complicazioni micro-vascolari (malattia renale allo stato terminale, cecità, amputazione e morte dovuta a insufficienza renale) e macro-vascolari (ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardio-vascolari - CV). L’effetto della depressione sulla progressione micro- e macro-angiopatica è ritenuto simile nel DM1 e DM2 (16,17). Uno studio del 2014 ha confermato l’associazione tra ulcere diabetiche, depressione e aumento della mortalità (18).
La depressione clinicamente manifesta aumenta del 60% il rischio di sviluppare DM. Alcuni autori riconoscono alla depressione elevata forza predittiva per il numero e la gravità delle complicanze e la identificano come fattore di rischio indipendente per l’insorgenza del DM2 (19-22).

 

Cause e meccanismi predisponenti
Numerosi studi hanno collegato infiammazione e depressione. Sono in aumento le prove che la depressione e il DM 2 condividono origini biologiche comuni, in particolare l’iperattivazione dell’immunità innata, che determina una risposta infiammatoria mediata dalle citochine attraverso la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA). Le citochine pro-infiammatorie sembrano influenzare direttamente il cervello, causando sintomi depressivi (24).
Studi epidemiologici trasversali e prospettici hanno dimostrato che alti livelli sistemici di citochine e chemochine sono associati a maggior prevalenza di rischio di depressione subclinica e clinica manifesta. L'infiammazione subclinica è implicata nello sviluppo della depressione ed è un importante meccanismo patogenetico sia nei pazienti con diabete che  con depressione.
I processi infiammatori che contribuiscono alla manifestazione del DM avrebbero differente modalità di attivazione immunitaria nel DM1 rispetto al DM2 (25).

Il DM1 mostra incremento dei livelli plasmatici di citochine IL-4, IL-6, IL10 e TNF-alfa, mentre i pazienti con depressione mostrano un simile incremento plasmatico di citochine IL-6, IL-1 e TNF-alfa. Sia nei pazienti con DM1 che con depressione sono presenti livelli elevati di marcatori dello stress ossidativo (26). Nel DM1 livelli più alti di PCR e IL-1RA sono stati associati a sintomi depressivi più pronunciati. Le citochine pro-infiammatorie potrebbero mediare l’associazione tra DM1 e depressione attraverso l’asse HPA.

Nel DM2, livelli più elevati di PCR, IL-18 e IL-1RA e più bassi di adiponectina sono stati associati a sintomi depressivi più gravi. L’ambiente obesogeno è alla base dei meccanismi patogenetici condivisi tra depressione e DM2. La disregolazione dell’asse HPA, l’alterazione del ritmo circadiano sonno-veglia, l’infiammazione e modifiche epigenetiche dovute a fattori ambientali determinano insulino-resistenza e iperglicemia, con conseguente alterazione della neuro-plasticità cerebrale, disturbi affettivi e DM2. L’insulino-resistenza periferica conduce a insulino-resistenza cerebrale, alterando vie neuro-trasmettitoriali alla base di ansia e depressione (27,28). La disregolazione dell’asse HPA determina ipercortisolismo, che favorisce il manifestarsi di adiposità viscerale, insulino-resistenza, dislipidemia e ipertensione arteriosa, tutti fattori di rischio CV associati al DM2 e “promotori” di aterosclerosi. Interviene, inoltre, un’alterazione del rilascio degli ormoni contro-regolatori (glucagone, adrenalina). Analogamente, la depressione è spesso associata a tessuto adiposo viscerale eccedente, con iperproduzione di citochine pro-infiammatorie, iperattività del tono simpatico del sistema nervoso ed elevati livelli di catecolamine, che concorrono all’insulino-resistenza, peggiorando il quadro metabolico e aterogeno. Infine, l’attivazione dell’asse HPA, del sistema nervoso simpatico e l’iperproduzione di citochine promuovono simultaneamente la riduzione della funzione neurotrofica e la conseguente ridotta plasticità dei network neuronali (29). Livelli elevati di cortisolo ostacolano la neurogenesi nell’ippocampo, la cui atrofia è implicata sia nel DM2 che nella depressione (25).
Altri meccanismi patogenetici comuni tra DM2 e depressione sono stati individuati da studi sui recettori melanocortinici che mediano l'azione dell'asse HPA e che sono stati collegati alla depressione e al DM2. Il gene MC2R sembra conferire rischio con diversa variabilità per l’associazione tra depressione maggiore e DM2 (30).

 

Qualità della vita e aderenza
La depressione non trattata è associata a gravi comorbilità fisiche e psicologiche: è frequentemente associata a problemi del sonno, ansia, malattie CV e comportamenti a rischio, come sedentarietà, fumo, dieta scorretta, con aumentato rischio di obesità e diabete (31,32). I farmaci anti-depressivi, a loro volta, possono contribuire all’aumento del peso e di conseguenza al peggioramento del controllo metabolico (33).
Nel DM1 i risultati dei pochi studi suggeriscono che le relazioni familiari e il peso di un disturbo permanente con esordio precoce nello sviluppo della personalità possano contribuire ad aumentare la vulnerabilità alla depressione (34,35).
Molti autori attribuiscono l’origine del disturbo allo stato di disagio psichico secondario alla cronicità della malattia; elemento cruciale sarebbe lo stress psicologico che s’incentra sul senso di “impotenza” e “finitezza”, legato alla pericolosità della malattia diabetica e a vari aspetti di questa. Il numero complessivo di sintomi riferibili al DM e alla sua gravità sarebbe correlato linearmente al numero di sintomi di depressione. Ciò conferma che la presenza di depressione nei pazienti con malattia cronica provoca un’amplificazione aspecifica dei sintomi fisici.
La maggior parte degli studi conferma che la comorbilità DM-depressione comporta la mancata adesione ai regimi terapeutici ipoglicemizzanti, che va di pari passo con la scarsa aderenza alle terapie anti-ipertensive e ipolipemizzanti (36).

 

Strumenti di identificazione della depressione
Le linee guida internazionali raccomandano che nella popolazione diabetica venga eseguito lo screening per la depressione, per identificare i pazienti che necessitano di trattamento (37), anche se non viene dettagliato quali strumenti utilizzare. Per valutare la depressione nei pazienti con comorbilità vi sono diversi strumenti che indagano varie aree.
Il Beck Depression Inventory (BDI-II) (38) è lo strumento di auto-riferimento per monitorare la gravità della depressione in pazienti già diagnosticati e per rilevarne il rischio nella popolazione normale. È, inoltre, un valido strumento per discriminare pazienti affetti da depressione clinica rispetto ai pazienti psichiatrici non depressi.
Il PHQ-9 (9-item Patient Health Questionnaire) è un breve questionario auto-gestito, che conferisce i punteggi a ciascuno dei nove criteri del DSM-IV per la depressione, utilizzabile come strumento diagnostico per la forma maggiore e minore (39).
Il BDI-II e il PHQ-9 sono probabilmente gli strumenti più potenti e maggiormente utilizzati per la diagnosi primaria ma anche per la selezione e il monitoraggio del trattamento (40).
Uno strumento di valutazione breve e affidabile, particolarmente sensibile, in grado di identificare anche le varianti sub-sindromiche e di escludere i soggetti sani, è il Mini-International-Neuropsychiatric-Interview (MINI), basato sui criteri del DSM-IV, utilizzabile nella pratica clinica e in ambito di ricerca (41).
La Center for Epidemiologic Studies-Depression Scale (CES-D) è uno strumento sviluppato su 20 item relativi a sei scale, che riflettono le principali dimensioni della depressione: sensi di colpa e d’inutilità, sentimenti di impotenza e disperazione, ritardo psico-motorio, perdita dell’appetito e disturbi del sonno. È un indicatore grossolano che può essere utilizzato nelle fasi preliminari di uno screening (42).
Il Geriatric Depression Scale (GDS) è uno strumento ideato per valutare la presenza di depressione nei pazienti anziani. La GDS minimizza gli aspetti somatici della depressione, considerati confondenti e poco specifici nell’anziano, mentre approfondisce l’aspetto affettivo (43).
È stata dimostrata una relazione tra depressione e DM, con risultati significativi in tutti gli strumenti usati per misurare la depressione. Una metanalisi sull’accuratezza diagnostica dei questionari sulla depressione negli adulti con DM (44) dimostra che CES-D e PHQ-9 sono i più frequentemente utilizzati, senza differenze di sensibilità e specificità rispetto ad altri strumenti: il CES-D aveva la sensibilità più alta, mentre il PHQ-9 aveva la maggiore specificità, sebbene gli intervalli di confidenza fossero ampi e sovrapposti. Uno studio tedesco dimostra che i diversi metodi utilizzati per lo screening della depressione danno risultati meno sovrapponibili di quanto atteso. Non sono stati trovati chiari pattern tra i metodi utilizzati e le caratteristiche  cliniche degli individui identificati (45).
Il suggerimento ai medici per lo screening della depressione tra i pazienti con DM è quello di utilizzare CES-D e PHQ-9 (44,46).

 

Associazione con la disfunzione cognitiva
Sono stati riportati dati circa l’associazione del DM e soprattutto del DM2 e della depressione con la disfunzione cognitiva, sia di tipo vascolare che degenerativo: quando al DM2 si associa la depressione, il rischio di sviluppare demenza sembra aumentare considerevolmente, come osservato nel campione di circa 19mila pazienti del Diabetes and Aging Study (da 30 a 75 anni di età) e del Mexican Health and Aging study, con un effetto maggiore negli ultra-ottantenni (47,48).
In uno studio di coorte nazionale condotto su una popolazione di oltre 2.4 milioni di persone ≥ 50 anni, DM e depressione erano associati ad aumento del rischio di demenza per tutte le cause, di malattia di Alzheimer e di demenza vascolare, e l'effetto combinato di entrambi i disturbi è apparso più che additivo, soprattutto tra le persone più giovani (49).

 

Rischio cardio-vascolare
Sia il DM, in particolare il DM2, che il Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) sono associati, singolarmente, ad aumentato rischio di malattia CV (morbilità, mortalità, infarto miocardico).
Una metanalisi di studi prospettici di coorte ha evidenziato che la depressione, come fattore di rischio indipendente, può portare a un rischio sostanzialmente aumentato di malattia coronarica (50). Uno studio multicentrico del 2006 evidenziava che, rispetto a quelle senza depressione, nelle donne con depressione, la combinazione di gravità dei sintomi depressivi e storia di trattamento anti-depressivo era fortemente predittiva di un elevato profilo di rischio coronarico e aumento del rischio di eventi cardiaci (51). Sia la depressione manifesta che la forma subclinica sono correlate a ridotta aderenza ai comportamenti di auto-cura (dieta, esercizio fisico, astensione dal fumo) e di compliance farmacologica. Quando DM e MDD si associano, il rischio di sviluppare malattie CV, e in particolare infarto, viene favorito in modo indipendente e si osserva maggiore mortalità per qualsiasi causa e per coronaropatia.
Rispetto ai diabetici non depressi, la coesistenza di depressione e DM si associa a un rischio di mortalità per tutte le cause di circa 1.5 volte superiore e per cause CV di 1.4 volte superiore, che aumenta progressivamente quando le comorbilità si combinano nei diabetici di maggior complessità (durata > 10 anni o uso di terapia insulinica) (52).
Rispetto ai non depressi, i diabetici con MDD hanno circa il doppio di probabilità di avere fattori di rischio CV, come fumo, obesità, vita sedentaria e HbA1c > 8% e maggiore rischio di complicanze macro-angiopatiche (24%), comprese la mortalità per tutte le cause e quella CV (53,54).
Alcuni studi hanno evidenziato connessioni tra depressione e disfunzione del sistema nervoso autonomo, con diminuzione della variabilità della frequenza cardiaca e diminuita soglia aritmica, aumentata aggregazione piastrinica e disfunzione endoteliale secondaria all’infiammazione cronica (55-58). Lo stato pro-infiammatorio cronico tipico del DM determina rarefazione capillare miocardica, ridotta densità capillare e angiogenesi deficitaria, con conseguente carenza di ossido nitrico e aumento dello stress ossidativo, con conseguente disfunzione miocardica (59).

 

Terapia anti-depressiva e DM
Tutti i trattamenti sono efficaci per la depressione in comorbilità nel DM1 e DM2. Nell’ultimo decennio sono stati introdotti nuovi interventi con effetti di ampia portata, come la terapia di gruppo, il trattamento online e l’esercizio fisico. Sebbene tutti gli interventi siano efficaci per la depressione, non tutti i trattamenti lo sono per il controllo glicemico (60).
Gli anti-depressivi sono tra i più comuni farmaci prescritti nei pazienti in cure primarie ed esistono evidenze sul loro possibile ruolo nell’aumentare il rischio di sviluppare DM2, sebbene su questo aspetto non ci sia univocità di vedute (61,62). Gli effetti sul metabolismo del glucosio sono differenti e variano in rapporto al tipo di anti-depressivo.
I farmaci noradrenergici e quelli a duplice azione possono peggiorare la tolleranza al glucosio e il controllo glicemico nei diabetici; tuttavia, gli inibitori della monoamino-ossidasi e gli inibitori della ricaptazione selettiva della serotonina (SSRI) possono anche avere effetti migliorativi sul metabolismo glucidico (63).
Revisioni sistematiche di studi osservazionali concludono che gli studi sulla prescrizione di farmaci anti-depressivi e anti-psicotici in relazione agli esiti del DM sono scarsi e con risultati contrastanti. Fino a quando non saranno disponibili ulteriori prove, le persone con DM a cui vengono prescritti anti-depressivi e anti-psicotici devono ricevere un monitoraggio e un trattamento appropriato dei fattori di rischio e lo screening per le complicanze, come raccomandato nelle linee guida generali sul DM (64-67). Sono necessari ulteriori studi per migliorare la scelta del tipo di anti-depressivo nei pazienti diabetici.

 

Farmaci anti-depressivi più usati e loro effetti collaterali
Categoria Farmaco Principali effetti sulla glicemia Possibile meccanismo
SSRI Sertralina
Fluvoxamina
Paroxetina
Fluoxetina
Citalopram
Clorpropamina
Ipoglicemia ↑ sensibilità all’insulina
Anti-depressivi triciclici Amitriptilina
Doxepina
Imipramina
Ipoglicemia/iperglicemia ↑ sensibilità all’insulina
↑ peso
Inibitori ricaptazione della noradrenalina e della serotonina; antagonista dei recettori H1 dell'istamina e recettori della 5-idrossitriptamina (serotonina) di tipo 5; bloccanti i recettori alfa2 pre-sinaptici Maprotilina
Nortriptilina
Mianserina
Mirtazapina
Iperglicemia ↑ glicogenolisi
↑ gluconeogenesi
↑ peso
↓ secrezione insulina

 

 

Terapia del DM2 e sintomi depressivi
Prove crescenti supportano un’associazione bidirezionale tra diabete e depressione. Dati promettenti ma limitati e contrastanti provenienti da studi sull’uomo supportano la possibilità che i farmaci ipoglicemizzanti possano essere utilizzati per alleviare efficacemente i sintomi depressivi nei pazienti diabetici (68).
Il trattamento con pioglitazone e metformina ha evidenziato un’associazione significativa tra sesso femminile e riduzione dei sintomi depressivi, effetto dovuto ad azione anti-infiammatoria, indipendente dall’azione insulino-sensibilizzante (69).
Tra tutte le classi di farmaci di interesse, gli analoghi del GLP-1 hanno mostrato i potenziali effetti benefici più importanti e clinicamente significativi in termini di diminuzione dell’insorgenza di fallimento terapeutico/sintomi correlati alla depressione. Il rischio di ansia era significativamente minore nelle donne in trattamento con GLP1-RA e per periodi di trattamento > 180 giorni (70).
Metformina, glitazonici, agonisti del GLP-1 e inibitori di DPP-4 attraversano la barriera emato-encefalica ed esercitano azioni sia periferiche che centrali (71).
L'attività anti-depressiva di questi farmaci potrebbe essere mediata dalla riduzione dei livelli di glucosio nel sangue, dal miglioramento dello stress ossidativo centrale e dell'infiammazione, dalla regolazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la stimolazione della crescita neuronale e la protezione dall'apoptosi.

 

Conclusioni
L’associazione tra depressione e DM ha un impatto negativo, sia sullo stile di vita che sulla qualità della vita: mancata aderenza ai regimi terapeutici, scarsi comportamenti di auto-cura, riduzione dell’attività fisica e possibile aumento della suscettibilità a complicanze del DM e ulteriori malattie. Questi aspetti negativi sono particolarmente evidenti negli anziani: ulteriore diminuzione della mobilità, peggioramento della disabilità, fragilità, sindromi geriatriche e aumento della mortalità.
L’incremento della prevalenza del DM e della malattia depressiva determina un maggiore ricorso a interventi sanitari, con conseguente importante onere in termini di costi sanitari diretti e indiretti.

 

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Giuseppe Lisco
Dipartimento Interdisciplinare di Medicina, Università degli Studi di Bari

(aggiornato ad agosto 2024)

 

Introduzione alla demenza
Definizione
: la demenza è una patologia acquisita, cronica, evolutiva, a eziologia variabile (tabella), caratterizzata da deterioramento progressivo e irreversibile delle funzioni cerebrali, che include i seguenti domini: perdita di memoria, alterazione del linguaggio, alterazioni comportamentali, funzioni visuo-spaziali ed esecutive (1).

 

Diagnosi differenziale delle demenze
Depressione maggiore
Encefalopatia traumatica cronica
Decadimento cognitivo età-correlato
Etilismo cronico
Carenza di vitamina B12
Demenza vascolare
Demenze nel contesto di patologie neuro-degenerative (es, Parkinson, demenza a corpi di Levy, Huntington, demenza fronto-temporale, malattia da prioni, idrocefalo)
Deficit di tiamina (vitamina B1) o sindrome di Wernicke-Korsakoff
Alterazioni elettrolitiche
Ipoglicemia cronica
Ipotiroidismo e ipertiroidismo
Malattie da accumulo (es, morbo di Wilson)

 

La forma più comune di demenza è la demenza di Alzheimer (DA), in cui è strutturalmente alterata la proteina tau, necessaria per la stabilizzazione dei micro-tubuli a livello neuronale e il trasporto assonale di molecole e nutrienti. Tale alterazione la rende instabile, incapace di legare e stabilizzare i micro-tubuli e, al contrario, capace di aggregarsi con le altre proteine tau strutturalmente alterate a formare aggregati fibrillari (tangles), che precipitano e si accumulano a livello assonale. Dal punto di vista biochimico, la conseguenza di tale alterazione è la riduzione dell’efficienza del trasporto assonale, l’ostacolo alla circolazione di sostanze nutrienti e l’anomalo accumulo di aggregati fibrillari all’interno dei neuroni, che portano dapprima ad alterazione funzionale, successivamente strutturale e infine a morte cellulare. Accanto agli aggregati fibrillari, la più importante alterazione istologica della DA è la presenza di placche di sostanza ß-amiloide (placche senili), che si accumulano a livello corticale a partire dall’ippocampo (2).
La DA evolve attraverso una serie di stadi (3). Le alterazioni neuroanatomo-funzionali si sviluppano durante la fase pre-clinica (asintomatica) della durata di anni, durante i quali giocano un ruolo patogenetico rilevante fattori di rischio e predisposizione genetica. Questa fase è caratterizzata dal precoce deterioramento della corteccia ento-rinale situata a livello dei lobi temporali medi perifericamente all’ipotalamo. La corteccia ento-rinale svolge un ruolo di primaria importanza nella regolazione dei processi cognitivi legati alla memoria a breve termine e visuo-spaziale. In questa fase, di solito, non sono presenti sintomi clinici distintivi. Nello stadio successivo, iniziano a comparire alterazioni cognitive di grado lieve, tali da consentire il regolare svolgimento delle attività quotidiane. Il disturbo più frequentemente riferito quale sintomo d’esordio di demenza è la riduzione della memoria a breve termine. Un esame obiettivo specifico può mettere in evidenza, più in generale, un decadimento cognitivo di grado lieve.
Il decadimento cognitivo evolve progressivamente, diventando clinicamente rilevante e progressivamente ingravescente, classificabile in lieve, moderato, moderato-severo, grave, estremamente grave. I deficit mnesici, specialmente della memoria a breve termine, si accompagnano al significativo interessamento delle aree cerebrali deputate al controllo del linguaggio, della memoria visuo-spaziale, del ragionamento critico e della capacità di calcolo. Le alterazioni cognitivo-comportamentali più comuni sono perdita di memoria, disorientamento spazio-temporale, significativo rallentamento ideo-motorio nello svolgimento di attività complesse, difficoltà nella gestione del denaro, ridotta capacità di giudizio critico, perdita di iniziativa, alterazioni dell’umore o ansietà.
Le fasi avanzate di malattia sono caratterizzate dalla perdita pressoché totale delle capacità mnesiche, tale da compromettere il riconoscimento sistematico di luoghi e persone fino a poco prima familiari. Si manifestano difficoltà evidenti di linguaggio, scrittura, lettura, comprensione di un testo scritto o di un racconto, disegno, capacità di calcolo e di risoluzione di problemi. È quasi del tutto compromessa la capacità di svolgere semplici attività della vita quotidiana, come badare all’igiene personale, fare la spesa, interagire con altre persone.
Nella forma avanzata di malattia subentrano gravi alterazioni cognitive e psichiche, che compromettono del tutto l’auto-sufficienza, inclusa la perdita di controllo sulle funzioni fisiologiche (es, disfagia, incontinenza), principali cause di morbilità e mortalità correlate alla DA, quali malnutrizione, infezioni, ospedalizzazioni ricorrenti.

 

Diabete mellito e demenza
Il DM è molto frequente nella popolazione generale, con prevalenza stimata attorno al 10% della popolazione mondiale (4). Esiste una consolidata evidenza che suggerisce l’esistenza di un’associazione tra demenze e DM. Una revisione sistematica della letteratura ha evidenziato che, rispetto alla condizione di euglicemia, il rischio di decadimento cognitivo e demenza aumenta dal 25 al 91% in presenza di pre-diabete e DM (5). Scarso controllo glicemico e frequenti episodi di ipoglicemia sembrano correlare positivamente con questo rischio, a suggerire che l’instabilità glicemica rappresenti una delle variabili principali nella patogenesi della demenza nel DM2. Il rischio di demenza è fortemente condizionato dal controllo glicemico anche tra i pazienti con DM1. Uno studio di coorte longitudinale su oltre 2800 pazienti con DM1 seguiti tra il 1997 e il 2015 ha documentato un aumento del rischio di demenza nel corso del follow-up: del 66% tra coloro che avevano presentato episodi recidivanti di ipoglicemia grave, del 211% con episodi frequenti di iperglicemia grave e del 620% tra coloro che avevano presentato frequenti episodi di entrambe le alterazioni glicemiche (6). Anche le morbilità associate al DM, che includono insulino-resistenza, obesità, ipertensione arteriosa, dislipidemia aterogena, micro-angiopatia, aterosclerosi, steatosi epatica, rientrano tra i fattori di rischio di decadimento cognitivo e demenza (7).
Evidenze sperimentali e cliniche hanno messo in luce l’esistenza di un forte legame fisiopatologico tra DM e demenza. È stata descritta un’alterazione del metabolismo della sostanza amiloide, sia a livello dei tessuti periferici che cerebrale, così come è stato documentato il ridotto trasporto di acetilcolina attraverso la barriera emato-encefalica in pazienti con DM2 e DA. Esiste evidenza sperimentale di miglioramento delle funzioni cognitive dopo esposizione a insulina e agenti insulino-sensibilizzanti (8,9).
Sono stati identificati alcuni meccanismi biochimici e molecolari alla base di DM e DA, che riguardano l’espressione di geni codificanti per insulina, IGF-1, IGF-2 e loro recettori. La ridotta espressione di tali geni si accompagna a riduzione della sintesi o azione di questi ormoni e la conseguente attenuazione delle loro vie di segnale intra-cellulare a livello corticale si associa a morte cellulare e progressione del decadimento cognitivo (10). Tali alterazioni si associano anche ad aumento dello stress ossidativo, marcata attivazione di mediatori della flogosi e disfunzione mitocondriale (11). L’insulina, inoltre, svolge importanti funzioni a livello cerebrale, connesse alla regolazione della captazione, utilizzo e immagazzinamento del glucosio. Queste includono l’induzione dell’espressione di trasportatori del glucosio (GLUT4), la soppressione dell’espressione della ß3-glicogeno-sintetasi chinasi (GSK3b), la regolazione dell’apoptosi e la neuro-infiammazione attraverso la regolazione della fosforilazione di FOXO, CREB e NF-kB (12). Dato che GSK3b è in grado di fosforilare la proteina tau e di ostacolarne il legame ai micro-tubuli a livello assonale, per garantire lo svolgimento regolare dell’attività della proteina tau è necessaria una ridotta espressione/attività di GSK3b (condizione che si verifica in presenza di adeguati livelli di insulina a livello cerebrale) (12).
Deficit insulinico e insulino-resistenza a livello cerebrale sono coinvolte anche in modo indiretto nella patogenesi della demenza nei pazienti con diabete. La sintesi della metallo-proteasi coinvolta nella degradazione dell’insulina (IDE) è regolata dall’insulina stessa, che controlla la sua concentrazione tissutale con una sorta di feed-back negativo. L’IDE è deputata anche alla degradazione extra-cellulare di sostanze di accumulo come la ß-amiloide e l’amilina. Per prevenire o ridurre l’accumulo di amiloide a livello cellulare, è fondamentale un adeguato funzionamento di IDE (13). In condizioni di deficit insulinico e insulino-resistenza, si riducono i livelli di espressione/attività di IDE e, conseguentemente, si accumula ß-amiloide a livello del tessuto cerebrale corticale (13). Inoltre, l’accumulo di ß-amiloide si associa al deterioramento del signaling insulinico a livello neuronale, suggerendo che la ß-amiloide possa indurre una condizione di insulino-resistenza cerebrale, tale da generare una sorta di circolo vizioso (13). Simili alterazioni sono osservate anche in condizioni dismetaboliche, quali sindrome metabolica, pre-diabete e obesità, in cui predomina il quadro di insulino-resistenza; evidenze epidemiologiche dimostrano un significativo aumento della prevalenza di decadimento cognitivo e demenze (inclusa DA) in queste popolazioni. Pertanto, questo modello ha basi fisiopatologiche solide, che tendono a identificare la DA come una forma di DM cerebrale, oggi nota come DM di tipo 3 (11).
Forme sporadiche di DA con esordio precoce e decorso rapidamente evolutivo si associano a mutazioni del gene codificante per l’apolipoproteina E (APOE). Esistono 3 forme alleliche predominanti del gene APOE (2, 3 e 4). Se l’allele APOE2 è protettivo nei confronti della DA, la variante APOE4, invece, incrementa considerevolmente il rischio di demenza (14). Dal punto di vista fisiopatologico, mutazioni di APOE facilitano l’accumulo intra-cellulare di proteina tau e la deposizione di ß-amiloide a livello cerebrale. Inoltre, si associano ad alterazione del metabolismo lipidico cerebrale, tale da facilitare l’accumulo di colesterolo a livello neuronale, indurre neuro-infiammazione e ostacolare la sintesi della guaina mielinica (15).
Una causa comune di decadimento cognitivo nel DM2, anche se meno frequente rispetto alla DA, è la demenza su base vascolare. Si tratta di una complicanza cronica correlata al DM, che aumenta sensibilmente la suscettibilità al danno vascolare di vasi cerebrali grandi (aterosclerosi) e piccoli  (micro-angiopatia), con conseguente danno ipossico-ischemico a livello corticale. Da notare che non infrequentemente la demenza su base vascolare si sovrappone alla DA, in un quadro clinico indistinguibile rispetto alla sola DA, ma caratterizzato da deterioramento più rapido e severo delle funzioni cognitive (16).

 

Aspetti terapeutici
Il trattamento della DA si avvale, oltre che del trattamento specifico dei fattori di rischio eventualmente associati (terapia anti-ipertensiva, statine, anti-iperglicemici, depressione, psicosi), nelle forme lievi e in fase iniziale di inibitori della colinesterasi e nelle forme moderate o in fase più avanzata della memantina (antagonista del recettore dell’N-metil-D-aspartato, NMDA) (17).
Lecanemab è stato recentemente approvato per uso clinico dalla FDA (ma non in Europa) (18,19). Si tratta di un anticorpo monoclonale diretto contro la proteina ß-amiloide, somministrabile per via endovenosa, che si è dimostrato in grado di contrastarne l’accumulo a livello corticale e di poter rallentare il decorso clinico della DA (19). Il farmaco è gravato da frequenti effetti avversi cerebrali, come micro- e macro-emorragie, siderosi superficiale ed edema. La frequenza e la gravità di questi effetti avversi ne limita l’impiego (20).
Non esistono terapie mirate per la prevenzione e cura del decadimento cognitivo e della demenza nei pazienti con DM2
. Tuttavia interventi sullo stile di vita (21) e farmacologici mirati al controllo di iperglicemia, ipertensione arteriosa, dislipidemia e altri fattori di rischio possono avere effetti positivi sulla prognosi dei pazienti con demenza e diabete. Relativamente ai farmaci anti-iperglicemici, risultati controversi ma complessivamente promettenti sono stati ottenuti dall’impiego di pioglitazone (che si associa a riduzione del rischio di demenza, specialmente nei pazienti con storia di cardiopatia ischemica o ictus cerebrale di natura ischemica, 22), metformina, agonisti GLP-1 e gliflozine (23-25). Al contrario, le sulfaniluree si accompagnano a un eccesso di rischio (26). Alla base di questi risultati vi è l’azione anti-iperglicemica, insulino-sensibilizzante, anti-ossidante, anti-apoptotica, anti-infiammatoria. Sono in corso studi mirati per stabilire l’effetto di tali molecole sull’evoluzione del decadimento cognitivo in pazienti con DA (27,28). Risultati promettenti in termini di neuro-protezione potrebbero derivare anche dall’impiego di tirzepatide (29).

 

 

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Edoardo Guastamacchia
Endocrinologia, Università di Bari

(aggiornato al 12 aprile 2021)

 

Epidemiologia
Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato un’associazione fra diabete tipo 2 (pochi sono gli studi che si sono occupati del tipo 1) e aumentato rischio per alcune neoplasie, in particolare carcinoma epatico, dell’endometrio, del pancreas, del colon, del retto, della mammella, della vescica, del rene e per il linfoma non Hodgkin. Tale aumentato rischio varia dal +20% del carcinoma della mammella al +250% di quello epatico (1-3). Non è invece emersa un’aumentata prevalenza del carcinoma polmonare, mentre si è riscontrata addirittura una riduzione del 10-20% del cancro della prostata (4,5).
Ciò suggerisce una notevole variabilità dell’associazione tra diabete e diverse forme di cancro (1); d’altra parte, per i tumori meno comuni sono limitati o assenti i dati relativi a tale associazione. La variabilità dei rapporti fra diabete e cancro è conseguenza della complessità della malattia diabetica (eterogeneità eziopatogenetica, differente decorso, differente durata della patologia, differenti terapie utilizzate nel tempo, presenza o meno di comorbilità) e della stessa condizione neoplastica (diversi istotipi, differenze biologiche del tumore, differenze tra gli organi interessati).
D’altra parte, anche studi di randomizzazione mendeliana, che superano le limitazioni degli studi osservazionali tradizionali, non evidenziano risultati univoci. Infatti, mentre alcuni non riportano un forte supporto genetico al link fra diabete e rischio di carcinoma (6), altri sottolineano come polimorfismi che favoriscono l’insorgenza del diabete tipo 2 possono aumentare l’insorgenza e la mortalità neoplastica globale e sito-specifica (7).

 

Prognosi neoplastica
L’influenza della malattia diabetica sulla prognosi del cancro è dibattuta (8-10), anche se recentemente è stato evidenziato un aumento del 40% del rischio di mortalità oncologica in soggetti con pre-esistente malattia diabetica (11-13).
È difficile affermare che le neoplasie di per sé siano più aggressive nel soggetto diabetico; probabilmente la più rapida progressione è da riferire alla maggiore fragilità del paziente diabetico e al fatto che l’oncologo, in tale situazione clinica, utilizza con più cautela la chemio e la radioterapia, sotto-dosandole per la coesistenza di complicanze epatiche, cardiache e renali.

 

Meccanismi eziopatogenetici
Vengono proposti alcuni meccanismi che possono spiegare, da soli o in combinazione, l’associazione tra diabete e tumori (9):

  • fattori di rischio comuni a entrambe le patologie;
  • fattori legati alle alterazioni metaboliche che caratterizzano la malattia diabetica;
  • aspetti relativi ai farmaci utilizzati per la cura del diabete mellito;
  • aspetti relativi alla terapia anti-neoplastica.

Numerosi sono, infatti, i fattori di rischio comuni a diabete e cancro, quali età, sesso, obesità, sedentarietà, alcol, cattiva alimentazione e fumo, per i quali è necessaria una particolare attenzione e per quanto possibile un’efficace prevenzione, poiché riguardano un’elevata percentuale di soggetti (14).

Molteplici meccanismi conseguenti alla patologia diabetica sono ipotizzati essere alla base del legame tra diabete e tumori: iperinsulinemia (sia endogena che esogena), copresenza di obesità (15), alterata funzione dell’insulina conseguente all’insulino-resistenza (via mitogenica prevalente sulla metabolica), iper-espressione dei recettori insulinici (particolarmente l’isoforma mitogenica A, 1), aumento di IGF-I libero e ormoni sessuali liberi (androgeni ed estrogeni) conseguente alla riduzione di IGF-BP (insulin growth factor-binding protein) e SHBG (sex hormone-binding globulin), iperglicemia, infiammazione cronica (citochine infiammatorie: IL-6, PAI-I, IFN-alfa). Anche se il ruolo dell’iperglicemia è incerto, se ne sottolinea il possibile contributo al link fra diabete tipo 2 e cancro (16). Negli ultimi tempi sono stati ipotizzati altri meccanismi di legame fra diabete tipo 2 e tumori. Gli RNA non codificanti (ncRNA), in particolare i microRNA non codificanti (mncRNAs) e i long RNA non codificanti (LncRNAs) sono considerati come regolatori diffusi di espressione genica, che regolano la propensione di disordini metabolici, inclusa  l’associazione fra diabete e cancro (17). Infine, gli anticorpi anti-P53 forniscono un ulteriore tassello per spiegare il link fra diabete e tumore: sono 8.3 volte più alti nei diabetici e 24 volte più elevati nei soggetti diabetici con cancro rispetto alla popolazione generale (18).

Un altro aspetto complesso che interessa le due patologie è l’eventuale effetto che i farmaci utilizzati per la cura della malattia diabetica hanno sull’oncogenesi. Non vi sono evidenze che mostrino un aumentato rischio di cancro conseguente all’uso di insulina e analoghi dell’insulina ad azione rapida e prolungata, anzi è stato evidenziato un rapporto rischio/beneficio altamente favorevole all’uso di insulina (19).
L’associazione fra sulfoniluree e cancro è complicata dalla frequenza con la quale esse vengono utilizzate insieme con altri ipoglicemizzanti. Inoltre, l’aumentato rischio di cancro e mortalità deriva dal confronto con la terapia con metformina e non dal confronto con soggetti non trattati (20).
Numerosi studi osservazionali indicano una riduzione del rischio di cancro grazie all’uso della metformina (21,22). La maggior parte di quegli studi presenta però importanti bias (23). I meccanismi ipotizzati per l’azione anti-tumorale della metformina comprendono gli effetti sull’iperglicemia (con inibizione della gluconeogenesi), sul peso, sull’insulino-resistenza, sull’attivazione della via di segnale LKB1-AMPK (con esiti anti-proliferativi e anti-mitogeni) e sull’induzione di apoptosi (24). Anche se è prematuro escludere un qualsiasi effetto benefico della metformina nella prevenzione delle neoplasie, l’ipotesi di una riduzione di circa 1/3 del rischio oncologico con metformina sulla base degli studi osservazionali, non è sostenuta da studi randomizzati di qualità migliore (25).
Gli effetti dei glitazoni sull’oncogenesi sono molteplici, potendo aumentare, ridurre o non avere alcun influenza sul rischio tumorale o sulla prevenzione delle neoplasie nell’uomo (25); comunque, resta l’indicazione all’uso del farmaco in soggetti selezionati e privi di fattori di rischio noti per il carcinoma vescicale (26).
Per quanto riguarda gli agonisti recettoriali del GLP-1 e gli inibitori del DPP-4, le autorità regolatorie americana (FDA) ed europea (EMA) hanno completato la revisione di tutti i dati clinici e pre-clinici prodotti finora, alla ricerca di un possibile segnale di allarme sulla sicurezza pancreatica dei nuovi farmaci anti-diabetici e hanno concluso che al momento non vi è alcun motivo di preoccupazione (27). È necessario suggerire comunque un atteggiamento prudente (non prescrizione della liraglutide) nei soggetti con carcinoma midollare della tiroide o con predisposizione genetica verso tale neoplasia.
Anche gli inibitori del trasporto sodio-glucosio (SGLT-2) sono sospettati di effetti pro-tumorali (carcinoma mammario e vescicale) (28), ma il consensus statement AACE/ACE esclude tale rischio (29). È opportuno sottolineare che alcune gliflozine stanno dimostrando al contrario effetti anti-tumorali, sia pure con dati non definitivi (30). È comunque consigliabile un atteggiamento cauto, che escluda l’utilizzo di questa categoria di farmaci in soggetti con cistiti recidivanti o con storia di carcinoma vescicale o con nota predisposizione a tale neoplasia.

Le terapie anti-neoplastiche tradizionali presentano elevata tossicità renale, cardiaca ed epatica, che peggiora il compenso glico-metabolico e ovviamente la prognosi clinica. Le terapie che bloccano i check-point immunitari, pur presentando minore tossicità generale e migliore sopravvivenza, possono favorire l’insorgenza di diverse endocrinopatie ed influenzare negativamente il compenso glicometabolico, fino a causare, sia pur raramente, l’insorgenza acuta di diabete mellito di tipo 1 (31,32).

 

Conclusioni
Sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio l’associazione fra queste due patologie in continua crescita: più approfonditi, randomizzati, controllati, scevri dai bias del passato, in grado di considerare la lenta evoluzione dell’oncogenesi, l’eterogeneità della malattia diabetica, la complessità della terapia ipoglicemizzante (tipo, durata, sovrapposizione di più farmaci) e l’effetto della terapia anti-neoplastica sul compenso glico-metabolico e quindi sull’evoluzione prognostica di tale associazione. È pertanto evidente l’urgenza di una maggiore integrazione inter-disciplinare fra tutti gli specialisti coinvolti in questo campo (33).

 

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Vito A. Giagulli
Dipartimento di Medicina Interna, U.O. di Malattie Metaboliche ed Endocrinologia, P.O. Monopoli-Conversano, Presidio di Conversano AUL/BA

 

Il diabete mellito (DM) interessa l’intero organismo e la pelle non fa eccezione.
Numerose sono le manifestazioni cutanee del DM che hanno un’eziologia simile e sono il risultato degli stessi meccanismi patologici che provocano le complicazioni (1,2). D’altra parte, spesso le manifestazioni cutanee possono precedere la diagnosi di DM (3) o possono essere segno di rischio di diabete (4).
I cambiamenti nella pelle dovuti al DM possono essere classificati in quattro gruppi (1):

  • infezioni della pelle;
  • malattie della pelle riscontrate più frequentemente in associazione a DM;
  • alterazioni della pelle dovute a complicanze diabetiche;
  • reazioni al trattamento anti-diabetico.

Le alterazioni cutanee, pertanto, sono causate  sia  da un danno diretto del DM sulla struttura della cute, sia da un danno legato alle componente nervosa e vascolare cutanea  compromessa dalla stessa malattia (1,2).
Le condizioni direttamente collegate con i deficit endocrini, vascolari, neurologici e immunologici osservati nel DM sono: ulcere, acanthosis nigricans, ispessimento cutaneo diabetico, infezioni cutanee e xantomi cutanei. Esistono altre condizioni associate al DM, ma la cui eziopatogenesi resta incerta: la necrobiosi lipoidea, il granuloma anulare, la dermopatia diabetica, la bullosis diabeticorum e la collagenosi perforante acquisita.
Le ulcere degli arti inferiori sono senza dubbio le lesioni cutanee di maggior importanza nel diabetico: sino all’85% di amputazioni nei diabetici sono precedute da un’ulcera. Le ulcere nei diabetici sono multi-fattoriali, ma le complicanze neuropatiche e vascolari vi contribuiscono in misura preponderante. L’ulcera nel piede diabetico si sviluppa prevalentemente a partire da un’area di perdita di sensibilità (neuropatia sensitiva) sottoposta ad iperpressione (da neuropatia motoria); se si aggiungono l’ischemia e l’infezione, il quadro può divenire drammatico. Ai fattori  di rischio sopra elencati, si possono aggiungere patologie che determinano ulcere nei soggetti non diabetici: insufficienza venosa, linfedema cronico, dermatite da stasi, traumi di lieve entità.
La guarigione delle ulcere nei diabetici è ulteriormente ostacolata da fattori biochimici, endocrini, vascolari presenti nella cute dei pazienti stessi, ad es. la glicosilazione non enzimatica può compromettere la funzione delle proteine di matrice o delle cellule necessarie per la normale riparazione dei tessuti che bloccano i processi riparativi, rallentandone la normale evoluzione (5). Le infezioni sommate all’ischemia rendono sfavorevole la prognosi delle ulcere degli arti inferiori, per cui è necessario un corretto inquadramento della flogosi e una corretta valutazione della gravità (6-7).
Un breve cenno per ricordare che la cute del diabetico, in particolare quella dei piedi, oltre alle infezioni batteriche, può essere sede di infezioni fungine, soprattutto (ma non solo) ungueali, che a volte possono permettere lo sviluppo di successive infezioni batteriche e/o di celluliti (8).
Sottolineiamo che l’acanthosis nigricans può anche precedere la diagnosi di diabete mellito; alcuni lavori evidenziano come questa lesione correli con l’insulino-resistenza e possa essere utilizzata (seppur come surrogato clinico) per valutarne la severità (9).
Sino all’avvento di insuline altamente purificate (anni 80’) veniva osservata lipo-atrofia nella sede di iniezione sino al 16% di quei soggetti che facevano uso di preparazioni insuliniche meno pure, e soprattutto con l’impiego di insuline ad azione intermedia e ritardo. La lipo-ipertrofia cutanea nelle sedi di iniezione non è mai ridotta nonostante l’uso di analoghi dell’insulina. Essa è dovuta all’azione anabolica locale dell’insulina, che favorisce la sintesi di lipidi e proteine; pertanto è utile diversificare sempre le zone di iniezione.
A seguito delle iniezioni di insulina sono riportati casi di reazioni allergiche topiche, legate non solo all’uso di proteine contaminanti, di Zn e di protamina, ma anche dell’insulina stessa, fino a casi di vera e propria allergia all’insulina (reazione IgE-mediata).
Infine, anche l’uso dei microinfusori può comportare complicanze cutanee nei diabetici tipo 1 (DMT1). Infatti, la causa più frequente di sospensione del trattamento con infusione continua sottocutanea di insulina, soprattutto nel passato, è stata la comparsa di importanti infezioni (da Staphilococcus Epidermidis e Aureus). Si è ottenuta la significativa riduzioni di tali complicanze adottando semplici e comuni metodi igienici, quali lavare le mani prima di inserire gli aghi, cambiare il catetere ogni 48 ore, evitare il riutilizzo dello stesso catetere, utilizzare soluzioni anti-settiche sui siti di inserimento dell’ago, ecc (10).

 

Bibliografia

  1. Paron NG, Lambert PW. Cutaneous manifestations of diabetes mellitus. Prim Care 2000, 27: 371-83.
  2. Levy L, Zeichner JA. Dermatologic manifestations of diabetes. J Diabetes 2012, 4: 68-76.
  3. Meurer M, Stumvoll M, Szeimes RM. Skin changes in diabetes mellitus. Hautarzt 2004, 55: 428-35.
  4. Gyldenlove M, Knop FK, Vilsboll T, et al. Psoriasis is associated with type 2 diabetes. Ugeskr Laeger 2013, 175: 652-4.
  5. Tabor CA, Parlette EC. Cutaneous manifestations of diabetes: signs of poor glycemic control or new-onset diseases. Postgrad Med 2006, 24: 237-48.
  6. Lavery LA, Armstrong DG, Harkless LB. Classification of diabetic foot wounds. J Foot Ankle Surg 1996, 35: 528-31.
  7. Armstrong DG, Lavery LA, Harkless LB. Validation of a diabetic wound classification system. Diabetes Care 1998, 21: 855-9.
  8. Bristow I. Non ulcerative skin pathologies of the diabetic foot. Diabetes Metab Res Rev 2008, 24 Suppl 1: S84-9.
  9. Patidar PP, Ramachandra P, Philip R, et al. Correlation of acanthosis nigricans with insulin resistance, anthropometric and other metabolic parameters in diabetic Indians. Indian J Endocrinol Metab 2012, 16 suppl 2: S436-7.
  10. Hasselman C, Pecquet C, Bismuth E, et al. Continuous subcutaneous insulin infusion allows tolerance induction and diabetes treatment in a type 1 diabetic child with insulin allergy. Diabetes Metab 2013, 39: 174-7.