EGDS nella diagnostica dei NET
Debora Berretti
Gastroenterologia, Azienda Ospedaliero - Universitaria "S. Maria della Misericordia", Udine
L’EGDS con biopsie gastriche è necessaria per rilevare i NET gastrici.
I NET gastrici di tipo 1 e tipo 2 si presentano generalmente (65-77% dei casi) come piccole rilevatezze della mucosa (< 2 cm).
Piccola formazione ombelicata congesta di 5 mm a livello della seconda porzione duodenale: gastrinoma
In caso di piccoli (< 1 cm) NET gastrici (soprattutto se tipo 1 e 2), la EGDS con biopsia è usualmente l’unica indagine diagnostica raccomandata: i prelievi bioptici devono essere effettuati a livello di antro (2 biopsie), al corpo-fondo (4 biopsie) e sui polipi di maggiori dimensioni (1,2). L’eco-endoscopia (EUS) rappresenta un esame complementare (3).
In caso di NET duodenali, la EGDS con biopsia è il metodo diagnostico di scelta (4,5), seguita dalla EUS (3).
Bibliografia
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- Yoshikane H, Suzuki T, Yoshioka N, et al. Duodenal carcinoid tumor: endosonographic imaging and endoscopic resection. Am J Gastroenterol 1995, 90: 642–4.
Diagnostica endoscopica dell'intestino tenue
Silvia Nasoni
SC Gastroenterologia ed Epatologia, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale (RM)
L’intestino tenue, ossia il tratto di intestino compreso tra il duodeno ed il colon, è lungo alcuni metri e non è visibile con le più comuni procedure endoscopiche, la gastroscopia e la colonscopia. Per la sua esplorazione sono disponibili due tecniche di recente introduzione: l’enteroscopia con videocapsula e l’enteroscopia a doppio pallone.
L’enteroscopia con videocapsula consente l’esplorazione e la visione del piccolo intestino, ma non permette di effettuare manovre operative.
L'enteroscopia a doppio pallone consente non solo di visualizzare l’intestino tenue e di effettuare biopsie, ma permette anche di eseguire degli interventi, come l’asportazione di eventuali polipi, la dilatazione di restringimenti, il trattamento delle emorragie, la rimozione di corpi estranei, ecc.
Capsula endoscopica nella diagnostica dei NET
Silvia Nasoni
SC Gastroenterologia ed Epatologia, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale (RM)
Procedura
La capsula contiene al suo interno una microscopica telecamera, una batteria, una piccola fonte luminosa e una trasmittente che invia al computer le immagini di tutto il percorso seguito nel tratto gastrointestinale, evidenziando possibili anomalie.
La preparazione suggerita dai produttori di videocapsula endoscopica (VCE) consiste solo in una dieta composta da liquidi chiari e 8 ore di digiuno.
La capsula viene ingerita bevendo dell'acqua. La persona potrà bere dopo 2 ore e nutrirsi solo quando sono trascorse 4 ore dall'ingestione della capsula. Al termine del procedimento la capsula rimane all'interno della persona, per essere poi espulsa attraverso le feci, senza possibilità di riutilizzo. La durata totale dell'endoscopia capsulare è di circa 8 ore, durante le quali la persona può esercitare le sue normali attività.
Indicazioni e risultati
L’indicazione più frequente è il sanguinamento gastrointestinale di origine ignota (Obscure Gastrointestinal Bleeding, OGIB), ma la VCE viene utilizzata anche per indagare il potenziale ruolo delle patologie del piccolo intestino nell’anemia da carenza di ferro e nella diagnosi e follow-up del morbo di Crohn. Dopo l’introduzione della VCE nella pratica clinica, è stato dimostrato che la frequenza di tumori del piccolo intestino è più alta di quanto creduto in precedenza: tra il 2.4% e il 9.6% dei pazienti sottoposti a VCE vs il classico 2%.
La resa diagnostica della VCE in pazienti con OGIB è significativamente più alta nei pazienti con sanguinamento in atto rispetto a quelli con sanguinamento occulto intermittente o pregresso. La resa diagnostica è anche maggiore quando l’esame viene eseguito entro le 48 ore di ospedalizzazione dei pazienti per l’episodio emorragico.
Gli studi prospettici e una meta-analisi comparativa tra VCE ed enteroscopia push in pazienti con OGIB hanno mostrato una resa diagnostica significativamente migliore per la VCE rispetto all’enteroscopia (63% vs 23%). Nell’individuazione di una fonte di sanguinamento la VCE ha una resa diagnostica superiore anche rispetto alla TC, all’angio-TC (72% vs 24%) e all’angiografia standard (72% vs 56%). In confronto all’endoscopia intra-operatoria utilizzata come riferimento, la VCE ha sensibilità, specificità e valori predittivi positivi e negativi rispettivamente del 95%, 75%, 95% e 86%. Gli studi finora pubblicati hanno dimostrato che la resa diagnostica della VCE è maggiore anche rispetto a quella dell’enteroscopia a doppio pallone (Double Balloon Enteroscopy, DBE). In uno studio multicentrico americano, la concordanza tra VCE e DBE è risultata circa del 74% per le angio-displasie, 96% per le ulcerazioni, 94% per i polipi e 96% per i tumori di grandi dimensioni.
Giudizio complessivo
La videocapsula presenta alcune limitazioni e alcuni rischi di cui bisogna essere consapevoli: l’esame non deve essere eseguito in pazienti con disturbi della deglutizione, a causa del rischio di aspirazione, o con stenosi accertate del piccolo intestino. La videocapsula non è controindicata nei pazienti con pace-maker cardiaco o defibrillatore impiantabile cardiaco.
La VCE rappresenta un’innovazione che a tutt'oggi non sostituisce comunque né la colonscopia né la gastroscopia diagnostica.
Due fattori compromettono la resa diagnostica della metodica: la presenza di residui o bolle endoluminali e i tempi di transito gastrico (se rallentato) o intestinale (se eccessivamente rapido), poiché impediscono un’adeguata visualizzazione della mucosa nei diversi distretti.
Bibliografia
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Enteroscopia a doppio pallone nella diagnostica dei NET
Silvia Nasoni
SC Gastroenterologia ed Epatologia, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale (RM)
Strumento
L’enteroscopio a doppio pallone è un video-endoscopio ad alta risoluzione, con una lunghezza operativa di 200 cm, un diametro esterno di 8.5 mm e un canale operativo di 2.2 mm. È fornito di un overtube di 140 cm di lunghezza e diametro esterno di 12 mm.L’endoscopio flessibile scivola all’interno dell’overtube. Sulla punta sia dell’endoscopio che dell’overtube si trova un palloncino che viene gonfiato con aria (da qui il nome di enteroscopia a doppio pallone). Facendo avanzare alternativamente l’endoscopio e l’overtube e gonfiando e sgonfiando i due palloncini sarà possibile far procedere l’endoscopio lungo tutto l’intestino. In questo modo, raccogliendo man mano il piccolo intestino sullo strumento, si possono percorrere lunghissimi tratti, a volte anche l'intero tratto intestinale.
Preparazione ed e esecuzione
L’esame viene eseguito con paziente in sedazione cosciente (benzodiazepine e oppiacei) o eventualmente profonda (propofol) fino alla narcosi. Il tipo di sedazione e la necessità di assistenza dell’anestesista viene valutata caso per caso.
Nell’enteroscopia dall’alto il paziente non ha bisogno di nessuna preparazione, mentre per via anale sarà necessaria una preparazione come la colonscopia.
L’introduzione dell’enteroscopio per via anale viene effettuata con uguali modalità. Una volta superata la valvola ileo-cecale con l’enteroscopio (cosa che spesso è più difficile che con il colonscopio), l’overtube viene fatto avanzare sin dentro l’ileo terminale e quindi l’endoscopio più l’overtube, entrambi a pallone gonfio, vengono ritirati.
Il raggiungimento della valvola ileo-cecale per via orale è possibile solo in una minoranza di casi. Se è richiesta l’esplorazione completa del piccolo intestino e questa non sia ottenibile per via orale, si può marcare il punto raggiunto dall’endoscopio con un tatuaggio con china e quindi completare l’esplorazione dell’intestino per via anale sino a raggiungere il punto segnato. Questa tecnica combinata sarebbe in grado di consentire la completa esplorazione del viscere fino all’80% dei casi, anche se questa percentuale così alta è stata messa in discussione da dati più recenti. In realtà solo in una piccola percentuale di casi vi è necessità di esplorare l’intero intestino.
La durata media della metodica per l’esplorazione completa dell’intestino tenue è di circa 120 minuti da dividere tra l’approccio orale (circa 70 minuti) e quello anale (circa 50 minuti).
Risultati e rischi
La metodica è nel complesso ben tollerata e raramente causa complicanze gravi.Rischi potenziali derivano dall’uso di sedativi in pazienti anziani o con patologie respiratorie e cardiache. Le complicanze legate all’atto endoscopico diagnostico sono rare (0.002%-2.4%) e consistono in traumi della mucosa, piccole emorragie, che solitamente si arrestano spontaneamente (ma, se necessario, possono essere fermate con tecnica endoscopica), e perforazione, che rende necessario l’intervento chirurgico.
Ancora non si hanno informazioni definitive sul valore diagnostico della metodica. Nel caso di sanguinamento oscuro, sembra garantire un guadagno diagnostico tra il 50 e il 70%, paragonabile ai risultati ottenuti dalla videocapsula. Tale valore potrebbe essere addirittura maggiore rispetto a quello della capsula per le stenosi e le neoplasie, per le quali l’uso della capsula è addirittura controindicato. Un ulteriore vantaggio dell’enteroscopio è dato dalla possibilità di prelevare biopsie e trattare alcune lesioni del piccolo intestino. L’enteroscopio a doppio pallone attraverso l’uso di accessori idonei consente la terapia iniettiva e termica delle emorragie digestive, la rimozione di polipi e l’effettuazione di mucosectomie, la dilatazione di stenosi, la rimozione di corpi estranei, il posizionamento di endoprotesi.
Bibliografia
- Pohl J, Delvaux M, Ell C, et al. European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Guidelines: flexible enteroscopy for diagnosis and treatment of small-bowel diseases. Endoscopy 2008, 40: 609-18.
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Pancolonscopia nella diagnostica dei NET
Silvia Nasoni
SC Gastroenterologia ed Epatologia, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale (RM)
La colonscopia è una tecnica introdotta nella pratica clinica sul finire degli anni ´60, allorché furono disponibili i primi colonscopi flessibili a fibre ottiche.
Indicazioni
In generale la colonscopia è indicata:
- se il trattamento del paziente sarà probabilmente influenzato dal risultato della indagine;
- quando si presume l’esistenza di una patologia che può contemplare una procedura di endoscopia terapeutica.
Le indicazioni diagnostiche all’esecuzione dell’esame sono quindi costituite da:
- anomalie rilevate al clisma opaco, all’ecografia, alla TC o alla RMN che richiedano un’ulteriore valutazione;
- positività della ricerca del sangue occulto nelle feci e/o anemia sideropenica di origine non nota;
- emorragia digestiva distale;
- melena (dopo aver escluso l’eziologia a carico del tratto digestivo superiore);
- calo ponderale significativo (dopo aver escluso altre eziologie);
- modificazioni significative e persistenti dell’alvo;
- valutazione pre-operatoria dei pazienti con carcinoma del colon operabile per la ricerca di cancro sincrono o polipi;
- follow-up dei pazienti già sottoposti a polipectomia o intervento chirurgico per carcinoma del colon;
- screening delle neoplasie coliche in pazienti ad alto rischio (per es. pancoliti ulcerose insorte da almeno 7 anni, o coliti sinistre insorte da almeno 10 anni, storia familiare di poliposi o di cancro);
- nelle malattie infiammatorie dell’intestino quando una migliore definizione diagnostica o la valutazione della estensione e dell’attività della malattia influenzerà il trattamento del paziente.
Le indicazioni terapeutiche all’esecuzione dell’esame sono quindi costituite da:
- polipectomia;
- emostasi di lesioni sanguinanti;
- tatuaggio di lesioni da individuare intra-operatoriamente;
- decompressione di megacolon acuto non tossico o riduzione di volvolo;
- dilatazione di stenosi;
- rimozione di corpi estranei.
Controindicazioni
Sono rappresentate da:
- peritonite;
- perforazione intestinale;
- colite tossica o fulminante;
- diverticolite acuta;
- scompenso cardiaco grave e/o insufficienza respiratoria grave;
- diatesi emorragica grave non correggibile.
Preparazione
Una buona preparazione intestinale è un requisito indispensabile allo svolgimento di una colonscopia di qualità. La toilette intestinale, effettuata un tempo con clisteri, mannitolo o sale inglese, è stata da anni sostituita dal lavaggio intestinale per os a base di polietilenglicole (PEG), che per l’elevato volume è scarsamente tollerato dai pazienti ma offre risultati ottimali se ben eseguito, o dalla assunzione di Fosfato di Sodio, più accettabile ma da utilizzare con cautela nei pazienti affetti da insufficienza renale o cardiopatie. Tali preparazioni possono essere integrate e migliorate con l’aggiunta di piccole quantità di altri lassativi.
Sedazione
La sedazione associata o meno all’analgesia, è una condizione farmacologicamente indotta volta a ridurre il disagio percepito da un paziente durante una procedura invasiva come l’endoscopia. Nella pratica il paziente viene sedato poco prima di iniziare l’esame e viene risvegliato subito dopo il termine. Con i farmaci attualmente disponibili, che hanno una durata d’azione brevissima, il recupero delle condizioni pre-esame avviene in pochi minuti (in genere dai 10 ai 30 min) ed il paziente può immediatamente tornare a casa. Durante l’esame vengono controllati i parametri vitali mediante l’utilizzo di un monitor automatico. Esistono due livelli di sedazione che si distinguono soprattutto in base alla risposta del paziente agli stimoli verbali e agli stimoli dolorosi.
- Sedazione cosciente: viene ottenuta somministrando farmaci ipnotici della classe delle benzodiazepine e farmaci analgesici. Il paziente viene sedato, ma rimane comunque sveglio e collaborante durante tutta la procedura. È possibile che durante questo tipo di sedazione il paziente avverta comunque dolore o fastidio se lo stimolo è rilevante. Si ha un buon effetto ansiolitico.
- Sedazione profonda: viene ottenuta mediante la somministrazione da parte dell’anestesista di un farmaco ipnotico a durata brevissima, il propofol. Il paziente è sedato, non si accorge di nulla durante l’esame, non avverte alcun dolore e respira in modo autonomo come se stesse dormendo normalmente e viene prontamente risvegliato al termine della procedura.
Bibliografia
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- Raccomandazioni SIED. La colonscopia, a cura di L. Petruzziello.
- Commissione Linee Guida Federazione Malattie Digestive AIGO-SIED-SIGE. Indicazioni alla colonscopia.
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- American Society for Gastrointestinal Endoscopy. Appropriate use of gastrointestinal endoscopy. 1997.
Criteri per l'impostazione terapeutica
Nicola Fazio
Unità Tumori Gastrointestinali e Neuroendocrini, Istituto Europeo di Oncologia, Milano
INTRODUZIONE
Il trattamento di un paziente con neoplasia neuroendocrina (NEN) dovrebbe essere stabilito dopo aver definito i seguenti tre aspetti:
- caratterizzazione della malattia,
- inquadramento clinico del paziente,
- definizione degli obiettivi della cura.
CARATTERIZZAZIONE DELLA MALATTIA
In sequenza si dovrebbero verificare le seguenti condizioni:
- diagnosi certa,
- stadiazione completa,
- esistenza di fattori prognostici e/o predittivi di risposta alle terapie.
Diagnosi certa
Bisogna verificare che il patologo abbia definito “neuroendocrina” la neoplasia sulla base di criteri sia morfologici sia immunoistochimici e che la intenda come NEN “pura”. In altre parole, al “carcinoma con differenziazione neuroendocrina” o al “carcinoma misto, esocrino/endocrino” (1) non si applicano gli stessi criteri di stadiazione e definizione prognostica (né le stesse terapie) delle NEN.
Stadiazione completa
La stadiazione convenzionale viene effettuata con la Tomografia Computerizzata (TC) multistrato trifasica (o con la Risonanza Magnetica, RM, in casi dubbi o quando non è possibile effettuare la TC). Ad essa vanno associate le metodiche endoscopiche o eco-endoscopiche a seconda del tipo di NEN.
Vista la particolarità clinico-biologica delle NEN, alla stadiazione morfologica può essere utile associare quella funzionale:
- recettoriale, con PET-TC con 68Gallio (68Ga-DOTA-PET-CT) o scintigrafia con octreotide marcato (SRS, somatostatin receptor scintigraphy) con SPECT (single-photon emission computed tomography);
- metabolica, con PET-TC con fluorodesossiglucosio, FDG (18FDG-PET-CT).
La scelta della metodica funzionale dipenderà anche dalla caratterizzazione prognostica della neoplasia. L’espressione funzionale dei recettori della somatostatina (SSTR), che in genere correla con una prognosi più fausta, è indicata per le NEN a basso grado di malignità, mentre l’espressione funzionale del FDG potrebbe essere utile per le NEN ad alto grado di malignità.
Conoscere la sede primitiva può aiutare, ma non sempre è possibile. In ogni caso bisognerebbe condividere in ambito multidisciplinare il miglior work-up diagnostico per definirla.
Esistenza di fattori prognostici e/o predittivi di risposta alle terapie
Nelle GEP NEN Ki67 e/o indice mitotico (MI, mitotic index) rappresentano fattori prognostici validati, alla base dell’attuale classificazione (2). Tuttavia, il solo dato anatomo-patologico potrebbe non essere sufficiente per definire la prognosi di una NEN. Possibilmente il clinico dovrebbe considerare anche altri parametri e correlarli tra loro. Morfologia e grado di proliferazione del tumore potrebbero differenziare la prognosi e la risposta alla chemioterapia nelle NEN G3 (OMS 2010) (3,4), sintomi/segni clinici potrebbero creare delle priorità terapeutiche, l’espressione dei SSTR potrebbe indicare una prognosi migliore e nello stesso tempo predittività di risposta alla terapia radiorecettoriale (PRRT), la captazione del FDG nelle NEN a basso grado potrebbe indicare una maggiore aggressività (5), così come l’evolutività radiologica (6) e l’estensione di malattia; tutti questi parametri considerati nel loro insieme potrebbero aiutare ad impostare una terapia più personalizzata.
INQUADRAMENTO CLINICO DEL PAZIENTE
La decisione terapeutica potrebbe essere condizionata da una serie di fattori clinici, quali performance status, comorbilità, terapie farmacologiche in corso, sintomaticità o meno della NEN. Su quest’ultimo punto è importante soprattutto definire se la sintomaticità della NEN sia riferibile a una sindrome specifica. Ad esempio, la sindrome da carcinoide può associarsi a cardiopatia specifica del cuore destro, che condiziona negativamente la prognosi, indipendentemente dall’andamento della neoplasia. È perciò cruciale che la terapia punti al controllo della sindrome e, quindi, indirettamente a quello della cardiopatia.
DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA CURA
Dopo aver caratterizzato neoplasia e paziente, andrebbero definiti obiettivi immediati e tardivi del trattamento. L’ideale sarebbe farlo nell’ambito di un team multidisciplinare, ma in alcuni casi il quadro clinico non lo permette. Ad esempio, nel paziente fortemente sindromico o sintomatico la cura dei sintomi è sicuramente un obiettivo immediato da considerare, anche prima di discutere il caso collegialmente. L’analogo della somatostatina (SSA) va dato immediatamente per la terapia di una sindrome da carcinoide, così come la chemioterapia con platino ed etoposide in un paziente sintomatico con microcitoma avanzato. Anche in tali casi, tuttavia, l’inizio del trattamento dovrebbe basarsi quantomeno sulla certezza diagnostica.
In tutti gli altri casi, tuttavia, sarebbe meglio verificare prima i passi sopra descritti, possibilmente in ambiente multidisciplinare e definire obiettivi immediati e tardivi di una o più strategie di trattamento.
L’obiettivo tardivo, infatti, può condizionare in maniera cruciale l’impostazione terapeutica e la sequenza delle terapie. Ad esempio, se si condivide l’intento assolutamente palliativo di un trattamento, senza potenziale futura chirurgia resettiva, e si esclude quindi la necessità di un effetto citoriduttivo delle terapie, si penserà a una sequenza di terapie mediche con l’intento del controllo della crescita neoplastica nel tempo. Sarà importante in tal caso considerare la tossicità tardiva dei singoli trattamenti, onde evitare di precludere terapie future. Vanno considerate in tal senso soprattutto le terapie che hanno tossicità dose-cumulativa, come molti chemioterapici e la PRRT.Al contrario, se si configura, anche nel setting metastatico, un possibile trattamento “curativo”, basato sulla futura resezione radicale sia del tumore primitivo sia delle metastasi, sarà importante considerare la diversa probabilità di effetto citoriduttivo delle varie terapie e ponderarne il rapporto rischio-costo/beneficio.
CONCLUSIONE
Considerando i parametri prima discussi e applicandoli a un contesto di NEN avanzate, potremmo distinguere due gruppi estremi, con prognosi e approccio terapeutico opposti:
- da un lato le NEN con Ki67 molto basso (es. < 5%), con alta espressione funzionale dei SSTR, senza evolutività radiologica e clinicamente silenti, con PET-FDG negativa, dove l’SSA è la terapia di scelta e talora l’unica terapia per lungo tempo;
- dall’altro le NEN con alto Ki67 (es. > 60%), con espressione recettoriale bassa o assente, con alta captazione dell’FDG in PET, che evolvono radiologicamente e clinicamente, dove la terapia di scelta è la chemioterapia con platino ed etoposide.
Sul piano epidemiologico, tuttavia, queste due categorie non rappresenterebbero più del 20-30% dei casi, per cui la stragrande maggioranza delle NEN mostra una combinazione variabile dei vari fattori considerati, presentando una crescita moderata che mette a rischio qualità di vita e sopravvivenza del paziente. È in questi casi che andrebbero applicati, se possibile, i criteri di impostazione terapeutica discussi, poiché nello stesso setting clinico potrebbero essere proposte terapie diverse, dagli SSA alla PRRT, dall’interferone (IFN) ai farmaci a bersaglio molecolare (MTA, molecular targeted agent), dalla chemioterapia convenzionale a quella metronomica, fino a diversi trattamenti locoregionali, chirurgici o radiologici interventistici, soprattutto sul fegato.
BIBLIOGRAFIA
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Analoghi della somatostatina nella terapia dei NET
Franco Grimaldi
SOC Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Azienda Ospedaliero-Universitaria Santa Maria della Misericordia di Udine
(aggiornato al 19 marzo 2017)
Nelle neoplasie neuroendocrine (NEN) gli obiettivi terapeutici sono il controllo della sintomatologia secondaria all’iperincrezione ormonale e l’inibizione della crescita neoplastica (1). Più dell’80% delle NEN esprime sulla superficie di membrana cellulare i recettori della somatostatina (SSTR), in particolare SSTR2 nelle NEN di basso grado (1). Per superare il problema della brevissima emivita della somatostatina nativa, sono stati sintetizzati analoghi della somatostatina (SSA) a più lunga durata d’azione.
Nel corso degli anni gli SSA sono divenuti sempre più rilevanti nel trattamento delle NEN. Il presupposto della loro azione è legato alla dimostrazione di SSTR nell’80-90% dei tumori in vivo, attraverso metodiche come la scintigrafia total-body con 111In pentetreotide (Octreoscan), o, se fattibile, con PET 68Ga-DOTANOC/DOTATOC, o in vitro nel preparato istologico mediante la caratterizzazione tissutale dell’espressione dei sottotipi della somatostatina. È stata riscontrata una correlazione intorno all’85% dell’espressione di SSTR su tessuto con quella in vivo a mezzo Octreoscan (2), sebbene attualmente non siano ancora disponibili dati di confronto su ampie casistiche tra l’espressione di SSTR e la risposta terapeutica agli SSA.
Gli SSA attualmente disponibili per questa indicazione sono octreotide e lanreotide. Nuovi SA, con peculiarità dissimili di affinità recettoriale, sono in fase avanzata di sperimentazione, tra i quali pasireotide, caratterizzato da un’elevata affinità per 4 dei 5 SSTR (studi di fase 3 nei NEN)(3).
Gli SSA rappresentano la terapia elettiva della sindrome da carcinoide (2,3) ma vengono suggeriti anche in GEP-NEN funzionanti associate ad altre sindromi, nelle forme non funzionanti evolutive (4) e nelle NEN polmonari: carcinoidi tipici e atipici (5).
Grazie a una concentrazione stabile del farmaco, gli SSA hanno consentito maggior controllo sintomatologico e miglioramento sia della qualità di vita che della condizione fisica. È da segnalare però che circa il 50% delle NEN pancreatiche insulino-secernenti non esprime i recettori SSTR2 e SSTR5; in tale situazione, il trattamento con octreotide e lanreotide può sopprimere gli ormoni che ostacolano l’ipoglicemia (GH e IGF-I, e glucagone), con possibile peggioramento di ipoglicemia severa.
Alle dosi standard, gli SSA inducono una risposta clinica e biochimica nel 66% dei casi e una stabilizzazione della crescita tumorale nel 35-50% dei pazienti trattati. Inoltre, la sopravvivenza media dei pazienti con NEN è notevolmente aumentata dal momento in cui gli SSA sono stati introdotti nella pratica clinica.
Circa il 40% delle sindromi da carcinoide in trattamento con la massima dose di SSA a lento rilascio non è completamente controllata. In questi casi possono essere presi in considerazione un aumento della dose, una riduzione degli intervalli di somministrazione o l’aggiunta di octreotide sottocute (rescue) (6).
Uno dei principali limiti degli SSA nella terapia delle NEN, all’inizio del loro impiego, era il fenomeno della tachifilassi, per il quale un tumore ben controllato per un certo numero di mesi andava successivamente incontro ad “escape”; l’impiego dei nuovi SSA, a lento rilascio, ha consentito di evitare tale inconveniente. Vi sono tuttavia alcuni pazienti che sono poco o per nulla responsivi agli SSA a lunga durata d’azione. I principali meccanismi di resistenza nei pazienti con NEN SSTR-positive sono: la disomogenea distribuzione recettoriale nel tumore, la selezione di cloni SSTR-negativi durante la terapia e l’assenza di SSTR con elevata affinità per l’analogo in uso. In particolare, il profilo recettoriale delle NEN è molto variabile: l’eterogeneità non riguarda solo i diversi istotipi, ma anche le distinte lesioni tumorali nel medesimo paziente. Ciò indica che un paziente può avere un tumore con una scarsa espressione recettoriale SSTR2 e/o SSTR5 e un’elevata espressione recettoriale di differenti SSTR. In tale ipotesi l’efficacia di octreotide e lanreotide sarà molto ridotta, sia in termini anti-proliferativi che anti-secretivi.
Sono stati finora pubblicati due studi prospettici randomizzati vs placebo che hanno valutato l’attività anti-proliferativa degli SSA. Lo studio PROMID (7), in doppio cieco, di fase III, ha confrontato octreotide LAR 30 mg ogni 4 settimane vs placebo in 90 pazienti con NEN del midgut (piccolo intestino + colon prossimale) non pre-trattati. I due bracci di trattamento erano ben bilanciati per età, Ki67 e coinvolgimento epatico, mentre c’era discrepanza per il tempo dalla diagnosi all’inizio del trattamento (7.5 mesi nel braccio di trattamento vs 3.3 nel braccio placebo). Erano includibili pazienti con tumore sia non funzionante che funzionante, purchè il flushing o la diarrea fossero gestibili senza necessità di SSA. Globalmente il 95% delle neoplasie aveva un Ki67 < 2% e il 74% era positivo alla scintigrafia con octreotide marcato. Lo stato di malattia al basale (progressione o stabilità) non è noto. Dei 90 pazienti inclusi, 85 sono stati randomizzati, 42 nel braccio octreotide LAR e 43 nel braccio placebo. Octreotide LAR ha più che raddoppiato il tempo alla progressione (da 6.0 a 14.3 mesi) rispetto al placebo. Il PROMID è stato il primo studio prospettico randomizzato che ha dimostrato superiorità statisticamente significativa per un SSA (nel caso octreotide LAR) rispetto allo standard of care (placebo) in una categoria di GEP-NEN (7).
L’altro studio, denominato CLARINET, di fase III, in doppio cieco, ha incluso non solo NEN del midgut, ma anche NEN intestinali non-midgut e pancreatiche avanzate. Le neoplasie erano tutte non funzionanti e potevano essere pre-trattate (7). Lo studio ha confrontato lanreotide autogel 120 mg ogni 4 settimane con placebo in una popolazione di 204 pazienti (101 dei quali randomizzati a ricevere lanreotide e 103 placebo). Era prevista una stratificazione per progressione verso non progressione al basale e per pre-trattamento verso non pre-trattamento. Il Ki67 (valutato centralmente) doveva essere < 10% e bisognava avere una scintigrafia con octreotide marcato con captazione > 2 (gradi di Krenning). Lo stato del tumore al basale doveva essere valutato con due TC o due RM nei 3-6 mesi antecedenti la randomizzazione per chiarire se il tumore fosse stabile o in progressione RECIST 1.0. Lo studio ha mostrato un vantaggio statisticamente significativo a favore di lanreotide in termini di sopravvivenza libera da progressione (PFS), endpoint primario, che è risultata di 18 mesi nel braccio placebo e non ancora raggiunta nel braccio lanreotide (8). Lo studio CLARINET ha mostrato per la prima volta in prospettico un vantaggio in PFS di un SSA per GEP-NEN avanzate, non funzionanti, con stabilità di malattia al basale, indipendentemente dal carico epatico di malattia.
È controverso l’uso degli SSA dopo trattamento chirurgico, di radiologia interventistica e/o di radioterapia in GEP-NEN metastatici non funzionanti, in pazienti senza evidenza di malattia residua attiva. Non sono stati eseguiti studi per rispondere specificamente a tale quesito. La decisione clinica su singoli casi dovrebbe essere ben ponderata in ambito multidisciplinare, tenendo conto dell’assenza di evidenza specifica, delle caratteristiche della malattia trattata e del rapporto costo/beneficio. L’uso degli SSA come terapia adiuvante nelle GEP-NEN in stadio localizzato o localmente avanzato, radicalmente resecate, non è stato specificamente studiato.
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Interferone nella terapia dei NET
Franco Grimaldi
SOC Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Azienda Ospedaliero-Universitaria Santa Maria della Misericordia di Udine
Gli interferoni sono una famiglia eterogenea di citochine, secrete in prevalenza da leucociti, fibroblasti e linfociti. Inizialmente identificati per la loro attività anti-virale, esercitano un ruolo importante in numerosi processi biologici, quali differenziazione e proliferazione cellulare, risposta immunitaria e trasformazione neoplastica.
Noto come agente anti-virale e anti-tumorale, l’interferone alfa ricombinante (IFN-α-2b) è stato introdotto da Öberg nel 1982 nel trattamento dei tumori neuroendocrini (NET) per la sua propensione a controllare la secrezione ormonale, i sintomi clinici e la crescita tumorale, sulla base di dati sperimentali che avevano dimostrato un effetto diretto sulla cellula tumorale e indiretto sulla modulazione del sistema immunitario (1).
I meccanismi d’azione dell’α-IFN sono:
- effetto anti-proliferativo;
- inibizione ormoni e fattori di crescita, tramite blocco cellulare nelle fasi G0 e G1, con inibizione del passaggio alla fase S attraverso il controllo della proteina Rb;
- stimolazione generale del sistema immunitario (induzione di antigeni di classe I sulla superficie cellulare e stimolazione delle cellule natural killer;
- induzione a reazioni fibrotiche intra-tumorali;
- inibizione dell’angiogenesi.
Attualmente un discreto gruppo di pazienti con NET, circa 400, è stato trattato con la forma ricombinante IFN-α-2b, registrata in molti Paesi Europei per il trattamento dei carcinoidi maligni.La terapia con IFN-αumano ricombinante rappresenta un trattamento di terza linea nei NET dopo la target terapia.
La dose standard utilizzata è compresa tra 3 e 9 milioni di unità internazionali, per via sottocutanea, da 3 a 7 giorni la settimana, titolandola sulla base della risposta leucocitaria (la conta dei globuli bianchi non deve scendere sotto 3000/mL), ma va personalizzata per ciascun paziente. In alcuni casi, sono state impiegate anche dosi più elevate.
L’IFN-α è in grado di controllare la sintomatologia associata ai NET nel 15-50% dei casi, ma solo nel 5-15% determina una risposta obiettiva misurabile del tumore.
Tutti gli interferoni di tipo I si legano a uno specifico complesso recettoriale formato dalle catene IFNAR-1 e IFNAR-2.
L’IFN-ß è un’ulteriore molecola, che presenta un’affinità nei confronti delle subunità IFNAR-1 e IFNAR-2 rispettivamente maggiore di 100 e 50 volte dell’IFN-α2. In particolare, l’elevata analogia dell’IFN-ß verso la catena IFNAR-1 pare sia responsabile della maggiore attività anti-proliferativa di questa citochina rispetto all’IFN-α. Di fatto, in diversi modelli cellulari di tumori endocrini (NET del pancreas e carcinoma del surrene), l’IFN-β ha effetti anti-tumorali maggiori dell’IFN-α (2-4).
Terapia combinata: analoghi della somatostatina (SA) e interferone (α-IFN)
L’IFN ha dimostrato una notevole efficacia nei NET, una combinazione α-IFN e SA potrebbe ampliare la risposta terapeutica, consentendo una migliore tollerabilità dell’α-IFN e potrebbe anche essere efficace in caso di progressione della malattia nei pazienti in trattamento con SA. A oggi, la terapia “combinata” non è però ancora validata.
Una review del 2007 (5) ha rivalutato diversi studi, tra cui uno che confrontava 68 pazienti divisi in due gruppi (6), uno trattato con α-interferone e l’altro con α-interferone + octreotide, con differenza statistica a favore dell’associazione nella progressione della malattia e nella sopravvivenza. In un altro studio che includeva 88 pazienti suddivisi in tre gruppi (terapia con solo α-interferone, con solo Lanreotide e con l’associazione) non sono state evidenziate differenze di sopravvivenza (7).
Bibliografia
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- Kolby L, Persson G, Franzen S, Ahren B. Randomised clinical trial of the effect of interferon α on survival in patients with disseminated midgut carcinoid tumours. Br J Surg 2003, 90: 687–93.
Scheda interferone α-2b ricombinante
Franco Grimaldi
SOC Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Azienda Ospedaliero-Universitaria Santa Maria della Misericordia di Udine
Meccanismo d’azione
- Effetto anti-proliferativo: blocco del ciclo cellulare nella fase G0 e G1.
- Inibizione fattori di crescita: induzione di 2’5 A sintetasi.
- Stimolazione del sistema immunitario: induzione di antigeni di classe I e stimolazione delle cellule natural killer.
- Induzione di reazioni fibrotiche
- Induzione dell’angiogenesi.
Farmaci disponibili, via di somministrazione e posologia
IntronA soluzione (Introna). La soluzione è disponibile in diverse formulazioni e dosaggi:
- flaconcino monodose di soluzione iniettabile: 3 milioni UI, 5 milioni UI, 10 milioni UI, 18 milioni UI, 25 milioni UI;
- penna multidose: 18 milioni UI, 30 milioni UI, 60 milioni UI.
Indicazioni
Trattamento di tumori carcinoidi con linfonodi o metastasi epatiche e con "sindrome da carcinoide".
Il trattamento deve essere iniziato da un medico esperto nel trattamento della patologia. La dose usuale è di 5 milioni UI (da 3 a 9 milioni UI) somministrata tre volte la settimana (a giorni alterni) per via sottocutanea. Per gli schemi posologici di mantenimento, a discrezione del medico è consentita la somministrazione attuata direttamente dal paziente.
Pazienti in stadio avanzato possono richiedere dosi giornaliere di 5 milioni UI.
Il trattamento deve essere temporaneamente sospeso durante e dopo intervento chirurgico.
In caso di risposta del paziente, la terapia con α-interferone deve essere protratta sino a progressione.
Controindicazioni
Ipersensibilità al principio attivo o a uno qualsiasi degli eccipienti.
Grave patologia cardiaca pre-esistente (es. scompenso cardiaco congestizio non controllato, infarto miocardico recente, gravi aritmie).
Grave disfunzione renale o epatica, compresa quella causata da metastasi.
Epilessia e/o funzionalità compromessa del sistema nervoso centrale.
Pre-esistenti gravi malattie psichiatriche o anamnesi positiva di gravi disturbi psichiatrici.
Epatite cronica in presenza di cirrosi epatica scompensata.
Epatite cronica in pazienti contemporaneamente o recentemente trattati con agenti immuno-soppressivi, salvo nel caso di interruzione di una terapia corticosteroidea a breve termine, epatite autoimmune o anamnesi positiva di malattia autoimmune; pazienti trapiantati immuno-depressi.
Patologia tiroidea pre-esistente, salvo quando controllata con terapia convenzionale.
Effetti collaterali
Nei primi giorni di trattamento: sintomi simil-influenzali (spossatezza, mialgie) ben controllabili con i comuni rimedi sintomatici.
Sintomi di maggiore gravità, legati al prolungamento della terapia, sono connessi alla comparsa di sindrome da affaticamento cronico, anoressia, calo ponderale in circa il 50% dei pazienti; in una percentuale inferiore possono comparire anemia, leucopenia, trombocitopenia, elevazione degli indici di citolisi epatica e manifestazioni allergiche o autoimmuni (tiroiditi con iper o ipotiroidismo).
Precauzioni d’uso
Se durante il trattamento con IntronA si manifestano eventi avversi, per qualsiasi indicazione modificare il dosaggio o sospendere temporaneamente la terapia fino a scomparsa di tali effetti. Nel caso di intolleranza persistente o ricorrente, nonostante l'adeguato aggiustamento posologico, o di progressione della malattia, sospendere il trattamento.
Se durante il trattamento con interferone α2b insorgono gravi eventi avversi, in particolare se i granulociti diminuiscono fino a < 500/mm3 o i livelli di ALT/AST aumentano di almeno 5 volte il limite superiore normale, sospendere temporaneamente il trattamento, fino a risoluzione dell'evento. Il trattamento con interferone α2b deve poi ricominciare al 50% del dosaggio precedente. Se dopo l'aggiustamento della dose, l'intolleranza persiste, o se i granulociti diminuiscono a < 250/mm3 o i livelli di ALT/AST aumentano di almeno 10 volte il limite superiore normale, sospendere la terapia.
Limitazioni prescrittive
Prescrivibile con piano terapeutico.
Inibitori di mTOR nella terapia dei NET
Gabriele Luppi e Fabio Gelsomino
Oncologia Medica, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena
(aggiornato al 19 marzo 2017)
La via di segnale mTOR
Mammalian target of rapamycin (mTOR) è una serina-treonina chinasi intra-citoplasmatica, che ha un ruolo fondamentale nei processi di regolazione della proliferazione e della crescita cellulare. Fu identificata nel 1994 come bersaglio dell’antibiotico rapamicina, che, legandovisi attraverso un complesso proteico inibitorio (chiamato FKBP12), ne blocca l’attività (1).
mTOR fa parte della via di PI3K/AKT, la cui attivazione si traduce nell’aumentata espressione di proteine fondamentali nel regolare la progressione del ciclo cellulare e la proliferazione (2).
In condizioni fisiologiche mTOR viene attivata, attraverso le chinasi a monte PI3K-AKT, quando le condizioni dell’ambiente extra-cellulare sono favorevoli, ovvero in presenza di ampia disponibilità di glucosio, aminoacidi, ossigeno e fattori di crescita. Quando la disponibilità di tali sostanze è bassa, mTOR viene inibita. L’attivazione avviene prevalentemente in maniera indiretta, attraverso l’inibizione di fattori “upstream” normalmente inibenti mTOR (quindi attraverso il blocco dell’inibizione di mTOR), quali le proteine tuberous sclerosis complex 1 e 2 (TSC1 e TSC2) e PTEN (Phosphatase and Tensin homolog deleted on chromosome ten) (3).
In diverse neoplasie umane questa via di trasduzione del segnale è attivata attraverso vari meccanismi, come mutazioni attivanti in alcune chinasi, la perdita di proteine inibitorie (ad esempio PTEN) o l’overespressione di fattori di crescita come IGF-1 (insulin growth factor 1) o VEGF (vascular endothelial growth factor) (4-5). Questo è particolarmente vero nei tumori neuroendocrini (NET): a riprova di ciò, un’analisi del profilo di espressione genica di una casistica di pNET (NET pancreatici) ha mostrato una ridotta espressione di due geni importanti nella via di mTOR: TSC2 e PTEN (6-9).
Everolimus nei tumori neuroendocrini
Considerato il ruolo chiave di mTOR nel controllo della crescita neoplastica, della proliferazione e dell’angiogenesi, l’inibizione di mTOR ha assunto un importante ruolo nella strategia terapeutica anti-neoplastica. In particolare, la rapamicina (sirolimus) è un antibiotico della famiglia dei macrolidi che lega la proteina citosolica FKBP-12, la quale interagisce con il complesso di mTOR, bloccandone la trasduzione del segnale a valle (10). Gli inibitori di mTOR, tutti derivati della rapamicina, sono everolimus, temsirolimus e deforolimus. Nei NET everolimus è di gran lunga l’agente più diffusamente studiato nei trial clinici.
In studi pre-clinici everolimus ha dimostrato attività immuno-soppressiva (tramite inibizione della proliferazione linfocitaria) e attività anti-tumorale, sia tramite inibizione diretta delle cellule neoplastiche sia attraverso un’azione anti-angiogenetica (11-15).
La sperimentazione clinica di everolimus, oltre ad essere sostenuta dal forte razionale biologico precedentemente descritto, si basa su evidenze pre-cliniche raccolte in modelli cellulari e murini (16), che ne hanno dimostrato l’attività anti-proliferativa e di controllo sulla crescita tumorale.
Una combinazione terapeutica molto interessante e promettente è quella che vede everolimus associato a octreotide. Il razionale di tale combinazione si basa sulla dimostrazione che l’inibizione di mTOR potrebbe essere superata dalla riattivazione della stessa via attraverso Akt (upstream di mTOR), che verrebbe attivata attraverso un aumento dell’espressione del recettore di IGF-1 (17). Sia la somatostatina sia i suoi analoghi, tra cui octreotide, sono in grado di diminuire l’attivazione della via PI3K/Akt/mTOR sia in modo diretto che indiretto. Nel primo caso il cross-talk intracellulare tra le vie attivate a livello della membrana cellulare da parte dei recettori della somatostatina si traduce in segnali che controllano negativamente l’attivazione di mTOR. D’altra parte, l’effetto inibitorio della somatostatina e degli analoghi derivati sul rilascio di fattori di crescita ha un effetto additivo sullo spegnimento delle vie di trasduzione del segnale che convergono su mTOR.
Nell’ambito del principale programma di ricerca su everolimus nei NET, denominato RADIANT (The RAD001 in Advanced Neuroendocrine Tumors), lo sviluppo clinico di questo farmaco è stato portato avanti senza mai escludere la possibilità di combinarlo con gli analoghi della somatostatina ed alcune evidenze cliniche (come quelle degli studi RADIANT-1 e RADIANT-2) suggeriscono che l'efficacia della combinazione dei due agenti possa essere superiore all’uso del singolo agente.
Con questi presupposti è stato condotto il primo studio di fase II, che ha dimostrato l’attività di everolimus in pazienti con NET avanzati, pubblicato da Yao nel 2008 (18). In questo trial pazienti con NET di grado basso o intermedio, metastatici o localmente avanzati, sono stati trattati con octreotide LAR (30 mg intramuscolo ogni 28 giorni) ed everolimus (5 o 10 mg/die). Erano permessi precedenti trattamenti chirurgici, chemioterapici o con octreotide. I pazienti inclusi nel trial erano 60 (30 con carcinoidi e 30 con pNET). Vi sono state 13 risposte parziali (22%) e 42 pazienti con stabilità di malattia (70%). La sopravvivenza mediana libera da progressione è stata di 60 settimane.
Un secondo trial di fase II (denominato RADIANT-1, il primo del progetto di sviluppo RADIANT) con everolimus 10 mg/die è stato condotto in pazienti affetti da pNET avanzati in progressione dopo chemioterapia (19). I pazienti sono stati stratificati sulla base del trattamento o meno con octreotide: nel caso in cui i pazienti fossero in terapia con l’analogo della somatostatina al momento dell’arruolamento nello studio, questo veniva continuato, in associazione ad everolimus. Nei pazienti trattati con solo everolimus è stato osservato un tasso di risposte parziali del 9.6% e di stabilizzazioni di malattia del 67.8%, mentre nei pazienti trattati con everolimus in combinazione con octreotide le risposte parziali e le stabilizzazioni sono state rispettivamente del 4.4% e 80%. La progression-free survival mediana (mPFS) è stata di 9.7 mesi nei pazienti trattati con solo everolimus e 16.7 mesi nel braccio di combinazione, suggerendo un importante effetto di stabilizzazione di malattia ottenuto dall’associazione dei due farmaci, sebbene lo studio non fosse stato disegnato per dimostrare una superiorità della combinazione rispetto alla monoterapia. Come già precedentemente accennato, il razionale alla base di questa combinazione si basa sul fatto che octreotide ha dimostrato di ridurre i livelli di IGF-1 in pazienti con cancro e che la cascata di segnale determinata da IGF-1 è un potenziale meccanismo di resistenza a everolimus. Nello studio in oggetto è stato inoltre osservato che pazienti con precoci risposte biochimiche, valutate mediante normalizzazione o riduzione di almeno il 30% dei livelli di cromogranina A (CgA) e di enolasi neuro-specifica (NSE) dopo 4 settimane di trattamento, avevano una PFS maggiore rispetto a coloro in cui non si verificava tale risposta biochimica precoce.
L’obiettivo del trial di fase III multicentrico RADIANT-2 era quello di valutare l’efficacia di everolimus in aggiunta ad octreotide LAR in pazienti con NET avanzati con sindrome da carcinoide (20). 429 pazienti sono stati randomizzati a ricevere everolimus 10 mg o placebo in combinazione con octreotide LAR 30 mg intramuscolo ogni 28 giorni. I tumori neuroendocrini più rappresentati erano quelli del piccolo intestino (52%), seguiti da quelli polmonari (10%), mentre il 6% dei pazienti in studio aveva un pNET. Tutti i pazienti avevano NET sindromici bene o moderatamente differenziati. La mPFS è stata di 16.4 mesi nel gruppo trattato con everolimus rispetto agli 11.3 mesi nei pazienti trattati con placebo, con una riduzione del rischio di morte del 23% (HR 0.77). Questo risultato, sebbene clinicamente rilevante, non è statisticamente significativo (p=0.026 solo di poco inferiore al limite predefinito di 0.024), anche in conseguenza di significativi sbilanciamenti tra i 2 bracci a sfavore del braccio con everolimus e di incongruenze tra la valutazione radiologica centralizzata rispetto alla valutazione radiologica locale, che hanno portato ad una perdita di potenza dello studio. Analisi di sottogruppo condotte da Anthony e colleghi (21) hanno evidenziato un miglioramento della mPFS sia tra i pazienti che avevano ricevuto analoghi della somatostatina prima dell’arruolamento che tra quelli naive per gli stessi analoghi (in ogni caso nessun sottogruppo ha raggiunto la significatività statistica).
Lo studio di fase III multicentrico randomizzato in doppio cieco RADIANT-3 (22) ha confrontato everolimus 10 mg/die in associazione alla migliore terapia di supporto (best supportive care, BSC) con placebo e BSC in pazienti affetti da pNET avanzato di grado basso o intermedio, in progressione radiologica nei 12 mesi precedenti la randomizzazione. Endpoint primario dello studio era la PFS, mentre obiettivi secondari erano la ORR (overall response rate), la durata della risposta, la sopravvivenza globale e il profilo di sicurezza. Il disegno dello studio prevedeva la possibilità di cross-over per i pazienti randomizzati a placebo nella fase di progressione di malattia. La PFS mediana è stata di 11.4 mesi con everolimus e 5.4 mesi con placebo, con una riduzione del rischio di morte del 66% (HR 0.34). Il beneficio si è mantenuto in tutti i sottogruppi. Anche i risultati in termini di risposta hanno dimostrato l’efficacia di everolimus, con 5% di risposte obiettive (vs 2% con placebo) e 73% di stabilizzazione di malattia (vs 51% con placebo). I risultati di questo trial hanno portato all’approvazione a livello europeo di everolimus nei pNET in progressione. Recentemente è stata pubblicato l’aggiornamento sulla sopravvivenza globale di questo trial, che ha mostrato una sopravvivenza mediana di 44 mesi, la più lunga mai riportata in uno studio di fase III nei pNET avanzati in progressione. Everolimus ha mostrato un vantaggio di sopravvivenza di 6.3 mesi rispetto al placebo, che tuttavia non ha raggiunto la significatività statistica, verosimilmente a causa dell’effetto confondente dell’ampio cross-over (85% dei pazienti inizialmente randomizzati a BSC hanno poi ricevuto everolimus) (23).
Lo studio RADIANT-4 è un trial di fase III in doppio cieco che ha randomizzato pazienti con tumori neuroendocrini bene o moderatamente differenziati di origine polmonare o gastrointestinale (non pancreatici) non funzionanti, avanzati, in progressione, a ricevere everolimus 10 mg versus placebo. In questo trial l’utilizzo concomitante degli analoghi della somatostatina veniva concesso solo in caso di sindrome da carcinoide emergente, non altrimenti controllabile con farmaci sintomatici. Everolimus ha pertanto dimostrato un prolungamento della mPFS (11 mesi vs 3.9 mesi) rispetto al placebo, con una riduzione del rischio di progressione o morte del 52%. I risultati di questo trial potranno portare ad estendere l’indicazione di everolimus al trattamento di tumori neuroendocrini polmonari o di origine gastrointestinale non funzionanti in progressione (24).
Ad oggi non è chiara quale sia la sequenza di trattamento ideale per i pazienti affetti da NET. Tuttavia, in uno studio retrospettivo multicentrico italiano con 169 pazienti trattati con everolimus (85 pNET + 84 non-pNET), il pretrattamento con terapia radiorecettoriale (PRRT) o chemioterapia ha portato ad un incremento di 12 volte del rischio di eventi avversi di grado 3-4 (25). Questo suggerisce pertanto l’importanza di una pianificazione terapeutica strategica in questi pazienti, in una valutazione globale che tenga conto dei trattamenti precedenti e dei rischi di tossicità.
Inoltre al congresso ENETS 2015 sono stati presentati i dati dello studio di fase 2 COOPERATE-2, in cui i pazienti con pNET avanzato in progressione venivano randomizzati a ricevere everolimus vs la combinazione dello stesso con pasireotide, un analogo multi-target della somatostatina. Tale studio non ha raggiunto l’endpoint primario della PFS.
Un altro trial interessante è il CALGB 80701, presentato al congresso ASCO 2015. Si trattava di uno studio randomizzato di fase II in pazienti con pNET localmente avanzato o metastatico, che confrontava everolimus 10 mg/die vs la combinazione di everolimus 10 mg/die e bevacizumab 10 mg/kg ogni 2 settimane. In tale studio il braccio di combinazione ha mostrato un vantaggio non statisticamente significativo in termini di PFS (16.7 vs 14 mesi), con un incremento significativo delle risposte obiettive (31% vs 12%), ma anche un aumento della frequenza degli eventi avversi di grado 3 (diarrea, iposodiemia, ipofosfatemia, proteinuria e ipertensione) (26).
Profilo di tossicità
In base ai dati derivati dagli studi registrativi dei NET (20,22), il profilo di tollerabilità di everolimus appare alquanto accettabile. Gli eventi avversi di grado 3-4, in accordo con la classificazione National Cancer Institute’s Common Terminology Criteria for Adverse Events (NCI-CTC AE) versione 4.0, sono poco frequenti (≤ 7%). Per effetti collaterali vedi capitolo relativo.
Prospettive future
Sulla base dei risultati positivi degli studi RADIANT, sono in corso diversi studi che stanno testando il migliore posizionamento di everolimus nella terapia dei NET. Particolarmente interessante è lo studio SEQTOR, che randomizza pazienti con pNET avanzato ben differenziato in progressione a ricevere la sequenza streptotozocina + 5-FU seguita da everolimus alla progressione o la sequenza inversa. Altro aspetto interessante che viene attualmente valutato in uno studio di fase II è il ruolo di everolimus nella terapia di mantenimento dei carcinomi neuroendocrini metastatici di origine polmonare o gastroenteropancreatica (studio MAVERIC).
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Scheda everolimus
Gabriele Luppi e Fabio Gelsomino
Oncologia Medica, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena
Meccanismo d’azione
Everolimus è un inibitore orale selettivo di mTOR (mammalian target of rapamycin), una serina-treonina-chinasi intra-citoplasmatica che ha un ruolo importante nella regolazione della proliferazione e della crescita cellulare. Everolimus, come il suo analogo rapamicina, si lega a mTOR, tramite la proteina intra-cellulare FKBP-12, bloccando il complesso mTORC1 e quindi la sintesi proteica mediata dalle proteine S6K1 e 4E-BP1. In studi preclinici everolimus ha dimostrato attività immuno-soppressiva tramite inibizione della proliferazione linfocitaria, e attività anti-tumorale, sia tramite inibizione diretta delle cellule neoplastiche sia attraverso un’azione anti-angiogenetica.
Preparazioni, via di somministrazione, posologia
- Compresse da 0.25 mg (Certican), 0.75 mg (Certican), 2.5 mg (Afinitor), 5 mg (Afinitor, everolimus EthyPharm, everolimus Medac, everolimus Sandoz), e 10 mg (Afinitor, everolimus EthyPharm, everolimus Medac, everolimus Sandoz)
- Compresse dispersibili 0.25 mg (Certican), 2 mg (Votubia), 3 mg (Votubia).
Deve essere somministrato per via orale una volta al giorno alla stessa ora, regolarmente con o senza cibo. Le compresse devono essere inghiottite intere con un bicchiere d’acqua e non devono essere masticate o frantumate.
La dose raccomandata di everolimus è di 10 mg una volta al giorno. Il trattamento deve continuare fino a quando si osserva un beneficio clinico o finché non compaia tossicità inaccettabile.
Indicazioni
Carcinoma renale: trattamento di pazienti con carcinoma renale avanzato, che hanno presentato progressione durante o dopo trattamento con terapia mirata anti-VEGF.
Carcinoma mammario avanzato: trattamento del carcinoma mammario avanzato con stato recettoriale ormonale positivo, HER2/neu negativo, in combinazione con exemestane, in donne in post-menopausa in assenza di malattia viscerale sintomatica dopo recidiva o progressione a seguito di trattamento con un inibitore dell’aromatasi non steroideo.
Tumori neuroendocrini pancreatici: trattamento di tumori neuroendocrini di origine pancreatica, bene o moderatamente differenziati, non operabili o metastatici, in progressione di malattia, negli adulti.
Contro-indicazioni
Ipersensibilità al principio attivo, ad altri derivati della rapamicina o ad uno qualsiasi degli eccipienti.
Precauzioni d'uso
Per i pazienti con moderata compromissione epatica (Child-Pugh class B), la dose deve essere ridotta a 5 mg/die. Everolimus non è stato valutato in pazienti con compromissione epatica grave (Child-Pugh class C) e non è raccomandato per l’uso in questa categoria di pazienti.
Non sono necessarie riduzioni di dose in pazienti con ridotta funzione renale o in pazienti anziani.
Particolare attenzione va posta alle possibili interazioni farmacologiche. Everolimus è un substrato del CYP3A4, e anche un substrato e un moderato inibitore della PgP. Pertanto l’assorbimento e la successiva eliminazione di everolimus possono essere influenzati da sostanze che interferiscono con il CYP3A4 e/o la PgP (vedere le interazioni farmacologiche riportate nella scheda tecnica). Anche alcuni cibi, come il succo di pompelmo, possono aumentare le concentrazioni di everolimus, in quanto inibitori del CYP3A4 e della PgP.
Effetti collaterali
In base ai dati derivati dagli studi RADIANT 2 e RADIANT 3, il profilo di tollerabilità di everolimus appare alquanto accettabile. Gli eventi avversi di grado 3-4, in accordo con la classificazione National Cancer Institute’s Common Terminology Criteria for Adverse Events (NCI-CTC AE)- versione 4.0, sono poco frequenti (≤ 7%). Gli effetti collaterali più comuni sono rappresentati da: stomatite, astenia, diarrea, rash cutaneo, prurito, anoressia, nausea, vomito, perdita di peso, alterazione di alcuni parametri di laboratorio (iperglicemia, ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia, anemia, piastrinopenia). Un evento avverso potenzialmente serio è la polmonite asettica (12% dei pazienti nel RADIANT-2 e 17% dei pazienti del RADIANT-3, ma raramente di grado severo), caratterizzata dal quadro clinico-radiologico della polmonite interstiziale, associata o meno a segni e sintomi quali versamento pleurico, ipossia, tosse, dispnea e malessere.
Limitazioni prescrittive
La prescrizione è limitata a pazienti adulti. Everolimus non è raccomandato in corso di gravidanza o in donne in età fertile che non usano contraccettivi. Le donne in trattamento con Everolimus non devono allattare al seno.
Ai fini delle prescrizioni a carico del Servizio sanitario nazionale (classe H), i centri utilizzatori dovranno compilare la scheda raccolta dati informatizzata di arruolamento che indica i pazienti eleggibili e la scheda di follow-up e applicare le condizioni negoziali secondo le indicazioni pubblicate sul sito. La risposta deve essere rivalutata a 6 mesi: in assenza di risposta, il farmaco non è più prescrivibile a carico SSN.
Inibitori dell'angiogenesi nella terapia dei NET
Giuseppe Badalamenti
Oncologia medica, Policlinico Universitario P. Giaccone, Palermo
(aggiornato al 18 marzo 2017)
Introduzione
Nell’ambito delle terapie target, i farmaci registrati nelle NEN sono everolimus (EVE, inibitore di mTOR) e sunitinib (SUN, inibitore tirosin-kinasico TKI). Entrambi sono attualmente indicati e registrati nel trattamento delle NEN del pancreas (pNEN) metastatiche o localmente avanzate, avendo determinato un vantaggio statisticamente significativo in termini di Progression Free Survival (PFS, endpoint primario) rispetto al placebo (1,2). SUN, già registrato in altre neoplasie, quali il carcinoma del rene metastatico e i GIST (Gastro-Intestinal-Stromal-Tumors), a differenza di everolimus, è un potente anti-angiogenico.
La neo-angiogenesi tumorale è il processo biologico di formazione e sviluppo di nuovi vasi ematici intra-tumorali ed è essenziale per lo sviluppo e la sopravvivenza del tumore e per il processo di metastatizzazione a distanza. Il processo è mediato da una serie di fattori di crescita, che vengono massivamente prodotti e secreti dalle cellule neoplastiche, dalle cellule infiammatorie reclutate e dalle cellule stromali. I fattori di crescita, una volta rilasciati, attivano la formazione di nuovi vasi ematici, reclutando dai vasi adiacenti i periciti, precursori delle cellule endoteliali, o favorendo la gemmazione dei vasi sanguigni pre-esistenti da bottoni endoteliali (3).
I fattori di crescita maggiormente coinvolti nella neo-angiogenesi sono il bFGF e soprattutto il VEGF, che ha assunto anche una rilevante importanza clinica nella terapia di diverse neoplasie. Il VEGF agisce legandosi al proprio recettore VEGF-R2, non solo localmente sulle cellule endoteliali adiacenti, ma anche a livello del midollo osseo, mobilizzando i precursori degli endoteliociti e favorendo successivamente la proliferazione cellulare e il differenziamento degli stessi. Le metalloproteasi, le angiopoietine, il PDGF (rilasciato dagli stessi endoteliociti attivati per la neo-angiogenesi) e il TGF-β stabilizzano infine i nuovi vasi. La neo-angiogenesi tumorale viene stimolata dal cosiddetto switch angiogenetico, che si verifica quando l’ipossia intra-tumorale, indotta dallo squilibrio tra le dimensioni del tumore e la capacità di nutrizione dello stesso, stimola la produzione di HIF-1, un fattore di trascrizione indotto dall’ipossia, il quale deregola la produzione di VEGF, permettendo alla cellula tumorale di acquisire il cosiddetto “fenotipo neo-angiogenetico” (4).
Sunitinib
SUN inibisce molteplici recettori delle tirosin-chinasi (RTK), che sono coinvolte nella crescita tumorale, nella neo-angiogenesi e nella metastatizzazione. SUN è un inibitore dei recettori del fattore di crescita di derivazione piastrinica (PDGFRα e PDGFRβ), dei recettori del fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGFR1, VEGFR2 e VEGFR3), del recettore del fattore della cellula staminale (KIT), del recettore tirosin-chinasico FLT3 (Fms-like tyrosine kinase 3), del recettore CSF-1R (colony stimulating factor receptor CSF-1R) e del recettore del fattore neutrofico di derivazione gliale (RET).
I risultati dello studio di fase III randomizzato hanno portato all’approvazione della terapia con SUN nei pNET non operabili, localmente avanzati o metastatici. Nello studio registrativo a due bracci, controllato in doppio cieco, i pazienti con pNEN avanzata, ben differenziata, in progressione radiologica nei 12 mesi precedenti secondo criteri RECIST, sono stati randomizzati (1:1) a ricevere 37.5 mg di sunitinib una volta al giorno senza un periodo programmato di sospensione (n = 86) o placebo (n = 85). L’obiettivo primario dello studio era la valutazione della PFS, endpoint secondari erano la OS (Overall Survival), la ORR (Overall Response Rate) e la sicurezza.
I 2 gruppi di pazienti erano ben bilanciati. Inoltre, il 49% dei pazienti trattati con SUN e il 52% dei pazienti in placebo avevano tumori non funzionanti e in entrambi i bracci il 92% aveva metastasi epatiche. Nello studio era consentito l’utilizzo di analoghi della somatostatina.
Lo studio è stato interrotto in anticipo, nel 2009, poiché un’analisi non pre-pianificata dell’independent data and safety monitoring board ha trovato una differenza statisticamente significativa in termini di PFS. Ai pazienti del braccio placebo in progressione di malattia veniva permesso di ricevere SUN in uno studio open-label separato, come estensione del protocollo.
Il PFS è risultato di 11.4 mesi nel braccio SUN vs 5.5 mesi nel braccio placebo (HR 0.42, IC95% 0.26–0.66, P < 0.001). In altre parole SUN ha prodotto un prolungamento della PFS nel 68% dei pazienti. Il tasso di RR per SUN è stato di 9.3% (IC95% 3.2–15.4).
I più comuni eventi avversi di grado 3-4 sono stati neutropenia (12%), ipertensione (10%), eritrodisestesia palmo-plantare (6%), diarrea (5%), astenia (5%), dolore addominale (5%), stomatite (4%) e trombocitopenia (4%).
In considerazione della chiusura anticipata dello studio, l’FDA ha commissionato uno studio di fase IV post-marketing, onde acquisire maggiori dati di efficacia e tolleranza, in particolare in prima linea e per meglio studiare le metodiche di valutazione della risposta tumorale. Lo studio, che prevedeva l’assunzione di SUN al dosaggio di 37.5 mg/die per os, è stato completato con 85 pazienti.
Everolimus e Sunitinib: aspetti degli studi registrativi
Entrambi gli studi erano randomizzati 1:1 verso placebo. Il numero totale di pazienti nel braccio di trattamento è stato 410 nello studio con EVE e 171 nello studio con SUN. Il 50% dei pazienti dello studio EVE e il 36% dello studio SUN avevano ricevuto SSA prima dell’inizio dello studio, e 40% e 28% rispettivamente hanno ricevuto SSA durante lo studio. I criteri di inclusione erano pressochè sovrapponibili, con qualche piccola differenza: progressione radiologica entro l’ultimo anno nello studio con EVE e progressione radiologica RECIST nello studio con SUN; tumori ben/moderatamente differenziati nello studio con EVE e ben differenziati nello studio con SUN. I risultati in termini di PFS tra i due studi sono sovrapponibili. In termini di sopravvivenza, nello studio EVE, in relazione al disegno dello studio che prevedeva il cross-over dal braccio placebo al braccio trattamento in caso di progressione, l’endpoint sopravvivenza è risultato non significativo. Per quanto riguarda SUN, i dati riportati nello studio registrativo riguardo al beneficio sulla sopravvivenza nei pazienti trattati rispetto a quelli che ricevevano placebo non sono stati confermati dalla successiva analisi ottenuta con il prolungamento del follow-up.
Considerazioni
L’avvento delle terapie target nel trattamento delle pNEN ha sicuramente contribuito a migliorare notevolmente l’aspettativa di vita dei nostri pazienti. Tuttavia, ancora tanto dobbiamo fare nella valutazione corretta dell’attività e dell’efficacia di questi farmaci, nonché nello studio delle sequenze di trattamento. L’attività di SUN nei pNET, valutata in termini di risposte obiettive, è < 10%. Generalmente in oncologia un farmaco si definisce attivo quando determina risposte obiettive in almeno il 25-30% dei casi. Questo significa che SUN non è un farmaco attivo in termini di risposte dimensionali di tipo RECIST, per cui non avrebbe senso il suo utilizzo in un setting neoadiuvante o pre-operatorio, dove l'obiettivo è la riduzione del diametro tumorale. Tuttavia, le cose non stanno così, perché è ormai noto che i classici criteri dimensionali RECIST non valutano correttamente la risposta e quindi l’attività dei farmaci targeted e questo è soprattutto vero nel caso di famaci anti-angiogenici. Infatti, se volessimo usare nella valutazione della risposta criteri più moderni di tipo funzionale (vedi i criteri CHOI nei GIST), la percentuale di risposte positive al trattamento aumenterebbe almeno del 10-20%, rendendo pertanto il farmaco attivo. Per tale motivo, nella valutazione della risposta al trattamento è utile affiancare alla classica TC con mezzo di contrasto e ai comuni criteri RECIST, l’utilizzo di imaging più funzionali, quale la TC in perfusione, la RM in diffusione e la CEUS (ecografia con mezzo di contrasto) (5). Queste indagini valutano precocemente una risposta positiva al trattamento in termini di riduzione della vascolarizzazione e predicono spesso una risposta radiologica di tipo RECIST. Questo è molto importante poiché la valutazione precoce della risposta potrebbe consentire di ridurre gli effetti collaterali e i costi di un trattamento non efficace.
Sicuramente una questione ancora aperta è la valutazione dell’efficacia del trattamento, in termini di OS o del suo surrogato PFS. Sia SUN che EVE hanno fallito nel dimostrare un aumento della sopravvivenza nei pazienti affetti da pNEN. Il disegno degli studi può esser il maggior responsabile di questo dato, ma personalmente ritengo che la OS non sia un parametro migliore della PFS per valutare l’efficacia in neoplasie di questo tipo, poco aggressive e suscettibili di diversi trattamenti in sequenza.
Dopodichè rimane il problema ancora più aperto delle sequenze terapeutiche nelle pNEN localmente avanzate o metastatiche, per le quali esistono diverse opzioni terapeutiche. In questo momento non sappiamo, per esempio, cosa utilizzare tra EVE e SUN e soprattutto quando utilizzare l’uno o l’altro. L'esperienza conferma che SUN può essere efficace in pazienti in progressione ad EVE, ma non è noto se valga il contrario. L’identificazione di biomarcatori predittivi di risposta all’uno o all’atro farmaco potrebbe rappresentare la chiave di volta (6). Nei due studi registrativi solo una parte dei pazienti è stata trattata in associazione con SSA e potenzialmente l’associazione dell’analogo, che agisce anche sulla neo-angiogenesi, con un farmaco anti-angiogenico come SUN potrebbe essere molto vantaggiosa rispetto al SUN in monoterapia.
Consideriamo infine che le pNEN, anche ben differenziate, rispondono molto bene a un trattamento chemioterapico, che sicuramente determina un maggior numero di riposte obiettive rispetto alle terapie target. Questo dato è da considerare attentamente nel caso in cui si programmi un trattamento neoadiuvante o nel caso di malattia fortemente sintomatica.
SUN al dosaggio di 37.5 mg/die continuativamente è generalmente ben tollerato. È molto importante conoscere bene e saper gestire gli effetti collaterali, motivando molto il paziente nell'assumere correttamente il farmaco. In Italia il farmaco è rimborsato solo da poco tempo, per cui l’esperienza nella real life in questo tipo di pazienti è ancora limitata. L’eritrodisestesia palmo-plantare, la diarrea e l’astenia sono effetti collaterali meno importanti per l’oncologo, ma sicuramente pesanti per il paziente, considerato anche la somministrazione continuativa del farmaco. L’eritrodisestesia palmo-plantare può essere in parte prevenuta con manicure e pedicure accurata in profilassi e con l’utilizzo di pomate specifiche. La diarrea può essere trattata con i farmaci convenzionali. La mielotossicità e l’ipertensione sono sicuramente gli effetti collaterali da trattare con più attenzione. È opportuno monitorare l’emocromo almeno ogni 15 giorni per i primi 2 mesi di trattamento e quindi prima di ogni ciclo. La neutropenia in genere si manifesta nel primo periodo di trattamento e diventa meno frequente nel tempo. Prima dell’inizio del trattamento deve essere effettuata una valutazione cardiologica con ECG ed ecocardiogramma, da ripetere in relazione alla clinica. È anche utile invitare il paziente a monitorare quotidianamente i valori pressori (7).
Nel caso in cui gli effetti collaterali non siano gestibili, è indicata la modificazione della posologia. In assenza di suggerimenti condivisi, la riduzione del dosaggio giornaliero o l’introduzione di giorni di pausa sono a discrezione del medico.
Prospettive future
Bevacizumab, un anticorpo anti-VEGF già registrato nel trattamento di diverse neoplasie, è stato utilizzato con risultati interessanti, da solo o in associazione. Uno studio di fase II ha arruolato pazienti con NEN ben differenziate trattate con SSA a ricevere bevacizumab o interferon peghilato α2b: bevacizumab ha mostrato superiorità di ORR e PFS (8,9).
Bevacizumab in associazione con temozolomide in pazienti con pNEN metastatico ha dimostrato un maggior numero di risposte obiettive, con miglioramento di PFS e OS (10).
In un recente studio di fase II in pNEN avanzate, everolimus e bevacizumab hanno mostrato un tasso di risposte obiettive pari al 26% e buona tollerabilità (11).
Pazopanib è un inibitore tirosin-chinasico orale (recettore VEGF 1, 2, 3). Due studi di fase II hanno mostrato una certa attività del farmaco non solo nei pNET, ma anche nei NET gastrointestinali (12,13).
Diversi altri agenti anti-angiogenici sono tuttora oggetto di studio, quali Famitinib (inibitore di c-kit, PDGFR, VEGFR2, VEGFR3, Flt1 e Flt3) (14), Regorafenib (inibitore di c-Raf, BRAF, VEGFR-1,2,3; PDGFRα, FGFR-1 c-kit, RET, Flt-3) (15) e Nintedanib (inibitore di VEGFR, FGFR, PDGFR) (16).
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Scheda sunitinib
Giuseppe Badalamenti
Oncologia medica, Policlinico Universitario P. Giaccone, Palermo
Meccanismo d’azione
Sunitinib inibisce molteplici recettori delle tirosin-chinasi (RTK), coinvolte nella crescita tumorale, nella neo-angiogenesi e nella metastatizzazione: PDGFRα e PDGFRβ, VEGFR1, VEGFR2 e VEGFR3, KIT, FLT3, CSF-1R, RET.
Indicazioni
Trattamento delle NEN del pancreas (pNEN) metastatiche o localmente avanzate
Tumore stromale del tratto gastrointestinale (GIST)
Carcinoma renale metastatico
Contro-indicazioni
Ipersensibilità al principio attivo
Preparazioni, via di somministrazione, posologia
Cp 12.5 mg (sunitinib Accord, sunitinib Dr.Reddy's, sunitinib EG, sunitinib Mylan, sunitinib TEVA, sunitinib Zentiva, Sutent), 25 mg (sunitinib Accord, sunitinib Dr.Reddy's, sunitinib EG, sunitinib Mylan, sunitinib Sandoz, sunitinib TEVA, sunitinib Zentiva, Sutent), 37.5 mg (sunitinib Accord), 50 mg (sunitinib Accord, sunitinib Dr.Reddy's, sunitinib EG, sunitinib Mylan, sunitinib Sandoz, sunitinib TEVA, sunitinib Zentiva, Sutent)
Per k renale e GIST 50 mg/die, per pNEN 37.5 mg/die
Effetti collaterali
Mielotossicità
Ipertensione
Eritrodisestesia palmo-plantare, diarrea, astenia
Distiroidismo
Precauzioni d'uso
Monitorare l’emocromo almeno ogni 15 giorni per i primi 2 mesi di trattamento e quindi prima di ogni ciclo.
Prima dell’inizio del trattamento, valutazione cardiologica con ECG ed ecocardiogramma, da ripetere in relazione alla clinica.
Monitorare quotidianamente i valori pressori.
Nel caso in cui gli effetti collaterali non siano gestibili, modificare la posologia a discrezione del medico.
Attenzione alla cosomministrazione di ketoconazolo e rifampicina
Limitazioni prescrittive
Ricetta non ripetibile limitativa, distribuzione ospedaliera
Chemioterapia per i NET
Francesca Spada
Unità di Tumori Gastrointestinali e Neuroendocrini, Istituto Europeo di Oncologia, Milano
La chemioterapia rappresenta la terapia di elezione nei carcinomi neuroendocrini (NEC), ma trova un ruolo anche nelle forme con caratteristiche biologiche/radiologiche meno aggressive, come nei tumori neuroendocrini (NET) propriamente detti.
Per quanto riguarda i NEC, non esiste un regime “standard”, ma la combinazione di cisplatino/carboplatino associato a etoposide/irinotecan è quella più spesso proposta, sulla base dell’esperienza esistente nei microcitomi polmonari, di cui i NEC sembrano ricalcare aggressività e chemiosensibilità. La percentuale di risposte obiettive può arrivare al 50-70%, ma la prognosi globale resta comunque infausta per la breve durata di risposta.1,2 Una recente metanalisi basata su dati individuali di 663 pazienti con small-cell lung cancer (SCLC) inclusi in 4 studi randomizzati3 non ha mostrato differenze fra regimi contenenti cisplatino e quelli contenenti carboplatino in termini di sopravvivenza globale (OS), sopravvivenza libera da progressione (PFS) e risposte obiettive (RR). In uno studio di fase III su 331 pazienti con SCLC, inoltre, non si sono osservate differenze statisticamente significative in termini di RR, tempo alla progressione (TTP) e OS tra pazienti trattati con cisplatino/etoposide e quelli trattati con cisplatino/irinotecan4. Le differenze, in entrambi gli studi, riguardavano esclusivamente la tossicità, che può, quindi, rappresentare un criterio di scelta del regime chemioterapico da adottarsi al paziente. Infatti il cisplatino e l’irinotecan comportano generalmente una tossicità sistemica, prevalentemente renale e neurologica per il cisplatino, gastrointestinale per l’irinotecan; il carboplatino e l’etoposide una tossicità prevalentemente midollare. Pertanto, sulla base di queste considerazioni, nonostante lo scarso numero di studi con carboplatino ed irinotecan nei pazienti con NEC, gli esperti suggeriscono l’utilizzo di schemi alternativi in cui il cisplatino si possa sostituire col carboplatino e l’etoposide con l’irinotecan nei NEC. L’utilizzo di schemi più intensivi, per esempio con l’aggiunta dei taxani, non ha mostrato una chiara superiorità, a discapito, però, di una maggiore tossicità, prevalentemente ematologica5,6 e perciò non sono raccomandati.
Per i pazienti con tumore progrediente ad una prima linea, non esiste una seconda linea universalmente accettata. Un’analisi retrospettiva recentemente pubblicata7 ha mostrato interessanti risultati con l’uso di temozolomide (TMZ), un farmaco della classe degli alchilanti, in monoterapia o in associazione alla capecitabina (CAP), un anti-metabolita. Le risposte obiettive sono state circa il 30% e la mediana di OS di circa 22 mesi.
Ad oggi rimangono ancora dei quesiti aperti. Uno di questi è rappresentato dall’omogeneità della categoria dei NEC in termini di aggressività biologica e chemio-sensibilità. Tale problematica è stata oggetto di studio da parte di un gruppo di ricercatori scandinavi.8 Dall’analisi retrospettiva di 305 casi di NEC trattati con regimi contenenti platino ed etoposide, gli autori concludono che i pazienti il cui tumore aveva un indice di proliferazione (Ki 67) 55%. Tali osservazioni, pur nel rispetto delle classificazioni vigenti, potrebbero essere uno spunto di ricerca per definire, nell’ambito dei NEC, una categoria differente di tumori, meno aggressiva, e che, pertanto, potrebbe essere suscettibile di un trattamento differente da quello usualmente proposto.
Per quanto riguarda il ruolo degli analoghi della somatostatina, sebbene il loro effetto anti-proliferativo sia stato dimostrato in studi preclinici,9 ad oggi, non sono disponibili studi che indichino un vantaggio dall’aggiunta di octreotide/lanreotide alla chemioterapia nei NEC e quindi non possono essere raccomandati per tale scopo.
Nei NET la chemioterapia trova un ruolo come parte di una strategia terapeutica, perché può contribuire al controllo della crescita tumorale ed al controllo dei sintomi per riduzione dell’estensione della malattia.
Le terapie basate su un singolo agente chemioterapico hanno dimostrato tassi di risposta obiettiva generalmente non > 20% e pertanto si tende a riservare una mono-chemioterapia ai pazienti pretrattati o quando le condizioni cliniche del paziente non permettano terapie di combinazione con più agenti.
I regimi di poli-chemioterapia hanno mostrato maggiore attività, come emerge da numerose analisi retrospettive e studi di fase II. I farmaci che hanno mostrato maggiore attività appartengono alla classe degli alchilanti (streptozotocina, dacarbazina e TMZ), degli anti-metaboliti (5-fluorouracile e CAP), e più recentemente anche oxaliplatino.
La streptozotocina (STZ) è uno dei farmaci più comunemente proposti nei pazienti con NET del pancreas (pNET), ma non è commercializzata in Italia. E’ stata molto criticata, perché potenzialmente tossica, soprattutto a livello renale e perché alcuni studi hanno riportato percentuali di risposte obiettive molto elevate, ottenute basandosi su metodi di valutazione della risposta spesso criticabili. Il dato di attività più omogeneo sembra emergere da un’analisi retrospettiva, condotta all’MD Anderson Cancer Center di Houston,10 in cui vengono descritte il 39% di risposte parziali, in 84 pazienti con pNET trattati con una combinazione di 5-fluorouracile (5-FU), adriamicina e STZ. Il 20% dei pazienti ha avuto una tossicità di grado moderato-severo, soprattutto in termini di neutropenia e astenia.
La dacarbazina (DTIC) è stata già usata negli anni novanta anche nel nostro Paese in associazione al 5-FU e all’epirubicina con un regime, chiamato "triplice", in una popolazione mista e ottenendo il 30% di risposte obiettive.11 La stessa associazione è stata riproposta recentemente in una popolazione mista di pazienti prevalentemente pretrattati, con tumore di basso grado e con un indice di proliferazione intermedio. Il risultato è stato un buon controllo della malattia, con la dimostrazione che la chemioterapia può essere attiva anche nei NET non pancreatici digestivi ed extra-digestivi.12
Recentemente, sono state saggiate nuove combinazioni in studi clinici di fase II. La TMZ è il più maneggevole tra gli alchilanti usati nei NET, se non altro perché è l’unico di uso orale. Ci sono alcune evidenze, retrospettive e prospettiche, di attività, ma, per il basso numero di pazienti coinvolti in tali studi e per la varietà dei regimi utilizzati, è difficile individuare una combinazione e una schedula più vantaggiosa di un’altra. Risultati interessanti sono emersi dall’analisi retrospettiva pubblicata nel 2011 di associazione con la CAP nei pNET naïve per qualsiasi tipo di chemioterapia. L’alto tasso di risposte, pari al 70%, e la contenuta tossicità hanno giustificato uno studio prospettico di fase II, in corso negli USA, per validare tale combinazione.
La metilguanina-metiltransferasi (MGMT) è un enzima che agisce metilando l’ossigeno in posizione 8 della guanina e che permette la riparazione dei danni indotti sul DNA, rendendo l’espressione dell’enzima inversamente proporzionale alla risposta alla TMZ stessa. Da un’analisi retrospettiva su 97 pazienti con NET (pancreatici e carcinoidi intestinali e polmonari) trattati con TMZ è emerso che la mancata espressione di MGMT è più frequente nei pNET piuttosto che nei carcinoidi, così come il tasso di risposta parziale (definito dai criteri di valutazione della risposta nei tumori solidi13) al trattamento con TMZ (34% nei pNET; 2% nei carcinoidi).14 Queste osservazioni suggeriscono che lo stato di MGMT potrebbe rappresentare un potenziale fattore predittivo di risposta agli agenti alchilanti nei NET e pertanto sono quanto mai necessari degli studi di standardizzazione delle tecniche di valutazione dello stato di MGMT nel tessuto tumorale.
Per quanto riguarda i derivati del platino, nel 2006 uno studio clinico condotto dal gruppo ITMO (Italian Trials in Medical Oncology) ha valutato la combinazione di CAP ed oxaliplatino su un gruppo di NEN eterogeneo per tumore primitivo, comprendente sia forme ben differenziate, in progressione alla bioterapia, sia scarsamente differenziate. Questo studio indica che l’oxaliplatino può impattare positivamente in termini di attività, sia nei NET digestivi che extra-digestivi e soprattutto di basso grado. Ma anche in questo caso bisognerebbe trovare il “setting” più adeguato in cui applicare tale regime, magari individuando un potenziale fattore predittivo.15
Infine è di attuale interesse lo studio delle varie modalità di somministrazione della chemioterapia. I NET sono tumori altamente vascolarizzati e l’angiogenesi svolge un ruolo chiave nella crescita di queste neoplasie. Per questo motivo, si possono prestare bene alla chemioterapia metronomica, definita come somministrazione continua a basse dosi di un chemioterapico, che, all’azione anti-angiogenetica associa la riduzione della tossicità sistemica. In Italia il gruppo con maggiore esperienza è quello di Orbassano, che ha usato il 5-FU con l’octreotide LAR16, ottenendo un TTP di 23 mesi nei pazienti con GEP NET. Lo stesso gruppo ha anche dimostrato che l’espressione della timidilato-sintetasi, un enzima coinvolto nel metabolismo del 5-FU, riduce il TTP e la OS nei pazienti con GEP-NET trattati con 5-FU.17 E' in fase di sottomissione un altro lavoro (multicentrico italiano di fase II) con la CAP metronomica in associazione ad octreotide LAR e bevacizumab in pazienti con NET.
In conclusione, molti farmaci hanno mostrato dati di attività, ma rimangono aperti ancora molti quesiti: quali farmaci usare, quali schedule, quale “timing” e, soprattutto, quali fattori predittivi possono guidarci nella scelta dei chemioterapici. Nonostante la complessità e l’eterogeneità di queste neoplasie, la sfida maggiore nel prossimo futuro sarà proprio quella di disegnare studi clinici che possano dare una risposta a tali domande, ma tutto questo potrà essere realizzato solo nell’ambito di un programma multidisciplinare che contribuisca a definire, fin dalla prima valutazione del paziente, una strategia terapeutica piuttosto che una singola terapia.
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Terapia chirurgica per i NET pancreatici
Stefano Partelli & Massimo Falconi
Clinica Chirurgia del Pancreas, Università Politecnica delle Marche, Ancona
INTRODUZIONE
Le neoplasie pancreatiche neuroendocrine (PNEN) sono malattie rare, clinicamente classificate come funzionanti (F-PNEN) o non funzionanti (NF-PNEN) sulla base della presenza o meno di una sindrome correlata a una inappropriata secrezione ormonale (1). La Società Europea per i Tumori Neuroendocrini (ENETS) ha proposto un sistema di stadiazione basato su dimensione del tumore, coinvolgimento linfonodale e presenza di metastasi (TNM), oltre a un sistema di classificazione dell’aggressività biologica basato sulla valutazione dell’attività proliferativa delle cellule neoplastiche (2). La classificazione delle PNEN proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) ha come primo obiettivo quello di assegnare una categoria diagnostica con significato clinico (3). Il trattamento chirurgico di queste neoplasie può essere molto variabile a causa di presentazione eterogenea e differente comportamento biologico.
VALUTAZIONE PRE-OPERATORIA
Diagnostica strumentale pre-operatoria
La localizzazione del tumore primitivo e la valutazione della sua estensione sono fondamentali in ogni fase del trattamento dei pazienti con PNEN. Sono state utilizzate molte tecniche diagnostiche, tra cui la tomografia computerizzata, la risonanza magnetica nucleare, l’ecografia, l’angiografia, la scintigrafia con recettori per la somatostatina, l’ecoendoscopia ed esami di localizzazione funzionale che misurano il gradiente ormonale, fino al recente uso della tomografia a emissione di positroni (4) (figura 1).
Durante l’atto chirurgico si raccomanda l’utilizzo routinario dell’ecografia intra-operatoria, soprattutto nei casi di insulinoma per i quali è indicata un’enucleazione. Nel caso di piccoli tumori duodenali (specialmente gastrinomi duodenali) si raccomanda l’utilizzo di routine dell’endoscopia con transilluminazione (5).
Stadiazione tumorale
La classificazione attuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dei tumori neuroendocrini classifica le PNEN sulla base del grado di differenziazione (3). Nel 2006 un gruppo di lavoro dell’ENETS ha pubblicato una proposta di stadiazione TNM per la classificazione delle PNEN (6). In questa classificazione sono considerati pT1 i tumori 4 cm. Nel 2009 l’AJCC/UICC ha proposto una propria classificazione TNM per le PNEN (2). Le due classificazioni proposte dall’AJCC/UICC e dall’ENETS si differenziano nella definizione dello stadio T. In particolare, il sistema della AJCC/UICC distingue le neoplasie pT2 da quelle pT3 sulla base del coinvolgimento del tessuto peri-pancreatico, mentre la classificazione degli ENETS basa questa distinzione sulla dimensione tumorale, stabilendo un cut-off di 4 cm. Entrambe le classificazioni sono uno strumento diagnostico accurato per la stadiazione delle PNEN (7,8).
TRATTAMENTO CHIRURGICO DELLE PNEN SPORADICHE
pNEN localizzate
Il miglioramento e lo sviluppo delle tecniche diagnostiche hanno portato a un significativo incremento nell’identificazione di piccoli NET non funzionanti (1). Un recente studio di Bettini et al (9) ha dimostrato che la prevalenza delle forme maligne nei pazienti con PNEN < 2 cm riscontrata accidentalmente è del 6% (9). Le attuali linee guida dell’ENETS raccomandano una strategia di “wait and see” per questi piccoli tumori accidentali e comunque il rischio di un eventuale intervento deve essere sempre valutato anche in relazione alle comorbilità del paziente e alla sua aspettativa di vita (10). Sebbene non sia stato indicato un protocollo specifico di follow-up, sembra ragionevole eseguire un controllo strumentale annuale con un primo controllo a sei mesi dalla diagnosi.
Al contrario, la chirurgia rappresenta il trattamento di scelta per PNEN > 2 cm e/o per le forme sintomatiche.
La chirurgia radicale per le PNEN prevede sia resezioni tipiche sia resezioni atipiche. Le prime variano secondo il sito di neoplasia: le lesioni della testa del pancreas sono trattate attraverso un intervento di duodeno-cefalo-pancreasectomia (DCP), mentre le lesioni del corpo e della coda sono trattate mediante pancreasectomia distale (PD). Generalmente, se eseguite in centri ad alto volume, il tasso di mortalità si riduce a < 5%, anche se rimane elevata la percentuale di complicanze, che varia dal 40% al 50% (11,12).
Le resezioni pancreatiche tipiche sono associate a un’elevata incidenza d’insufficienza pancreatica: endocrina dal 10% al 24% dopo DCP e dall’8% al 60% dopo PD; esocrina si presenta nel 30-60% dei pazienti dopo DCP e nello 0-40% dei casi dopo PD (13).
Il rischio d’insufficienza pancreatica a lungo termine ha incrementato lo sviluppo di tecniche chirurgiche volte al risparmio di parenchima pancreatico, come le resezioni atipiche quali l’enucleazione e la pancreasectomia intermedia, che consiste nella resezione della parte centrale della ghiandola. Generalmente, queste tecniche sono indicate solo per i piccoli tumori (< 2 cm) associati a sindrome funzionale (14). Le forme non funzionanti dovrebbero essere trattate in maniera conservativa come prima descritto. Il vantaggio principale delle resezioni atipiche è un minor rischio di sviluppo d’insufficienza pancreatica endocrina/esocrina rispetto alle resezioni standard (15,16). D’altra parte, le resezioni limitate sono associate con una più alta percentuale di fistola pancreatica, sebbene si tratti solitamente di fistole con un basso impatto clinico (15).
Non è ancora ben definito il ruolo della linfoadenectomia per i pazienti con PNEN (17). Le metastasi linfonodali si presentano solo nel 30% dei pazienti (17), ma si discute ancora sull’associazione tra presenza di metastasi linfonodali e peggiore sopravvivenza (18). Di conseguenza, è ancora difficile definire il reale vantaggio della linfoadenectomia per queste neoplasie.
La colecistectomia non dovrebbe essere eseguita di routine; infatti, nonostante il trattamento con gli analoghi della somatostatina sia associato con una percentuale elevata di litiasi colecistica, sono rari gli episodi di colecistite.
L’embolizzazione epatica, eseguita in casi molto selezionati, potrebbe molto raramente determinare lo sviluppo di colecistite da reflusso di microsfere.
pNEN localmente avanzata
Un gran numero di pazienti con PNEN presenta alla diagnosi una malattia localmente avanzata. L’asportazione chirurgica radicale della massa tumorale, quando fattibile, si associa a prognosi migliore (19). I criteri di resezione chirurgica per PNEN non escludono la presenza di malattia infiltrante gli organi vicini (stomaco, milza, colon, rene, surrene) o le strutture vascolari. Il trattamento di scelta è sempre una resezione tipica associata a linfoadenectomia, estesa, se necessario, agli organi limitrofi. In caso di tumori neuroendocrini non funzionanti le controindicazioni alla resezione chirurgica sono: l’invasione circonferenziale della vena porta e l’invasione circonferenziale dell’arteria mesenterica superiore. La presenza d’infiltrazione del tronco celiaco non rappresenta una controindicazione assoluta alla pancreasectomia distale (10).
pNEN metastatica
Alla diagnosi, dal 25% al 93% dei pazienti con PNEN hanno metastasi epatiche sincrone al tumore neuroendocrino (20) (figura 2).
In presenza di tumori ben differenziati con metastasi limitate ad un lobo epatico il trattamento di scelta è la resezione radicale del tumore primitivo, associata a una resezione completa delle metastasi epatiche, eventualmente eseguita in più fasi (21,22). L’asportazione radicale del tumore primitivo (resezione R0/R1) e delle lesioni epatiche è efficace nell’alleviare i sintomi in caso di neoplasia funzionante e rappresenta l’unica strategia terapeutica a scopo curativo. Tuttavia, una resezione epatica radicale è possibile in meno del 20% dei pazienti, a causa dell’elevata incidenza di metastasi multifocali e bilobari (23).
Prima di proporre l’intervento chirurgico per le lesioni metastatiche, è fondamentale che siano soddisfatte le seguenti condizioni (24):
- assenza di malattia extra-addominale
- presenza di basso indice proliferativo (Ki-67) valutato sulle cellule prelevate mediante ago-aspirato eseguito pre-operatoriamente
- esistenza di positività per i recettori della somatostatina al fine di somministrare terapie radiorecettoriali, efficaci soprattutto dopo chirurgia citoriduttiva.
Nei pazienti con metastasi bilobari o più del 75% del fegato coinvolto, difficilmente può essere eseguita una chirurgia radicale. In quest’ottica la resezione chirurgica può essere coadiuvata da tecniche di embolizzazione e ablazione (25). Un’opzione alternativa per le metastasi epatiche multifocali consiste nell’approccio integrato di epatectomia parziale e ablazione con radiofrequenza (26).
Il tipo di resezione epatica dipende dal numero delle metastasi, dalla loro localizzazione e dal parenchima epatico residuo. Laddove indicata, la chirurgia può essere una semplice enucleazione, una resezione segmentaria, o un’epatectomia.
Il tasso di sopravvivenza a tre e cinque anni nei pazienti sottoposti a chirurgia epatica radicale per metastasi da tumore neuroendocrino varia dal 79 al 95% (27).
Per quanto riguarda la resezione del tumore primitivo, la chirurgia citoriduttiva è di aiuto per alleviare i sintomi legati alla secrezione ormonale nei carcinomi metastatici funzionanti. Non è stato chiaramente dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza dopo resezione del tumore primitivo in caso di NF-PNEN (28). In questi casi la resezione chirurgica è giustificata solo per prevenire complicanze ostruttive, sanguinamenti, pancreatite acuta, ittero e ostruzione gastrica (28). D’altra parte, una recente revisione (29) ha dimostrato una migliore sopravvivenza nei pazienti con PNEN metastatico sottoposti a resezione del tumore primitivo rispetto a quelli nei quali il tumore primitivo non viene asportato.
APPROCCIO “OPEN” O LAPAROSCOPICO?
Le procedure laparoscopiche giocano un ruolo importante nel trattamento delle PNENs. È stato dimostrato che la pancreasectomia distale laparoscopica e l’enucleazione sono tecniche sicure e fattibili nei pazienti affetti da queste neoplasie (30). I vantaggi della chirurgia mini-invasiva sono riduzione del dolore post-operatorio, migliori risultati estetici, più breve ospedalizzazione e più rapido ritorno alle normali attività della vita quotidiana, con un tasso di fistola pancreatica paragonabile a quello osservato dopo chirurgia open (30).
Il numero degli insulinomi trattati per via laparoscopica è in progressivo aumento negli ultimi anni. Nell’85% dei pazienti si tratta di tumori singoli, spesso intra-pancreatici, che, se ben localizzati pre-operatoriamente, possono essere trattati nel 70-100% dei casi con questo tipo di approccio (5). Le procedure laparoscopiche dovrebbero essere integrate all’uso dell’ecografia intra-operatoria, per definire correttamente il sito di resezione pancreatica in corso di pancreasectomia distale (31). Il valore della laparoscopia per le lesioni pancreatiche maligne è legato principalmente alle sue capacità diagnostiche e stadiative (32).
CONCLUSIONI
Il trattamento chirurgico delle PNEN rimane ancora un punto cruciale nel trattamento multimodale di questi tumori. Sebbene in passato la chirurgia fosse obbligatoria per tutte le forme di PNEN, attualmente la tendenza è quella di limitarla ai casi di lesioni sintomatiche o in generale > 2 cm. D’altro canto, le resezioni radicali per le forme aggressive rappresentano l’unica strategia di cura per queste patologie, nonostante i recenti progressi delle terapie mediche. Le procedure chirurgiche dovrebbero comunque essere sempre adattate a ogni singolo paziente, sulla base delle comorbilità, dell’estensione dell’eventuale resezione e delle opzioni terapeutiche alternative.
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Terapia chirurgica per i NET intestinali
Emilio Bertani
Divisione di Chirurgia Generale e Laparoscopica, Istituto Europeo di Oncologia, Milano
Introduzione
La terapia chirurgica dei NET intestinali è influenzata dalla modalità della presentazione della malattia.
Per le neoplasie del piccolo intestino, dell’appendice e del colon-retto diagnosticate in stadio I-III la terapia è sempre chirurgica e consiste nella resezione intestinale con ampia linfoadenectomia (1).
Nei NET appendicolari può essere sufficiente l’appendicectomia, mentre l’emicolectomia destra è suggerita in casi particolari (vedi oltre).
In particolare, i NET a primitività digiuno-ileale sono comunemente diagnosticati in stadio IV, con metastasi sincrone a livello epatico (50-75% dei casi), a causa dell’elevato potenziale metastatico di queste neoplasie, indipendente dalla dimensione del tumore primitivo (2, 3). In presenza di metastasi epatiche sincrone, il trattamento chirurgico è ancora fortemente dibattuto. In molti suggeriscono la resezione del tumore primitivo anche in presenza di metastasi epatiche diffuse, per prevenire o curare le complicanze della malnutrizione e l’occlusione intestinale (4-8). Infatti, secondo alcuni con le moderne terapie i pazienti con NET intestinale metastatico possono vivere tanto a lungo da sviluppare un’ischemia mesenteriale o un’occlusione intestinale dovuta alle voluminose metastasi linfonodali all’interno del mesentere (9). Oltre ai casi in cui la resezione del tumore primitivo è indicata per ottenere la radicalità oncologica (assenza di metastasi) o per lo svilupparsi di sintomi, alcuni (10, 11) la ritengono comunque indicata, perchè migliora la sopravvivenza anche nei pazienti asintomatici in cui non è possibile arrivare alla radicalità chirurgica per la presenza di metastasi diffuse (anche se tale risultato non è riproducibile in tutte le casistiche, 12). La resezione del tumore primitivo, quando possibile, è stata suggerita anche dalle linee guida ENETS (1) e nello studio PROMID (13) in pazienti in terapia con octreotide LAR e da diversi altri Autori (10, 14). Recentemente una casistica importante ha riportato risultati diversi (12), dove la resezione del tumore primitivo in un contesto di metastasi epatiche sincrone non ha determinato un miglioramento della prognosi a lungo termine.
Per quanto riguarda la chirurgia delle metastasi epatiche da NET del piccolo intestino, del colon-retto o dell’appendice ciecale, è consigliata la chirurgia cito-riduttiva con intento radicale, anche se l’indicazione dovrebbe essere discussa in ambito multidisciplinare, dato che talora può essere considerata impegnativa per il chirurgo e per il paziente (15, 16). In casi selezionati il trapianto di fegato rappresenta un’opzione percorribile che consente il miglioramento della sopravvivenza (17).
Le resezioni del piccolo intestino
Se l’obiettivo chirurgico è curativo, è sempre indicata la resezione intestinale. La multicentricità della neoplasia, presente in circa il 20% dei casi, non cambia l’indicazione chirurgica.
La resezione curativa del tumore primitivo e delle metastasi linfonodali loco-regionali migliora l’esito a lungo termine, portando a una sopravvivenza del 100% a 5 anni e > 95% a 10 anni per i pazienti in stadio I e II e > 80% per i pazienti con NET digiuno-ileale in stadio III (1).
L’intervento deve sempre comprendere la resezione di un segmento di piccolo intestino con un’ampia linfo-adenectomia (18-25). In caso di adenopatie macroscopiche alla radice dei vasi mesenterici, è raccomandata una dissezione linfonodale alta, ma ciò non sempre è fattibile, a causa di una severa reazione desmoplastica intorno ai vasi (figure 1-2).
Figura 1: NET primitivo dell’ileo con retrazione mesenteriale
Figura 2: Linfadenopatie mesenteriali da NET ileale
In concomitanza alla resezione intestinale può essere eseguita la colecistectomia, nei pazienti con colelitiasi o nella prevenzione della stessa, dal momento che gli analoghi della somatostatina possono a lungo andare causare una calcolosi della colecisti. Tuttavia, non è mai stato dimostrato il beneficio della colecistectomia associata.
La chirurgia è essenzialmente eseguita per via laparotomica, in quanto non sempre gli standard oncologici possono essere realisticamente rispettati nella resezione del piccolo intestino, soprattutto in presenza di ampia infiltrazione mesenteriale e multicentricità della neoplasia.
La chirurgia dei NET dell’appendice
La chirurgia delle neoplasie neuroendocrine appendicolari prevede due tipi di intervento: la semplice appendicectomia e l’emicolectomia destra.
Spesso la diagnosi viene posta dal patologo dopo un intervento di appendicectomia laparoscopica o laparotomica per un quadro di appendicite acuta. La strategia successiva, cioè se sottoporre o meno il paziente a emicolectomia destra, viene stabilita da alcuni criteri anatomo-patologici, tuttavia non ancora universalmente riconosciuti e tuttora oggetto di dibattito (1, 26-29).
Per le neoplasie T1 (ENETS) o T1a (UICC/AJCC), cioè 3 mm. In questi casi l’opzione di eseguire un’emicolectomia destra deve essere discussa con il paziente, in quanto non è ancora stato dimostrato il reale beneficio di un allargamento chirurgico, a fronte di un aumento delle complicanze.
Per le neoplasie T2 (ENETS) o T1b (UICC/AJCC), cioè con diametro compreso fra 1 e 2 cm, il rischio di metastasi linfonodali o a distanza sembra essere aumentato, se consideriamo la lunga aspettativa di vita di questi pazienti, spesso giovani alla diagnosi. In questi casi l’emicolectomia destra dovrebbe mettere definitivamente al riparo da recidive di malattia, anche se il rischio di complicanze è sicuramente maggiore rispetto alla semplice appendicectomia. Anche in questo caso, un tumore localizzato alla base dell’appendice resecato in maniera incompleta (resezione R1) o in presenza di un’invasione del mesoappendice > 3 mm devono far propendere per l’intervento chirurgico più ampio, anche se non abbiamo a disposizione dati certi sulla disease-free survival a lungo termine.
Per le neoplasie con diametro > 2 cm con uno stadio ≥ T3 (ENETS) o ≥ T2 (UICC/AJCC) è sempre indicato l’intervento di emicolectomia destra, in considerazione dell’elevato rischio di metastasi linfonodali e di recidiva tumorale con metastasi a distanza.
L’intervento di emicolectomia destra può essere eseguito sia per via laparotomica che laparoscopica, presentando quest’ultima tecnica il vantaggio di un approccio mini-invasivo, con una più rapida ripresa funzionale e meno dolore per il paziente.
La chirurgia dei NET colo-rettali
Per quanto riguarda le indicazioni chirurgiche, vale il discorso fatto per i NET del piccolo intestino: qualora sia fattibile, in assenza di metastasi a distanza, è sempre consigliata la chirurgia con intento radicale (30). In presenza di metastasi epatiche, la chirurgia del tumore colo-rettale primitivo trova indicazione in caso di occlusione intestinale, perforazione o sanguinamento.
I NET del colon con estensione locale vengono trattati analogamente agli adenocarcinomi (31). Le lesioni di diametro < 2 cm possono essere asportate endoscopicamente o tramite mucosectomia. In caso di resezione incompleta o neoplasia G3, è indicata la resezione oncologica standard.
I NET rettali vengono efficacemente curati in stadio iniziale attraverso l’ablazione endoscopica o la resezione chirurgica, mentre negli stadi più avanzati non è chiaro il reale vantaggio della chirurgia. Il fattore prognostico più significativo in queste neoplasie è la dimensione del tumore.
- Le lesioni con diametro < 1 cm dovrebbero essere asportate endoscopicamente o per via trans-anale (32, 33). In questi casi il rischio di metastatizzazione è stato stimato sino a circa il 3%.
- Per le neoplasie di diametro compreso fra 1 e 2 cm, il trattamento è più controverso. Appare tuttavia chiaro come in questi casi sia opportuno procedere a un’accurata stadiazione della neoplasia mediante eco-endoscopia e/o RMN. Il rischio di metastasi a distanza in questa situazione è del 10-15%. Pur non essendoci una forte evidenza, il trattamento di escissione locale sembra essere il più appropriato anche in questi casi, poiché un approccio più aggressivo non sembra vantaggioso in termini di prognosi (34).
- In caso di tumore con diametro > 2 cm, il rischio di metastasi è importante (60-80%) (34-36). In questi casi il paziente è avviato ad una chirurgia rettale con total mesorectal excision, che tuttavia non sempre è in grado di controllare la malattia (32, 37).
Gli interventi di resezione colo-rettale più comunemente eseguiti, a cui deve sempre essere associata una linfoadenectomia standard, sono:
- emicolectomia destra;
- emicolectomia sinistra;
- resezione del colon trasverso;
- sigmoidectomia;
- resezione anteriore del retto con eventuale stomia derivativa;
- amputazione del retto per via addomino-perineale (Miles).
Tutti questi interventi possono essere eseguiti con approccio mini-invasivo laparoscopico (figure 3, 4), qualora indicato, a cui si è affiancato negli ultimi anni quello robotico con il sistema Da Vinci®, che ha dimostrato alcuni vantaggi soprattutto nell’ambito della chirurgia rettale (38, 39).
Figura 3: Pezzo asportato dopo emicolectomia destra laparoscopica per NET multipli dell’ultima ansa ileale
Figura 4: Incisioni chirurgiche al termine di intervento di emicolectomia destra laparoscopica con anastomosi intra-corporea
La chirurgia delle metastasi epatiche da NET intestinale
L’indicazione alla chirurgia epatica resettiva per le metastasi da NET dovrebbe avere sempre un intento di radicalità oncologica, con la rimozione di tutta la malattia a livello epatico, mantenendo una quota sufficiente di parenchima funzionante (40). La possibilità di avere un margine libero dovrebbe essere determinata dal chirurgo e dal radiologo in base alle tecniche di imaging (TC e RMN). Il chirurgo deve stabilire qual è la quota di parenchima residuo accettabile, all’incirca un terzo del volume epatico, o l’equivalente di almeno 2 segmenti di fegato sano. Spesso, nel contesto di una malattia epatica pluri-nodulare, alla chirurgia viene associata la termo-ablazione intra-operatoria con radiofrequenze (TARF) per il trattamento di lesioni profonde < 4 cm e chirurgicamente poco accessibili. Quando fattibile, la chirurgia resettiva con intento radicale è il gold standard per le metastasi epatiche da NET, con sopravvivenza a 5 anni del 60-80%, bassa mortalità post-operatoria (0-5%) e accettabile tasso di complicanze chirurgiche (circa il 30%) (41-44).
I prerequisiti per una chirurgica oncologicamente radicale sono:
- malattia epatica G1-G2;
- assenza di insufficienza cardiaca destra (cardiopatia da carcinoide);
- assenza di metastasi linfonodali ed extra-addominali non resecabili;
- assenza di carcinosi peritoneale diffusa;
- tumore primitivo già resecato o resecabile.
Non è generalmente raccomandata la resezione di metastasi epatiche da NET G3, ma può essere oggetto di trattamento individualizzato per lesioni singole resecabili. In particolari circostanze può essere considerata una valida palliazione la chirurgia epatica di debulking, associata o meno a terapie ablative. In questi casi viene raccomandata l’asportazione di almeno il 90% della malattia a livello epatico (45). È sempre indicata l’asportazione della neoplasia primitiva se ancora in sede, quando possibile, in concomitanza o successivamente all’intervento di resezione epatica.
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Terapie loco-regionali per i NET
Sara Massironi1, Antonio Nicolini2, Federica Cavalcoli1,3
1UOC Gastroenterologia ed Endoscopia, Divisioni di 1Gastroenterologia e Epatologia e 2Radiologia, 2Divisione di Radiologia Interventistica, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
3Dipartimento di Fisiopatologia e dei Trapianti, Università degli Studi di Milano
(aggiornato al 18 marzo 2017)
INTRODUZIONE
Nonostante l’andamento clinico delle neoplasie neuroendocrine (NEN) sia molto variabile a seconda del grado di differenziazione, del comportamento biologico e della sede del tumore primitivo, è esperienza comune che possano presentare un’importante diffusione metastatica già al momento della diagnosi; in corso di malattia metastatica, il fegato rappresenta la principale sede di metastatizzazione (1). Studi recenti riportano la presenza di metastasi a distanza nel 65-90% dei casi di NEN al momento della diagnosi (2,3).
La metastatizzazione a distanza, nel caso delle NEN, correla con il grado istologico, le dimensioni e la sede del tumore primitivo, tuttavia è dimostrato che anche NEN di dimensioni molto ridotte e con basso grado istologico (G1 o G2) possano presentarsi con un importante carico metastatico (4).
La presenza di metastasi a distanza, assieme al grado istologico, rappresenta uno dei più importanti fattori prognostici ed è associata a una riduzione significativa della sopravvivenza globale. La presentazione clinica dei pazienti con NEN e metastasi epatiche può essere caratterizzata da sintomi aspecifici, quali dolore, anoressia, nausea e calo ponderale o da sintomi legati all’effetto massa esercitata dalla neoplasia in sede epatica (ittero/colecistite/colangite); inoltre, nel caso di NEN funzionanti (es. gastrinoma, serotoninoma, VIPoma, ecc), può essere invece secondaria alla secrezione di specifici prodotti ormonali o amine vasoattive in grado di generare sintomi clinicamente rilevanti, dal momento che la presenza di metastasi epatiche riduce la capacità del fegato di metabolizzare tali sostanze (5).
Il trattamento aggressivo dei secondarismi epatici in caso di NEN si è dimostrato efficace nel controllo della sintomatologia e, seppur con minori evidenze cliniche, anche nel determinare un incremento della sopravvivenza globale (2).
Dal punto di vista morfologico, si possono riconoscere tre diverse modalità di infiltrazione epatica (6):
- diffusione metastatica limitata ad un solo lobo epatico o limitata a due segmenti adiacenti (20-25% dei casi);
- pattern metastatico “complesso”, con un lobo primariamente affetto e lesioni focali satelliti controlaterali (10–15% dei casi);
- pattern metastatico diffuso e multilobare (60–70% dei casi).
Il quadro di metastatizzazione è determinante nella scelta del trattamento loco-regionale più appropriato: nel primo caso le localizzazione secondarie possono essere asportate mediante una resezione anatomica standard, nel secondo caso l’approccio chirurgico è possibile solo in casi selezionati, mentre più spesso si possono eseguire trattamenti loco-regionali, mentre nel terzo caso l’approccio chirurgico non è in genere possibile mentre i trattamenti loco-regionali rimangono gli unici applicabili, seppur in un numero selezionato di casi.
TERAPIE LOCO-REGIONALI
Al momento sono disponibili diverse opzioni terapeutiche per i pazienti affetti da NEN con metastasi epatiche, che includono sia approcci sistemici (analoghi della somatostatina –SSA–, terapia radiorecettoriale –PRRT– e le nuove terapie a bersaglio molecolare con Everolimus e Sunitinib) sia approcci loco-regionali (resezione chirurgica, terapie ablative loco-regionali, terapie intra-arteriose e radio-embolizzazione, che combina le terapie intra-arteriose –embolizzazione/chemioembolizzazione– con la radioterapia esercitata da “radioemboli”). Infine, in pazienti selezionati, può essere preso in considerazione anche il trapianto ortotopico di fegato (1).
Quale sia la migliore gestione dei pazienti affetti da metastasi epatiche da NEN risulta ad oggi un punto ancora controverso: ove possibile la resezione chirurgica sembrerebbe essere la migliore scelta terapeutica, anche se risulta fattibile solo in una percentuale limitata di pazienti (4). Generalmente le terapie loco-regionali trovano indicazione in pazienti con NEN avanzate in assenza di diffusione extra-epatica o comunque quando il fegato rappresenta la sede principale di malattia, anche nel caso vi sia malattia extra-epatica (4). Le terapie loco-regionali sono generalmente utilizzate in associazione alla terapia con SSA, tuttavia ad oggi nessuno studio riporta l’utilizzo di terapie loco-regionali in associazione con le terapie sistemiche (SSA, PRTT, Everolimus o Sunitinib) (7). Inoltre, non vi sono studi che forniscano informazioni riguardo il timing ottimale di questi trattamenti rispetto alle altre terapie disponibili.
In generale la scelta delle diverse opzioni terapeutiche in questi pazienti deve essere valutata in modo integrato, considerando diversi fattori quali il grado istologico, la presenza di metastasi extra-epatiche, la presenza di sintomi e il performance status del paziente (8).
Terapie ablative locali
Le terapie ablative includono l’ablazione con radio-frequenza (RFA), l’ablazione mediante micro-onde (MWA), la crio-terapia e l’alcolizzazione.
Le tecniche ablative locali trovano indicazione soprattutto in caso di metastasi non resecabili chirurgicamente, di diametro < 5-6 cm. Attualmente le tecniche più utilizzate sono RFA e MWA, mentre crio-ablazione e alcolizzazione trovano minor applicazione.
La RFA è basata sulla conversione di onde a radiofrequenza in calore, tramite l’utilizzo di correnti alternate ad alta frequenza che causano vibrazioni ioniche. La RFA rappresenta sicuramente la tecnica ablativa più utilizzata, grazie all’ottimo profilo di sicurezza e alla buona tollerabilità (4). Inoltre, la RFA può essere applicata come terapia adiuvante anche in pazienti con malattia epatica diffusa, presenza di metastasi bilobari o localizzazioni anatomiche che risultano difficilmente aggredibili chirurgicamente, consentendo un trattamento citoriduttivo anche a pazienti che non potrebbero beneficiare di un trattamento chirurgico classico.
A seconda della sede delle metastasi, la RFA può essere eseguita con approccio percutaneo o intra-operativamente in corso di interventi laparoscopici o laparotomici (7). La RFA risulta particolarmente efficace in pazienti con lesioni di diametro < 3.5 cm e in numero < 5 o in caso di localizzazioni multiple quando la somma dei diametri risulta comunque < 8 cm (6). In caso di lesioni > 5 cm, localizzazione ilare epatica, o in prossimità di grossi vasi, o dei dotti biliari principali o vicino alla superficie epatica vi è un rischio significativamente aumentato di lesioni termiche e l’utilizzo della RFA è sconsigliato (6).
Dati recenti hanno dimostrato un’elevata efficacia nel controllo locale delle metastasi e dei sintomi che giunge fino al 92% dei casi, con mantenimento della risposta per 14-27 mesi (4). Inoltre, è stata riportata una riduzione significativa dei livelli dei marcatori circolanti. La percentuale di recidiva risulta comunque elevata (63-87% dei casi), con sopravvivenza a 5 anni del 57-80% (9). Nel complesso la RFA è una procedura ben tollerata, con ridotti tassi di morbilità (< 10%) e mortalità (< 1%) e l’efficace controllo dei sintomi la rende un trattamento utile, sia da solo che in combinazione con tecniche resettive (9). In rari casi tuttavia le complicanze possono essere rilevanti e comprendono il sanguinamento intra-epatico e la formazione di ascessi epatici (9,10).
La MWA prevede l’utilizzo di microonde, che applicate al tessuto neoplastico generano calore. Rispetto alla RFA, la MWA presenta un tempo di applicazione più limitato, con una conseguente minore diffusione del calore all’interno del parenchima epatico e rappresenta quindi un’utile opzione terapeutica soprattutto in caso di lesioni localizzate in prossimità dei grossi vasi o dei dotti biliari principali (7).
Terapie intra-arteriose
L’utilizzo di terapie intra-arteriose nei pazienti con NEN e metastasi epatiche è basato sull’osservazione che queste lesioni sono solitamente altamente vascolarizzate, principalmente rifornite da rami dell’arteria epatica, mentre il parenchima epatico, in condizioni fisiologiche, è vascolarizzato dal sistema venoso portale. L’occlusione vascolare arteriosa, volta a indurre ischemia e necrosi nelle lesioni epatiche metastatiche, può essere ottenuta tramite approccio percutaneo, solitamente tramite l’arteria femorale e successiva embolizzazione trans-arteriosa. Esistono diverse tecniche:
- l’embolizzazione trans-arteriosa “semplice” (TAE) utilizza sostanze inerti, come lipiodol, schiume di alcol polivinilico o microsfere;
- la somministrazione intra-arteriosa diretta di chemioterapici citotossici (TACE), consente di raggiungere elevate concentrazioni a livello epatico di sostanze chemioterapiche (doxorubicina, cisplatino, gemcitabina, streptozotocina, o 5-fluorouracile) (7);
- la TACE-DEB prevede l’utilizzo di microsfere che veicolano chemioterapici lentamente, massimizzando l’effetto terapeutico sulle cellule neoplastiche;
- la TARE o radio-embolizzazione trans-arteriosa con Yttrio-90 è una tecnica che è stata sviluppata per colpire multiple aree di malattia a livello epatico, permettendo una sorta di brachiterapia intra-epatica (4,7). Infatti, le microsfere contenenti Yttrio-90 iniettate nell'arteria epatica giungono a livello dei capillari, dove si depositano senza diffondere e continuano a emettere radioattività direttamente nel tumore. La TARE non è quindi limitata dal numero e sede delle metastasi da NEN e trova applicazione anche in caso di malattia bilobare. Sembra presentare alcuni vantaggi rispetto alle altre tecniche intra-arteriose, ad esempio una minor durata di ospedalizzazione (4).
Angiografia arteriosa di voluminose metastasi epatiche ipervascolarizzate ad origine da neoplasia neuroendocrina ileale
Immagini TC di estese metastasi epatiche da neoplasia neuroendocrina ileale prima (sinistra) e dopo (destra) trattamento mediante chemioembolizzazione epatica
Uno dei principali vantaggi di queste tecniche è che possono essere ripetute fino ad ottenere un’efficace cito-riduzione delle lesioni epatiche. L’utilizzo ripetuto di terapie intra-arteriose si è dimostrato efficace nella palliazione dei sintomi e nel prolungare la sopravvivenza globale in pazienti con metastasi epatiche da NEN. Le principali controindicazioni a queste tecniche sono la presenza di trombosi portale, insufficienza epatica e severe comorbilità (11). Ulteriori controindicazioni sono rappresentate dalla presenza di anastomosi biliari (es. intervento di Whipple), poiché incrementano il rischio di formazione di ascessi epatici legati ad una significativa traslocazione batterica e la presenza di shunt epato-polmonari, in cui si è registrato un incremento di mortalità (4).
I pazienti che vanno incontro a queste procedure possono presentare frequentemente una sindrome post-embolizzazione, caratterizzata da nausea e vomito (50–70%), dolore in ipocondrio destro/epigastrio (50–60%), febbre (30–60%), incremento delle transaminasi (100%). Gli effetti collaterali più rilevanti comprendono: necrosi della colecisti, sindrome epato-renale, pancreatite, formazione di ascessi epatici o aneurismi. Poiché queste procedure possono determinare una significativa morbilità, dovrebbero essere eseguite solamente in centri specializzati. La mortalità risulta ridotta in centri dotati di buona esperienza (0-3.3%) (11).
È riportata una risposta parziale o completa, rispettivamente nel 33-50% come risposta oggettiva radiologica, nel 73-100% come controllo della sintomatologia e 57-91% come riduzione dei marcatori circolanti. La durata media della risposta in termini di controllo dei sintomi risulta essere di 14-22 mesi (11). La sopravvivenza a 5 anni in diversi studi varia tra il 50-83% per la TACE e il 40-67% per la TAE (4). Un recente studio nei pazienti con metastasi epatiche da NEN trattate con terapie intra-arteriose (TAE, TACE, TACE-DEB, TARE) ha dimostrato una sopravvivenza mediana di 34 mesi e una sopravvivenza a 5 anni del 30%, vs 123 mesi e 74% nei pazienti che andavano incontro ad un approccio chirurgico (12). Nello stesso lavoro gli autori non osservavano differenze significative nella sopravvivenza nei pazienti trattati con tecniche intra-arteriose e approccio chirurgico in pazienti sintomatici e con interessamento epatico > 25% (12). Le tecniche intra-arteriose potrebbero essere pertanto particolarmente indicate in pazienti con importante carico metastatico, mentre l’approccio chirurgico dovrebbe essere riservato a pazienti con malattia epatica < 25% o pazienti con sintomi correlati all’effetto massa.
La TAE è stata storicamente confrontata soprattutto con la TACE, ma nessuna delle due tecniche ha dimostrato un significativo miglior beneficio rispetto all’altra (7). Alcuni studi sembrano dimostrare una maggiore efficacia della TACE-DEB rispetto alla TACE tradizionale, tuttavia sono state riportate complicanze severe, come lo sviluppo di biliomi e ascessi intra-epatici, che hanno comportato la precoce interruzione del principale studio di fase II sulla TACE-DEB (13).
Al momento non vi sono studi disponibili che confrontino direttamente queste tecniche, anche se alcuni dati preliminari sembrerebbero suggerire un profilo di tossicità migliore con una minor durate dell’ospedalizzazione per la TARE rispetto a TACE e TAE. Tuttavia, appaiono necessari ulteriori studi per determinare il profilo di sicurezza e di tossicità ed i possibili benefici di una tecnica rispetto all’altra. Inoltre sono necessari studi volti ad identificare il corretto timing dell’utilizzo di tale trattamento rispetto alle altre terapie sistemiche disponibili.
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Terapia radio-recettoriale nei tumori neuroendocrini gastro-entero-pancreatici (GEP-NET)
Angelina Filice & Annibale Versari
Struttura Complessa di Medicina Nucleare, Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia
(aggiornato al 14 giugno 2021)
Introduzione
La terapia radiorecettoriale (Peptide Receptor Radionuclide Therapy - PRRT) trova il proprio razionale nell’espressione, da parte delle neoplasie neuroendocrine (NEN), dei recettori per la somatostatina (SSTR). Le NEN sono, infatti, caratterizzate da un’elevata espressione dei SSTR sulla membrana delle cellule tumorali. I sottotipi SSTR2 e SSTR 5 sono quelli più frequentemente rappresentati e possono essere usati per l’imaging e per la PRRT (1).
La presenza di tali recettori sulla superficie cellulare può essere documentata tramite indagini di immuno-istochimica o in vivo, mediante l’imaging medico-nucleare che utilizza analoghi della somatostatina radio-marcati. Il primo radio-farmaco a essere impiegato in quest’ambito è stato l’Octreoscan marcato con (111In), un isotopo radioattivo che emette radiazioni gamma e per il quale si utilizza come sistema di rilevazione la gamma-camera. In tempi più recenti c’è stato lo sviluppo di nuovi analoghi della somatostatina, i DOTA-peptidi, marcati con l’isotopo 68Ga, che emette positroni rilevabili in PET/TC. Per quanto nei centri di medicina nucleare vengano ancora entrambi utilizzati con indicazioni sovrapponibili, questi ultimi si sono dimostrati superiori ai precedenti in termini di accuratezza diagnostica (2). La positività dell’imaging medico-nucleare, che documenti un’adeguata captazione del radio-peptide, rappresenta un pre-requisito fondamentale per la selezione del paziente per la PRRT (3).
Radio-farmaci
I radio-farmaci prevalentemente impiegati in PRRT sono attualmente 90Y/177Lu-DOTATOC/DOTATATE, con caratteristiche fisiche diverse. Il vettore è il peptide analogo della somatostatina (DOTATOC o DOTATATE), che spesso è lo stesso impiegato in diagnostica PET/TC marcato con 68Ga. Ovviamente, nel caso della PRRT, l’isotopo radioattivo legato al vettore non è un emettitore di positroni come in diagnostica (68Ga), ma un ß-emettitore, che permette di irradiare la sede di accumulo e cioè la lesione neoplastica:
- 90Yttrio (90Y) è un radio-nuclide con un’emivita di 67 giorni, che emette particelle ß di 2.27 MeV, con una penetrazione nei tessuti di circa 12 mm;
- 177Lutezio (177Lu) ha un’emivita di 6.64 giorni, che emette particelle ß di energia inferiore (0.5 MeV), con capacità di penetrazione nei tessuti di circa 2 mm.
Queste caratteristiche fisiche si traducono, quindi, in una maggior capacità di penetrazione dei radio-farmaci marcati con 90Y, che quindi risultano più efficaci in caso di lesioni di maggiori dimensioni (> 2 cm), ma che al tempo stesso hanno un maggior impatto dal punto di vista dosimetrico sugli organi a rischio (reni e midollo osseo), mentre i radio-farmaci marcati con 177Lu sono più appropriati per le lesioni di piccole dimensioni (< 2 cm), con minor impatto dosimetrico sugli organi a rischio e consentono la somministrazione di dosi più elevate (4). Le conoscenze sul diverso potere di penetrazione degli isotopi radioattivi utilizzati in PRRT hanno portato all’impiego in molti studi dei due radio-farmaci utilizzati in tandem, al fine di sfruttarne le diverse caratteristiche (5,6).
PRRT: studi di efficacia e di tossicità
Nel corso di più di venti anni di esperienza sulla PRRT sono stati pubblicati prevalentemente studi di fase I-II, molto eterogenei per vari aspetti (popolazione di pazienti e tipi di neoplasia neuroendocrina, radio-farmaci e isotopi radioattivi, dosi e schemi terapeutici, ecc) e pertanto difficilmente confrontabili. Nonostante tale eterogeneità, tuttavia, gli studi di efficacia hanno documentato un controllo della malattia in termini di risposta (parziale e completa) e di stazionarietà tra il 66% e il 92% (7-14).
Gli autori di una metanalisi pubblicata nel 2015 (15), che ha incluso 6 studi per un totale di 473 pazienti con NET inoperabili o metastatici sottoposti a PRRT, ne hanno confermato l’efficacia, evidenziando una risposta obiettiva globale del 29% con criteri RECIST e del 23% con criteri SWOG. La percentuale media di controllo di malattia è 81% nel gruppo RECIST e 82% nel gruppo SWOG.
Un lavoro del 2016 in 6 centri in Germania ha analizzato l'efficacia terapeutica di 90Y e 177Lu in 450 pazienti affetti da NEN del pancreas (38%), dell'intestino tenue (30%), a primitività incerta (19%) e NET polmonari (4%). La sopravvivenza globale mediana di tutti i pazienti è stata di 59 mesi. I pazienti affetti da neoplasie di grado II e III hanno mostrato sopravvivenza globale più bassa rispetto a quelli affetti da neoplasie di grado I. La sopravvivenza dei pazienti affetti da tumori di basso grado dell'intestino tenue è significativamente maggiore, rispetto a quella degli affetti da tumori di altri distretti corporei. Una remissione completa del tumore si è avuta nel 5.6% dei casi, mentre il 22.4% dei pazienti ha presentato una risposta parziale, il 47.3% è risultato stabile, il 4% è andato in progressione (16).
Nella gestione dei GEP-NET è attualmente ben noto che ottenere una stabilizzazione di malattia è da considerarsi un buon risultato in termini di controllo della malattia, in quanto, dal punto di vista prognostico, stabilizzazione e risposta al trattamento mostrano un’analoga probabilità di sopravvivenza (13).
A fronte dei risultati ottenuti in termini di efficacia, inoltre, la PRRT negli studi pubblicati nel corso degli anni, si è dimostrata essere ben tollerata in termini di tossicità. Gli effetti collaterali acuti sono generalmente lievi e auto-limitanti. Tra la tossicità acuta e a breve termine, sono più frequenti nausea, vomito e affaticamento, mentre i pazienti riferiscono meno frequentemente dolore addominale, diarrea e si riscontra lieve tossicità ematologica reversibile. L'alopecia e la sindrome carcinoide sono rare. I reni e il midollo osseo sono considerati organi a rischio per la tossicità a lungo termine nella PRRT. I possibili effetti collaterali gravi a lungo termine sono, infatti, l'insufficienza renale, la sindrome mielo-displastica (MDS) o la leucemia acuta (LA). Quindi, prima di iniziare la PRRT devono essere valutate la riserva ematologica e la funzionalità renale.
Come documentato in molti studi, è ormai noto che la somministrazione di aminoacidi, come forma di protezione renale, riduce l’irradiazione dei reni e di conseguenza la probabilità di comparsa di tossicità renale. In una revisione pubblicata pochi anni fa gli autori riportano una tossicità renale severa (grado 3/4) in < 3% dei pazienti qualora si usi un’adeguata protezione renale, che arriva al 15% negli studi in cui si usino protocolli senza somministrazione di aminoacidi (17).
Molti studi hanno riportato effetti a lungo termine sul midollo osseo. LA o MDS sono state riportate in < 3% dei pazienti che hanno ricevuto PRRT. In uno degli studi con una casistica più ampia (807 pazienti) è stata osservata tossicità ematologica lieve/assente nella grande maggioranza dei pazienti (82.2%) e severa nel 9.5%, in particolare 2.35% MDS e 1.1% LA (18). In uno studio comprendente 142 pazienti è stata osservata tossicità ematologica transitoria di grado 3-4 nel 12.8% dei pazienti, mentre LA e MDS sono state osservate rispettivamente nello 0.1% e 0.1% dei casi (19).
Studio di fase 3 NETTER-1 e approvazione del 177Lu-DOTATATE
Nonostante i numerosi studi sopra-citati, solo nel 2017 c’è stata la pubblicazione del NETTER-1, il primo studio multi-centrico, randomizzato di fase 3 sulla PRRT in 229 pazienti con tumori del piccolo intestino in progressione, inoperabili e positivi al recettore della somatostatina (20): sono stati confrontati 177Lu-DOTATATE (4 dosi da 7400 MBq ogni 8 settimane) più 30 mg di octreotide ogni 4 settimane per il controllo dei sintomi, verso una dose elevata di octreotide (60 mg ogni 4 settimane). L'end-point primario dello studio era la sopravvivenza libera da progressione (PFS), che è risultata significativamente diversa (p < 0.0001) tra i gruppi: al momento dell'analisi, la mediana non era stata ancora raggiunta per 177Lu-DOTATATE, mentre era di 8.5 mesi per octreotide LAR. Gli autori hanno riportato una riduzione del 79% del rischio di progressione o morte nei pazienti trattati nel braccio PRRT rispetto al braccio di controllo. Oltre a migliorare la PFS, 177Lu-DOTATATE fornisce un significativo beneficio in termini di qualità di vita (21).
Lo studio Erasmus (22) a supporto del NETTER-1 ha valutato sicurezza ed efficacia di 177Lu-DOTATATE in 1200 pazienti con NET (midgut, foregut, hindgut e a primitività sconosciuta). Efficacia e sopravvivenza sono state analizzate in un sottogruppo di 443 pazienti: il tasso di risposta oggettiva è stato del 39%, la stabilità di malattia è stata raggiunta nel 43% dei pazienti. La PFS e la sopravvivenza globale (OS) per tutti i pazienti erano, rispettivamente, di 29 mesi e 63 mesi. I pazienti con NET pancreatico avevano OS più prolungata (71 mesi). Sono state rilevate LA in quattro pazienti (0.7%) e MDS in nove (1.5%).
In seguito alla pubblicazione dei dati di tali studi, il 177Lu-DOTATATE è stato approvato dalle autorità regolatorie, EMA e successivamente AIFA, con la seguente indicazione: trattamento di tumori neuroendocrini gastro-entero-pancreatici (GEP-NET) non operabili o metastatici, in progressione, ben differenziati (G1 e G2) e positivi ai recettori della somatostatina (fig 1-2). Il radio-farmaco 177Lu-DOTATATE (Lutathera) è stato incluso nell’elenco AIFA dei farmaci innovativi per un periodo di tre anni (30/3/2019 – 29/3/2022).
Figura 1
Paziente con NET G2 duodenale, Ki67 = 7%, in progressione dopo terapia con analoghi della somatostatina.
A: 68Ga-DOTATOC PET/TC basale eseguita in previsione di PRRT. Aree di aumentata captazione, compatibili con lesioni neoplastiche ad elevata espressione recettoriale a livello del parenchima epatico, di linfonodi mediastinici e addominali.
B: 68Ga-DOTATOC PET/TC controllo dopo tre mesi dalla fine del trattamento radio-recettoriale con 177Lu-Oxodotreotide. Risposta parziale con riduzione di numero, estensione e intensità di captazione delle lesioni presenti alla PET/TC basale.
Figura 2
Paziente con insulinoma pancreatico G2 (Ki67 7%), in progressione dopo terapia con analoghi della somatostatina.
A: 68Ga-DOTATOC PET/TC basale in previsione di PRRT. Aree di aumentata captazione, compatibili con lesioni neoplastiche ad elevata espressione recettoriale a livello di pancreas, parenchima epatico, linfonodi addominali e scavo pelvico di destra.
B: 68Ga-DOTATOC PET/TC controllo dopo tre mesi dalla fine del trattamento radio-recettoriale con 177Lu-Oxodotreotide. Risposta parziale alla PRRT, con importante riduzione del numero delle lesioni presenti alla PET/TC basale.
Metodica e modalità di somministrazione del radiofarmaco
La somministrazione di 177Lu-DOTATATE deve essere effettuata esclusivamente da personale autorizzato a manipolare radio-farmaci.
Prima di iniziare e durante il trattamento è necessario esaminare la funzionalità epatica e renale e la riserva midollare. Inoltre, l'imaging recettoriale, ovvero la scintigrafia con 111In-Octreoscan o, meglio, la PET/TC con 68Ga-DOTA-peptide, deve confermare la presenza di SSTR sulle cellule tumorali, con captazione tumorale pari almeno alla normale captazione epatica (captazione tumorale ≥ 2 secondo il punteggio di Krenning).
Lo schema terapeutico raccomandato consiste in 4 infusioni da 7400 MBq ciascuna, a distanza consigliata di 8 settimane, estensibile fino a 16 settimane in caso di tossicità. Lo schema della somministrazione prevede prima una pre-medicazione con anti-emetici, seguita dopo 30 minuti da una soluzione di aminoacidi per via ev per una durata complessiva di 4 ore, seguita a sua volta dall’infusione del 177Lu-DOTATATE.
Valutazione della risposta alla PRRT
È senz’altro uno dei punti di maggiore discussione e criticità. Per quanto, infatti, le linee guida EANM suggeriscano di utilizzare i criteri RECIST per valutare la risposta alla PRRT (23), sono noti i limiti dell’impiego di criteri meramente dimensionali, in particolare in questi tumori per lo più a lenta crescita. Con l’avvento dei farmaci biologici e della stessa PRRT, è sempre più evidente che la sola valutazione dimensionale delle lesioni non è sufficiente per valutare la risposta al trattamento.
Dati recenti della fase 4 dello studio sunitinib nei NET pancreatici hanno indicato una migliore stima della risposta utilizzando i criteri CHOI, basati sulla variazione del 10% delle dimensioni o sulla variazione di densità del tumore alla TC rispetto ai criteri RECIST (24).
Considerando i limiti sovra-esposti sulla valutazione della risposta al trattamento, non è ancora stato raggiunto un consenso tra gli esperti sui metodi e sulle tempistiche. Probabilmente dovranno essere impiegati insieme l’imaging morfologico e quello funzionale, sfruttando anche l’avvento di metodi innovativi di analisi dell’imaging (25). Saranno necessari ulteriori studi per valutare e affermare l’uso nella pratica clinica di approcci quali la biopsia liquida, in particolare del NETest (26).
Conclusioni
La PRRT è attualmente riconosciuta come trattamento efficace e ben tollerato per i GEP-NET ben differenziati, in progressione, non operabili, SSTR-positivi, in progressione dopo i trattamenti di prima linea. Sebbene attualmente tale terapia sia impiegata su larga scala in molti paesi, diverse problematiche sono ancora al centro del dibattito scientifico. Innanzitutto, è di fondamentale importanza definire i criteri appropriati di selezione del paziente, come stabilire la corretta sequenza terapeutica e il corretto posizionamento della PRRT nella sequenza, definire l’opportunità di personalizzare dose e schemi terapeutici utilizzando la dosimetria e inoltre, definire criteri più appropriati per la valutazione della risposta al trattamento. È infine, auspicabile in futuro la possibilità di utilizzare la PRRT anche nella pratica clinica (e non solo in ambito sperimentale), in una fase più precoce della malattia e/o in associazione con altri trattamenti.
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