Sindrome di Silver-Russell
Maria Piccione & Martina Busè
Dipartimento di Scienze per la Promozione della Salute e Materno-Infantile “Giuseppe D’Alessandro”, Università degli Studi di Palermo
Epidemiologia
La sindrome di Silver-Russell (SRS) è una malattia genetica rara, caratterizzata da ritardo di crescita a esordio prenatale, dismorfismi facciali caratteristici e asimmetria degli arti. L’incidenza è stimata tra 1 e 30 casi per 100.000 nati vivi. Si tratta di una condizione eterogenea dal punto di vista genetico, sporadica nella maggior parte dei casi.
Diagnosi
La diagnosi clinica dipende dalla presenza di ritardo di crescita intra-uterino (IUGR) e ritardo di crescita post-natale, associata ad asimmetria corporea e facies caratteristica.
Il ritardo di crescita vede una maggiore compromissione del peso rispetto alla statura, per la scarsità del pannicolo adiposo sottocutaneo. Il peso alla nascita è in genere 2 o più DS al di sotto della media e, nell’età post-natale, la crescita si attesta sempre al di sotto delle 2 DS (per lunghezza/altezza). Non si assiste, infatti, ad una crescita di recupero e la velocità di crescita risulta normale: i soggetti affetti avranno una bassa statura armonica. L’età ossea è ritardata, proporzionalmente alla bassa statura.
La circonferenza cranica risulta normale, sproporzionata rispetto al resto del corpo, conferendo spesso un aspetto pseudo-idrocefalico. I bambini con SRS presentano una facies caratteristica: fronte larga e prominente, viso piccolo e triangolare, mento appuntito, bocca larga con labbra sottili, occhi grandi, sclere blu. Sono, inoltre, comuni, la clino-dattilia del V dito e la brachi-dattilia. Nel 60-80% dei casi si riscontra asimmetria corporea e/o degli arti, in genere parziale e non progressiva, dovuta a emi-ipotrofia con ridotta crescita del lato affetto. Caratteristica distintiva è la brevità degli arti superiori, con riduzione del rapporto tra la larghezza delle braccia aperte (span) e l’altezza.
Per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo, considerato in passato sempre nella norma, recenti studi hanno messo in evidenza che i bambini affetti da SRS hanno un rischio maggiore di ritardo di sviluppo, cognitivo e motorio, e difficoltà di apprendimento.
Data la variabilità del fenotipo e l’assenza di caratteristiche cliniche patognomoniche, sono stati proposti criteri diagnostici per la diagnosi clinica: questa può essere posta in presenza di 3 criteri maggiori o 2 criteri maggiori e 2 criteri minori.
Criteri diagnostici per SRS | |
Maggiori | IUGR/SGA (< 10°percentile) Lunghezza/statura post-natale < 3°percentile Circonferenza cranica normale (3°-97° percentile) Asimmetria degli arti, del corpo o del volto |
Minori | Ridotta apertura delle braccia, con normale rapporto tra segmento superiore e inferiore Clinodattilia del V dito Facies triangolare Bozze frontali prominenti |
Altri di supporto | Macchie caffè-latte o alterazioni della pigmentazione cutanea Anomalie genito-urinarie (criptorchidismo, ipospadia) Ritardo dello sviluppo cognitivo, motorio e del linguaggio Ipoglicemia Disturbi dell’alimentazione |
La diagnosi clinica può essere confermata da test genetici. Poiché la SRS è eterogenea dal punto di vista genetico, non esiste un unico test di laboratorio in grado di individuare l’alterazione responsabile. Inoltre, i test genetici ad oggi disponibili confermano la diagnosi solo nel 50-60% dei casi.
Alterazioni molecolari sono riscontrate più frequentemente a carico del cromosoma 11 (11p15.5):
- ipometilazione del locus IC1 del cromosoma paterno (40-45% dei casi);
- disomia uniparentale materna del cromosoma 11 (< 1% dei casi);
- duplicazione materna della regione 11p15.5 (1-2% dei casi).
Tutte queste alterazioni determinano una ridotta espressione del gene IGF-2, con conseguente restrizione della crescita in epoca pre- e post-natale.
In un minor numero di soggetti affetti vengono identificate alterazioni a carico del cromosoma 7:
- disomia uniparentale materna del cromosoma 7 (5-10% dei casi);
- trisomia del cromosoma 7 in mosaico, delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 7, duplicazione 7p11.2-p12.
Un corretto iter diagnostico prevede, in prima battuta, l’impiego di test di metilazione della regione 11p15.5, seguito dall’analisi molecolare del DNA per la disomia uniparentale materna e dalla ricerca di micro-delezioni e micro-duplicazioni.
Storia naturale e complicanze
I soggetti con SRS sono a rischio di sviluppare numerosi problemi medici. Le problematiche più frequenti e precoci sono correlate alla crescita e all’alimentazione.
Per quanto riguarda il trattamento della bassa statura, numerosi studi hanno dimostrato che la supplementazione di ormone della crescita è indicata anche in assenza di un documentato deficit di GH (può aumentare la velocità di crescita e l'altezza finale, che però non raggiunge i valori normali). La terapia con GH non sembrerebbe però ridurre l’asimmetria degli arti, la quale può in alcuni casi causare anomalie scheletriche: una discrepanza degli arti inferiori > 3 cm può provocare scoliosi compensatoria, che necessita trattamento.
A causa della scarsità del pannicolo adiposo sottocutaneo e dei problemi di alimentazione, i bambini con SRS sono a rischio di ipoglicemia, spesso asintomatica. Questa deve essere trattata con supplementazioni dietetiche, pasti frequenti e uso di carboidrati complessi.
I disturbi gastro-intestinali sono frequenti, in particolare reflusso gastro-esofageo ed esofagite.
Meno comuni sono le anomalie cranio-facciali, quali micrognazia, palatoschisi e, nei casi più gravi, sequenza di Pierre Robin.
Infine, in alcuni pazienti sono state riscontrate anomalie genito-urinarie (criptorchidismo, ipospadia, anomalie renali).
In considerazione dell’eterogeneità fenotipica della sindrome, sono necessari un’approfondita valutazione iniziale dei pazienti in seguito alla diagnosi e un follow-up a lungo termine.
Al momento della diagnosi sono raccomandati:
- esame obiettivo approfondito, con valutazione di eventuale asimmetria corporea e/o degli arti e di anomalie cranio-facciali;
- misurazioni antropometriche, con relative curve di crescita;
- valutazione clinica e radiologica dello scheletro e visita ortopedica/fisiatrica;
- misurazione della glicemia
- dosaggio di GH/IGF-I;
- valutazione dello sviluppo cognitivo, motorio e del linguaggio;
- valutazione gastro-enterologica ed ecografia addome;
- visita cardiologica con ECG ed ecocardiogramma.
In seguito, è necessaria una presa in carico multi-disciplinare e multi-specialistica. È raccomandato uno stretto follow-up al fine di monitorare, innanzitutto, la crescita (con particolare attenzione alla velocità di crescita) e prevenire le possibili complicanze.
Bibliografia
- Saal HM. Russell-Silver Syndrome. 2002 [Updated 2011 Jun 02].In: Pagon RA, Adam MP, Ardinger HH, et al (eds). SourceGeneReviews® [Internet]. Seattle (WA): University of Washington, Seattle; 1993-2015.
- Selicorni A, Zampino G, Memo L, Scarano G. (a cura di). Le sindromi malformative: una guida per il pediatra. Pacini Editore 2014.
- Orphanet. Website: ORPHA813.
Sindrome di Williams
Maria Piccione & Martina Busè
Dipartimento di Scienze per la Promozione della Salute e Materno-Infantile “Giuseppe D’Alessandro”, Università degli Studi di Palermo
La sindrome di Williams (SW) è una malattia genetica rara, causata da una micro-delezione a carico del braccio lungo del cromosoma 7 (7q11.23) di circa 1.5 Mb, che include 26-28 geni, tra cui il gene dell’elastina (ELN).
L’incidenza è stimata tra 1:10000 ed 1:20000 nati vivi, con uguale incidenza nei due sessi. È caratterizzata da disturbi dello sviluppo, associati, nel 75% dei casi, a cardiopatie (di solito stenosi sopra-valvolare dell'aorta, SSA), ritardo psico-motorio, dismorfismi facciali caratteristici e profilo cognitivo e comportamentale specifico, con variabile espressività clinica.
Diagnosi
Non esistono ad oggi dei criteri per la diagnosi clinica. La SW andrebbe sospettata inizialmente in presenza di dismorfismi caratteristici, ritardo di sviluppo e cardiopatia congenita. I pazienti affetti presentano:
- dismorfismi facciali caratteristici (facies “elfica”): sopracciglia rade, setto nasale appiattito e punta del naso globosa, narici anteverse, bocca larga, con labbro inferiore anteverso, guance prominenti, micrognatia, edema peri-orbitale, epicanto e, spesso, iride 'a stella'. Con l'età, il viso diventa più stretto e assume lineamenti grossolani;
- ritardo di crescita: il 35% delle femmine e il 22% dei maschi presenta un ritardo nell’accrescimento pre-natale. La crescita è scarsa nei primi anni di vita, con valori inferiore al 3° centile. In seguito, si assiste ad accelerazione pre-puberale con parametri auxologici tra il 10° e il 25° centile, con altezza definitiva che si arresta comunque ai limiti inferiori della norma (opportuno fare riferimento a curve di crescita specifiche per bambini con SW);
- cardiopatia congenita: stenosi sopra-valvolare dell’aorta nel 75% dei casi, spesso associata a displasia della valvola aortica; prolasso della valvola mitrale nel 15%. Sono state inoltre riscontrate, in una percentuale inferiore di casi, coartazione aortica, dotto arterioso pervio, DIV, stenosi della valvola mitralica. Inoltre, a livello vascolare è possibile riscontrare stenosi delle arterie di medio calibro di ogni distretto;
- disturbi neuro-comportamentali: ipotonia, iperlassità legamentosa, ritardo intellettivo di grado variabile (medio-grave), ritardo motorio e del linguaggio (che poi diventa iperverbale), deficit visuo-spaziale, buone capacità musicali, comportamento ipersociale (cosiddetto atteggiamento da cocktail party).
Nei pazienti affetti da SW sono inoltre frequenti le anomalie a carico delle vie urinarie (35-50%), quali displasia renale, cisti renali, reflusso vescico-ureterale (RVU) e idronefrosi. A livello del sistema nervoso centrale, è stata descritta presenza di anomalia di Chiari di tipo I nel 10% dei pazienti.
Una volta posto un sospetto clinico, questo deve essere confermato da test genetici. L’indagine diagnostica di prima scelta è costituita dalla FISH (Fluorescence In Situ Hybridization), con sonde specifiche per la regione critica della SW (7q11.23). Mediante FISH vengono identificati il 98-99% dei casi. L’introduzione degli array-CGH (array-Comparative Genomic Hybridization) consente, oggi, di individuare anche l’1-2% di casi “atipici”. Nella maggior parte dei casi la micro-delezione insorge “de novo”, non riscontrandosi alcuna anomalia cromosomica nei genitori del probando.
Storia naturale e complicanze
I pazienti con SW sono a rischio di sviluppare numerosi problemi medici. Sul piano endocrinologico vanno ricordati innanzitutto i problemi auxologici: bassa statura, obesità, pubertà precoce vera. La pubertà è in genere anticipata rispetto alla popolazione generale ed è associata a uno scatto puberale breve, per cui la statura definitiva si arresta ai limiti inferiori della norma.
Frequente è anche la patologia tiroidea, con il riscontro di ipotiroidismo subclinico, che in genere regredisce spontaneamente durante i primi anni di vita.
I soggetti affetti da SW possono presentare alterazioni del metabolismo del calcio, con ipercalcemia, ipercalciuria e, in alcuni casi, nefrocalcinosi. Proprio per il riscontro di ipercalcemia, le cui cause non sono ancora note, la sindrome è stata inizialmente descritta come “ipercalcemia idiopatica infantile”, nome oggi non più utilizzato in quanto l’ipercalcemia non è ritenuta un segno clinico significativo. Dati recenti, infatti, la descrivono in circa il 15% dei pazienti, con manifestazione sia nell’infanzia che in età adulta. Essa si presenta, in genere, in forma lieve-moderata, ma in alcuni casi può essere sintomatica, manifestandosi con irritabilità, ipotonia, iporessia e stipsi.
Negli adulti è stata, inoltre, osservata un’aumentata incidenza di diabete mellito.
Sul piano cardio-vascolare, oltre alla cardiopatia congenita, una frequente complicanza è l’ipertensione arteriosa, essenziale o secondaria a stenosi dell’arteria renale. Quest’ultima è da ricondurre all’alterazione strutturale delle arterie secondaria al deficit di elastina.
Molti pazienti presentano problemi gastro-intestinali: difficoltà di alimentazione, reflusso gastro-esofageo, ernia iatale, litiasi della colecisti, diverticolite, stipsi cronica. Inoltre è stata riscontrata un’aumentata incidenza di malattia celiaca (circa 10%) rispetto alla popolazione generale, in analogia alla sindrome di Down e alla sindrome di Turner.
Possono infine essere presenti problematiche ortopediche, oculistiche, odonto-stomatologiche, otorino-laringoiatriche e alterazioni a carico di reni e vie urinarie (malformazioni delle vie urinarie, IVU ricorrenti, disturbi minzionali).
Al fine di monitorare l’evolutività della sindrome e prevenire le possibili complicanze è necessario uno stretto follow-up multi-disciplinare e multi-specialistico. Secondo quanto proposto dalla Società Italiana di Genetica Umana, vanno eseguiti:
- al momento della diagnosi: esame clinico e neurologico; valutazione auxologica (utilizzando le curve di accrescimento della SW); esame cardiologico, con misurazione della PAO ed ecocardiogramma con color Doppler; esame dell’apparato genito-urinario e valutazione della funzionalità renale; ecografia addome; analisi del metabolismo del calcio (calcemia totale o ionizzata, rapporto calciuria/creatininuria); studio della funzionalità tiroidea; visita oculistica; valutazione neuro-psicologica; consulenza genetica;
- valutazioni specialistiche, esami strumentali e di laboratorio, cadenzati in base all’età del paziente. In particolare:
- esame clinico e valutazione auxologica: ogni 6 mesi nei primi 3 anni, quindi annuale;
- esami ematochimici di routine, funzionalità renale, funzionalità tiroidea, screening celiachia: ogni anno;
- misurazione PAO: ogni anno o su indicazione clinica;
- visita oculistica: ogni anno nei primi 3 anni, quindi ogni 2/3 anni o su indicazione clinica;
- valutazione audiologica: ogni anno o su indicazione clinica;
- visita odonto-stomatologica: ogni anno nei primi 3 anni, quindi ogni 2/3 anni o su indicazione clinica;
- visita ortopedica: alla deambulazione, quindi ogni anno;
- ecografia addome: alla pubertà, quindi ogni 5 anni o su indicazione clinica;
- esame cardiologico ed ecocardiogramma, valutazione neuro-psichiatrica, gastro-enterologica, nefrologica e dietologica: su indicazione clinica.
Bibliografia
- Morris CA. Williams Syndrome. 1999 [Updated 2013 Jun 13]. In: Pagon RA, Adam MP, Bird TD, et al (eds). GeneReviewsTM [Internet]. Seattle (WA): University of Washington, Seattle; 1993-2014.
- Dallapiccola B, et al. Società Italiana di Genetica Umana (SIGU). Linee guida per la sindrome di Williams. Riv It Pediatr 2000, 26: 244-53.
- Selicorni A, Zampino G, Memo L, Scarano G. Le sindromi malformative: una guida per il pediatra. Pacini Editore 2014.
Ginecomastia nell'adolescenza
Antonio Radicioni, Antonella Valente, Matteo Spaziani
SMID04 Diagnostica ormonale, Seminologia e Banca del seme
Azienda Policlinico Umberto I – Sapienza Università di Roma
(aggiornato al 21 gennaio 2020)
Introduzione
Per ginecomastia, dal greco gynec (donna) e mastos (petto), si intende l’aumento di volume della ghiandola mammaria nel maschio, determinato dalla proliferazione benigna di elementi duttali del parenchima ghiandolare (1). Da questa condizione clinica va distinta l’adipomastia (detta anche lipomastia o pseudo-ginecomastia), caratterizzata da un’eccessiva presenza di tessuto adiposo in regione mammaria, frequentemente, ma non esclusivamente, presente nei soggetti obesi. La ginecomastia può essere bilaterale o monolaterale (2).
Nell’adolescente frequentemente determina un importante senso d’ansia, distress per la propria immagine corporea e riduzione della qualità di vita: un nostro paziente di 14 anni con un promettente futuro nel nuoto nazionale, dopo diversi anni e ottimi risultati agonistici, aveva deciso di abbandonare il nuoto per le difficoltà di mostrarsi in costume.
Prima della pubertà è possibile osservare una forma neonatale abbastanza rara: il passaggio trans-placentare di estrogeni materni e la conversione di DHEA e DHEAS ad estrone (E1) ed estradiolo (E2) da parte del tessuto placentare determinano uno sbilanciamento del rapporto E2/T nel feto. È usualmente una forma benigna, ad evoluzione spontanea dopo qualche settimana dalla nascita. Se la ginecomastia persiste per più di un anno, devono essere indagate altre possibili cause sottostanti.
I meccanismi alla base della ginecomastia includono una diminuzione della produzione di androgeni, l’aumento della produzione di estrogeni o la maggior disponibilità di precursori degli estrogeni per la conversione periferica. Altre possibili cause sono il blocco del recettore degli androgeni e, in pazienti con alterata produzione di testosterone (T), la ridotta concentrazione di T libero (fTe) dovuta all’aumento della SHBG. La stimolazione da parte degli estrogeni determina iperplasia duttale, allungamento e diramazione dei dotti ghiandolari, proliferazione dei fibroblasti peri-duttali e incremento della vascolarizzazione (1). Tutte le condizioni che aumentano la concentrazione di SHBG possono determinare riduzione di fTe.
Molti studi effettuati su maschi in età puberale con ginecomastia non hanno mostrato alterazioni della concentrazione sierica di T, E2, E1 e gonadotropine rispetto a maschi di pari età senza ginecomastia. Tuttavia, in alcuni casi si osserva un transitorio rapido incremento di E2 all’inizio della pubertà nei ragazzi che sviluppano ginecomastia. Questi mostrano talvolta ampie fluttuazioni dei livelli di E2, con aumento della concentrazione di E2 totale nelle 24h, che riflette un aumento della conversione degli androgeni surrenalici in estrogeni. L’incremento della concentrazione di E2 fino a livelli dell’adulto si verifica sempre prima dell’aumento della concentrazione di T: è proprio in questa fase che può generarsi lo squilibrio del rapporto E2/T (3). Leptina e IGF-1 sono aumentati sia nei ragazzi con ginecomastia, sia in quelli senza. Tuttavia, l’evidenza che la ginecomastia puberale si sviluppa in associazione a un rapido raggiungimento del picco di concentrazione di queste due molecole, evidenzia che effettivamente sia la leptina che l’IGF-1 possono essere implicate nello sviluppo della ginecomastia puberale (4).
L’incidenza della ginecomastia, durante l’età evolutiva, nei lavori della letteratura varia notevolmente, fra 4 e 69%, in base al diverso modo di valutare l’incremento ghiandolare e alle diverse età considerate dagli autori. Risulta estremamente rara prima dei 10 anni, aumenta con il progredire della maturazione puberale, con un picco fra 13 e 14 anni nella fase medio avanzata della pubertà (stadio puberale di Tanner G3-G4).
Diagnosi
Usualmente il giovane paziente o i genitori riferiscono di aver notato il rigonfiamento in regione mammaria in una fase estremamente critica dello sviluppo puberale, pertanto giungono all’osservazione con molta ansia e preoccupazione.
Nella ginecomastia dell’adolescente l’iter diagnostico prevede il dosaggio di gonadotropine, T, E2, SHBG, PRL, TSH e fT4. Nel caso di una sostanziale normalità di questi dosaggi di primo livello, certamente non si può escludere la possibilità che i ragazzi con ginecomastia potrebbero presentare un più basso rapporto di delta4-androstenedione/E1 e DHEAS/E2, dovuto a un’aumentata aromatizzazione negli adolescenti obesi, quindi con una temporanea alterazione della conversione degli androgeni surrenalici ad estrogeni. Questa condizione potrebbe non essere rilevabile a livello sistemico, se si realizzasse temporaneamente solo a livello locale, con alterato rapporto tra gli effetti stimolatori degli estrogeni e quelli inibitori degli androgeni sul tessuto mammario.
L’obesità o il sovrappeso possono favorire la comparsa della ginecomastia, perché il tessuto adiposo della regione mammaria contiene l’enzima aromatasi, che converte T e delta-4 rispettivamente in E2 ed E1, ma la ginecomastia si può osservare anche in ragazzi normopeso e in rari casi anche sottopeso.
L’ecografia bilaterale della regione mammaria è uno strumento molto utile per valutare il volume della componente ghiandolare e del tessuto adiposo (tab. 1).
Tabella 1 Classificazione ecografica (5) |
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Tipo | Descrizione | Risposta alla terapia medica |
Florida | Iperplasia e proliferazione dei dotti, con aumento ed edema dello stroma | Buona |
Intermedia | Caratteristiche intermedie | |
Fibrosa | Fibrosi diffusa dello stroma | Scarsa/assente |
Ginecomastia patologica o secondaria
In epoca peri-puberale si può sviluppare una ginecomastia secondaria a patologie diverse, come l’ipogonadismo primario e secondario, in particolare la sindrome di Klinefelter, patologie epatiche croniche, tumori testicolari, ipertiroidismo e ipotiroidismo, alterazioni della differenziazione sessuale, e anche all’uso di alcuni farmaci e sostanze che possono aumentare la concentrazione di PRL.
In tutte le forme di ipogonadismo si assiste a un incremento del rapporto E2/T, che favorisce lo sviluppo della ginecomastia, la quale può anche rappresentare il sintomo di esordio. L’ipogonadismo primario è caratterizzato da una ridotta produzione di T, aumentati livelli di LH, con aumentata aromatizzazione del T ad E2. Per contro, nell’ipogonadismo secondario i ridotti livelli di T sono dovuti alla riduzione della secrezione di LH, in presenza di produzione di precursori degli estrogeni da parte del surrene (fig 1). Quindi, in entrambe le condizioni si verifica l’incremento del rapporto E2/T.
Figura 1. Ginecomastia e adipomastia in paziente di 16.4 anni con ipogonadismo ipogonadotropo
La sindrome di Klinefelter (KS) rappresenta la più comune anomalia cromosomica associata ad ipogonadismo. La prevalenza della ginecomastia in questi pazienti è compresa tra 50 e 70% nelle diverse casistiche e merita particolare attenzione del clinico, perché può permettere di sospettare l’alterazione cromosomica e anche per l’aumentato rischio di sviluppare un carcinoma mammario in questa patologia (6) (fig 2).
Figura 2. Ginecomastia in paziente con s. di Klinefelter di 15.2 anni
L’iperprolattinemia può essere implicata nella patogenesi della ginecomastia come causa secondaria di ipogonadismo. Tuttavia, nel tessuto mammario maschile sono stati trovati recettori per PRL (7), che possono essere co-espressi e cross-regolati con i recettori del GH e del progesterone (PGR). L’attivazione del PGR è spesso associata a una riduzione del recettore per gli androgeni (AR): ciò ostacola l’inibizione della crescita del tessuto mammario mediata dal T, che si osserva in condizioni di normale omeostasi ormonale. Di conseguenza, oltre che inducendo ipogonadismo, l’iperprolattinemia può favorire lo sviluppo di ginecomastia attraverso una via completamente differente: elevati livelli di PRL possono stimolare la crescita del tessuto mammario come risultato di eccessiva attivazione del PGR e ridotta disponibilità dell’AR.
La ginecomastia può essere anche il primo segno di un tumore testicolare. Tumori testicolari a cellule germinali inducono ginecomastia mediante l’incremento dei livelli di βhCG da parte della neoplasia (coriocarcinoma o foci di cellule trofoblastiche all’interno di un seminoma) (8). Gli alti livelli di βhCG che ne derivano, all’interno delle cellule di Leydig alterano l’attività enzimatica della 17-idrossilasi e incrementano l’attività dell’aromatasi testicolare, con incremento della conversione di T ad E2 (9). Infine, la ginecomastia si sviluppa anche nel 15% dei pazienti trattati con successo per neoplasia testicolare (orchiectomia, chemio/radioterapia): l’impatto che la chemioterapia e la radioterapia possono avere sul testicolo contro-laterale può determinare ipogonadismo secondario, che spesso si risolve spontaneamente nell’arco di un anno. Per contro, la ginecomastia può comparire nel 20-30% delle neoplasie testicolari non a cellule germinali. Il tumore a cellule di Leydig determina il diretto incremento della secrezione di estrogeni e/o l’incremento dell’attività dell’aromatasi testicolare. Anche i tumori a cellule di Sertoli sono associati allo sviluppo di ginecomastia e femminilizzazione, tramite l’aumento dell’attività dell’aromatasi testicolare.
La ginecomastia può comparire in adolescenti affetti da ipertiroidismo, per l’aumento di E2, SHBG e T. L’aumento dei livelli di LH è inoltre responsabile dell’aumentata aromatizzazione di T in E1-E2. Anche l’ipotiroidismo può favorire lo sviluppo di ginecomastia per l’aumentata secrezione di TRH e conseguentemente di PRL. Sia in ipertiroidismo che in ipotiroidismo, la ginecomastia può essere risolta ristabilendo lo stato di eutiroidismo.
Studi non recenti hanno permesso di dimostrare in adolescenti che sia l’aumento dei livelli di leptina che i polimorfismi nel suo recettore possono essere coinvolti nella patogenesi della ginecomastia: il metabolismo accelerato degli estrogeni e l'aumento della espressione dell’aromatasi sono stati identificati come fattori che inducono ginecomastia. Anche l'asse GH-IGF potrebbe avere un ruolo nella patogenesi di questa patologia (10).
C'è una solida evidenza che molti farmaci sono in grado di indurre ginecomastia (11). In epoca puberale si debbono ricordare rhGH, anti-psicotici, corticosteroidi, oppioidi e dopanti, che debbono essere attentamente ricercati nell’anamnesi di questi ragazzi (12,13).
Esame obiettivo locale
Il giovane paziente deve essere visitato in clino- e orto-statismo. Pur tenendo conto della classificazione di Rohrich (tab 2), riteniamo più semplice e riproducibile la misura del diametro medio della lesione mammaria di consistenza aumentata e granulosa indicativa del nucleo ghiandolare. Deve essere previsto un esame generale, con particolare attenzione a quello genitale, per valutare lo sviluppo puberale ed eventuali sospetti di ipogonadismo.
Tabella 2 Classificazione clinica (14) |
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Grado | Ipertrofia | Ptosi |
I | Minima (< 250 g) | No |
II | Moderata (250-500 g) | No |
III | Severa (> 500 g) | I grado |
IV | II-III grado |
Terapia
In linea generale la decisione di trattare la mammella dipende dalla scelta del paziente e dall’impatto che la patologia ha sulla sua qualità di vita.
Nei casi di ginecomastia fisiologica, dovuta spesso a uno squilibrio ormonale transitorio, non è necessario nessun trattamento: nell’adolescente la malattia può regredire spontaneamente nel giro di 12-18 mesi.
È importante cercare di identificare le forme secondarie e iatrogene. Nel caso in cui la ginecomastia non si risolva spontaneamente ed evolva verso quadri non più regredibili, si rende necessario il trattamento medico e/o chirurgico, che viene quindi riservato soltanto a una ristretta percentuale di pazienti adolescenti.
Ulteriori indicazioni a trattare sono le elevate dimensioni delle mammelle (> 4 cm) (fig 3) e/o la presenza di dolore mammario.
Figura 3. Paziente di 16.1 anni, obeso e ipotiroideo con ginecomastia
Una volta identificate e trattate le cause della ginecomastia, sono necessari alcuni mesi prima di assistere alla riduzione del volume mammario. Nei pazienti con ginecomastia dolorosa che non possono essere sottoposti ad intervento chirurgico e che non sono candidati ad altre terapie, può essere utile il trattamento con anti-estrogeni, come il tamoxifene (20 mg/die), in grado di ridurre il dolore e le dimensioni mammarie in più della metà dei pazienti. In studi su un limitato numero di pazienti il tamoxifene o il raloxifene, antagonisti del recettore degli estrogeni, hanno ridotto le dimensioni della ghiandola, anche se è poco frequente una regressione completa della ginecomastia. Poiché la base delle prove è attualmente bassa, la prescrizione di tamoxifene resta off-label e ciò deve essere attentamente spiegato ai pazienti (15). Anche gli inibitori dell'aromatasi possono essere efficaci, specie nelle fasi iniziali della malattia. In uno studio randomizzato su uomini con ginecomastia confermata, l’anastrozolo non si è però dimostrato più efficace del placebo nel ridurre le dimensioni mammarie (16).
Vanno inviati alla chirurgia tutti quegli adolescenti che mostrino/riferiscano importanti conseguenze sulla qualità di vita e accettazione della propria immagine corporea, in cui le terapie mediche non hanno permesso di ottenere risultati, anche di tipo estetico, accettabili per il giovane paziente. L’intervento di escissione del parenchima ghiandolare e del tessuto adiposo della regione mammaria, se eseguito da chirurgo con specifiche competenze, può permettere di ottenere risultati, sul piano estetico, molto interessanti e utili per i nostri adolescenti.
Figura 4. Ginecomastia in paziente di 17.3 anni, stadio puberale G5, con ipogonadismo primitivo ma valori di T nei limiti della norma ed aumento del rapporto E2/T
Figura 5. Esiti di intervento per ginecomastia bilaterale: evidenti le cicatrici peri-areolari
Bibliografia
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Varicocele nel bambino e nell'adolescente
Antonio Radicioni, Chiara Tarantino, Matteo Spaziani
SMID04 Diagnostica ormonale, Seminologia e Banca del seme
Azienda Policlinico Umberto I – Sapienza Università di Roma
(aggiornato al 15 gennaio 2020)
INTRODUZIONE
Si definisce varicocele, la dilatazione e la tortuosità delle vene del plesso pampiniforme, che hanno il compito di drenare il sangue dal testicolo.
La prevalenza del varicocele nell’adolescenza è di circa il 15-20% (1). Aumenta con l’inizio della pubertà, in funzione della rapida crescita della gonade maschile in tale fase (stadio G3 secondo Tanner): questo aumento volumetrico della gonade è accompagnato da un relativo aumento del flusso sanguigno arterioso, che determina un’aumentata necessità di drenaggio venoso a carico della vena spermatica interna. Laddove la vena non riesca a sopportare il carico sanguigno, andrà incontro a rigonfiamento e successiva dilatazione, con insufficienza valvolare e sovraccarico del plesso pampiniforme. Per ragioni di carattere anatomico, il varicocele è più frequente a sinistra.
Figura 1. Varicocele idiopatico: studio effettuato su 3748 studenti (scuola elementare N = 827; scuola media N = 2921) di età compresa tra 9 e 16 anni (Radicioni A. Idiopathic varicocele in adolescents. Min Ped 1998, 50: 261-7).
A sinistra: decremento della prevalenza del varicocele idiopatico nelle fasi terminali dello sviluppo puberale. A destra: grado di varicocele clinicamente rilevabile.
Diversi dati, ottenuti principalmente dalla popolazione adulta, suggeriscono un ruolo negativo del varicocele sulla funzione testicolare. Di conseguenza, nei pazienti con varicocele sono stati riportati risultati più scadenti, rispetto ai controlli sani, in termini di qualità del liquido seminale (LS) e di fertilità. Il trattamento del varicocele ha dimostrato di migliorare la qualità del LS e l'esito delle tecniche di riproduzione assistita.
L’alterazione delle cellule del Sertoli può influire negativamente sulla loro funzione di supporto alla spermatogenesi e quella delle cellule di Leydig sulla produzione di testosterone.
Le conseguenze del varicocele sulla funzione testicolare nell'infanzia e nell'adolescenza sono state studiate in misura minore rispetto all’età adulta, per la quale nell’ultimo decennio è stato raggiunto un consenso sulle condizioni che richiedono il trattamento. Le indicazioni per la correzione del varicocele nell’età adulta sono: infertilità associata ad alterazione dei parametri del LS, ipotrofia testicolare e dolore. Al contrario, diversi aspetti della gestione e del trattamento del varicocele nell'infanzia e nell'adolescenza sono poco definiti e ancora oggetto di dibattito. Gli adolescenti con varicocele sono molto eterogenei, a causa dei rapidi cambiamenti dei livelli ormonali e dello stadio di sviluppo puberale. Questo rende più difficile un approccio standard (2). La sfida attuale è quella di stabilire quale paziente deve essere trattato, quando e quale tipo di trattamento deve essere preferito.
PATOGENESI
Le prove raccolte nei bambini e negli adolescenti suggeriscono un impatto negativo del varicocele sulla funzione testicolare: anomalie del LS, ipotrofia testicolare e alterazioni ormonali. L’asimmetria testicolare > 10% impatta negativamente sul LS, diminuzioni ancora più significative si riscontrano laddove l’asimmetria superi il 20% (3).
Inoltre, rispetto ai controlli, nei pazienti con varicocele si riscontrano livelli più alti di FSH/LH e minori di inibina B. Questi risultati suggeriscono la presenza di una disfunzione delle cellule di Sertoli nei pazienti adolescenti con varicocele, poiché l'inibina B è secreta da queste cellule (4). Queste informazioni sono di particolare interesse per la valutazione della funzione testicolare nei pazienti giovani, quando i parametri dello sperma non possono essere valutati.
Indipendentemente dal grado clinico, il varicocele può determinare alterazioni della funzione testicolare tramite l’ipertermia testicolare, che ha un effetto deleterio sulla spermatogenesi, ma anche attraverso la stasi venosa, che favorisce l’ipossia testicolare e la sovrapproduzione delle specie reattive dell’ossigeno (5). In presenza di varicocele, la gonade va incontro a un’involuzione strutturale: diminuisce il volume e si modifica la consistenza. Si osserva una riduzione del numero e del trofismo delle cellule del Sertoli, delle cellule germinali e delle cellule del Leydig, aumenta la componente fibrosa del parenchima e si instaura un processo di sclerosi a livello dei capillari intra-testicolari, con relativa alterazione dei prodotti ormonali di tali cellule.
I fattori genetici hanno un ruolo nella patogenesi del varicocele, in quanto la prevalenza è più alta nei parenti di primo grado degli uomini con varicocele noto rispetto ai controlli e sembra anche esserci un coinvolgimento nella predisposizione del danno testicolare indotto dal varicocele.
PRESENTAZIONE CLINICA
Il varicocele è generalmente asintomatico, anche se si può manifestare con sensazione di gonfiore e fastidio a livello scrotale o dell’area inguinale (6). Se presenti, i sintomi tendono ad accentuarsi qualora venga mantenuta a lungo la posizione eretta o dopo intensa attività fisica. Nella maggior parte dei casi, il varicocele adolescenziale viene diagnosticato durante la visita medica di routine per la scuola o lo sport o tramite l’auto-palpazione testicolare.
L'esame clinico è il primo passo per la diagnosi del varicocele e consiste in ispezione e palpazione dello scroto. Deve essere eseguito in posizione supina ed eretta e in tale posizione al paziente andrebbe chiesto di eseguire la manovra di Valsalva, che permette di slatentizzare un varicocele subclinico. Il varicocele clinicamente evidente si presenta come un plesso venoso con la consistenza di un "sacco di vermi". La consistenza testicolare deve essere apprezzata e il volume valutato con l'orchidometro di Prader (7).
La classificazione clinica secondo Dubin e Amelar, generalmente accettata, prevede:
- grado I: palpabile, ma non visibile, solo durante la manovra di Valsalva;
- grado II: apprezzabile anche a riposo e senza la manovra di Valsalva;
- grado III: agevolmente rilevabile all'ispezione.
Figura 2. Varicocele sinistro di 3° grado in ragazzo di 13.4 anni in stadio G3P3: a sinistra in condizioni basali, a destra durante manovra di Valsalva
Figura 3 - Varicocele sinistro di 3° grado in ragazzo di 15.1 anni in stadio G5P4 con ipotrofia testicolare sinistra
DIAGNOSTICA
Ecocolor-doppler testicolare
L'ecografia scrotale è un esame che può essere richiesto per definire strumentalmente l'asimmetria testicolare, mediante il calcolo del volume testicolare utilizzando la formula dell’ellissoide (lunghezza x larghezza x spessore x 0.52) (8).
Gli ultrasuoni Doppler indicano efficacemente il grado di varicocele, fornendo informazioni sul diametro massimo della vena e sul flusso di picco retrogrado (PRF). In particolare, il varicocele è definito dalla presenza di vene multiple superiori a 3.0-3.5 mm, con concomitante flusso sanguigno retrogrado. Il reflusso è classificato come:
- grado I (breve): dura meno di 1 sec;
- grado II (intermedio): dura 1-2 sec, diminuisce durante la manovra di Valsalva e scompare completamente prima della fine della manovra;
- grado III (permanente): dura più di 2 sec e mostra un aspetto a plateau durante la manovra di Valsalva.
La scala di Sarteschi, che considera la gravità del varicocele, è composta da cinque gradi diversi e richiede la valutazione del paziente sia in clino- che in orto-statismo:
- quando non c’è reflusso basale siamo nei gradi I, II o III;
- se dopo la manovra di Valsalva si manifesta il varicocele abbiamo:
- I grado: le vene sono dilatate a livello del funicolo spermatico;
- II grado: le vene sono dilatate a livello del polo superiore del testicolo;
- III grado: le vene sono dilatate a livello del polo inferiore o raggiungono il fondo del sacco scrotale;
- quando si documenta un reflusso venoso basale continuo, siamo nel:
- IV grado: con un picco dopo Valsalva;
- V grado: la vena è talmente dilatata che non c’è un incremento del flusso.
Questi ultimi due gradi sono di interesse chirurgico.
Profilo ormonale
È controversa l’utilità di uno studio ormonale (nell'infanzia dosaggio di AMH e inibina B, nell'adolescenza LH, FSH e testosterone totale). Nonostante la mancanza di consenso, il profilo ormonale ci può dare molte informazioni su un’eventuale sofferenza della gonade maschile. In diversi studi sono stati riscontrati livelli elevati di FSH e LH e diminuiti di inibina B. L'AMH e l'inibina B, in particolare, possono essere utili in epoca pre-puberale, in un momento in cui l’esame del LS non può essere eseguito e i livelli di gonadotropine e testosterone non sono ancora diagnostici (4).
Seminologia
Non è stata dimostrata correlazione diretta tra il grado di varicocele e l’alterazione del LS. Una volta accertata la maturità psichica (mediante un colloquio attento e modulato con il giovane paziente) e quella fisica (stadio puberale G4-G5), l'analisi del LS è un esame di fondamentale importanza, tenendo presente che i parametri seminali raggiungono il picco qualitativo fra 18 e 22 anni di età. Peraltro, nei pazienti di 15-18 anni con varicocele è possibile documentare un decremento qualitativo e quantitativo sia della concentrazione che della motilità e della morfologia seminale, più evidente in quelli con una franca asimmetria testicolare (≥ 20%) (3).
GESTIONE
La gestione del varicocele è ancora controversa. In effetti nelle fasi terminali della maturazione puberale è possibile osservare un compenso spontaneo, con decremento del grado clinico e strumentale del varicocele. Questo suggerirebbe che il trattamento chirurgico non è sempre necessario, perché in alcuni casi possiamo seguire una strategia conservativa, con monitoraggio e follow-up (7).
I pazienti con asimmetria testicolare del 20% o dolore testicolare usualmente vengono inviati al trattamento chirurgico. Tuttavia, nell'85% degli adolescenti con un recupero dell'asimmetria testicolare > 15%, la crescita avviene senza alcun intervento (9). Quindi, potrebbe essere utile effettuare 2 o 3 misurazioni del volume testicolare in tempi successivi, per poi inviare il giovane al chirurgo per la correzione laddove permanga una dismetria significativa (10).
I pazienti "a rischio", che meritano di essere presi in considerazione per l'intervento, sono quelli che presentano i seguenti segni e sintomi (11):
- parametri spermatici anormali persistenti, senza alcuna prova di recupero dopo la sorveglianza;
- dolore locale a riposo e/o durante l’attività fisica;
- asimmetria del volume testicolare persistentemente alterata, con una differenza > 15-20% senza alcun recupero documentabile in corso di sorveglianza;
- PRF > 38 cm/sec.
Il trattamento di correzione del varicocele può migliorare i parametri del LS e quindi prevenire condizioni di eventuale ipo-fertilità futura. Nelle indicazioni al paziente o ai genitori bisognerebbe comunque precisare che non sempre si assiste a un significativo recupero della volumetria testicolare e/o dei parametri seminali, anche se usualmente l’intervento eseguito in epoca peri-puberale permette di ottenere i migliori risultati.
Una volta presa la decisione di intervenire, tenendo conto di tutti i parametri sopra riportati, possiamo optare per due tipologie di intervento.
- Intervento chirurgico, che può essere di diverse tipologie:
- legatura delle vene spermatiche interne a livello retro-peritoneale (intervento di Palomo, con chirurgia tradizionale o laparoscopica);
- legatura a livello inguinale (intervento di Ivanissevich);
- legature micro-chirurgiche sotto-inguinali o inguinali.
- Sclero-embolizzazione percutanea, anche in questo caso con diverse possibilità:
- sclerosi retrograda con accesso trans-femorale o trans-brachiale;
- sclerosi anterograda con incannulamento anterogrado di una o più vene del plesso pampiniforme;
- sclerosi antero/retrograda, con associazione delle due tecniche precedenti.
Ad oggi non abbiamo ancora prove conclusive sulla superiorità di un intervento rispetto a un altro (12).
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Comportamenti a rischio nell'adolescenza
Giuseppe Raiola*, Massimo Barreca*, Maria Concetta Galati^
*UO di Pediatria & ^UO Oncoematologia Pediatrica, Azienda Ospedaliera Pugliese-Ciaccio (CZ)
Introduzione
L’adolescenza (1) è quella fase del ciclo di vita umana in cui si verifica la transizione dallo stato di bambino a quello di adulto. Si tratta di un periodo piuttosto lungo, mutevole da individuo a individuo e da cultura a cultura, di profonde trasformazioni, non solo fisiche, durante il quale i giovani possono trovarsi a sperimentare acuti momenti di inadeguatezza, di scarsa fiducia in sé e di incertezza. In questa fase della vita si intensifica, inoltre, l’affermazione della propria indipendenza e il bisogno di ampliare i confini del proprio spazio di vita, assieme alla curiosità di sperimentare nuovi stili di comportamento, anche ricercando esperienze avventurose e a volte rischiose.
Nei paragrafi che seguono si analizzeranno i principali comportamenti a rischio, vecchi e nuovi, che maggiormente impattano sulla vita futura dei nostri ragazzi.
Alimentazione
Se tornassimo indietro di cinquant'anni, il fenomeno dell'obesità in adolescenza sarebbe talmente marginale da non destare alcuna attenzione, né preoccupazione. Anzi, quando allora ci si trovava di fronte a un adolescente in sovrappeso, l'impressione era quella di fare un incontro ravvicinato con la salute (2,3).
Oggi questo stato di cose è mutato radicalmente e nella popolazione occidentale è stata impressionante la crescita dell'obesità. Si stima che in Italia vi siano più di quattro milioni di persone obese e che un adolescente su due abbia problemi di sovrappeso (1,4,5).
Sempre più frequentemente gli adolescenti mangiano troppo, con incremento di sovrappeso/obesità, o troppo poco, con disturbi che variano dal semplice “dieting” all’anoressia nervosa (6). Gli adolescenti comunque troppo spesso mangiano male (1,7) e, non infrequentemente, utilizzano il cibo sia come strumento auto-lesivo che di socializzazione. In effetti, in adolescenza il corpo rappresenta lo specchio di un processo evolutivo psico-somatico e anche un importante elemento di relazione con l’ambiente esterno. In questa epoca può quindi facilmente verificarsi un’insoddisfazione per il proprio corpo e per la propria immagine, che risultano alla base degli alterati comportamenti alimentari. Tale situazione è oggi accentuata dai media (8), che propongono modelli standardizzati di bellezza, in cui è dominante da un lato l’ideale della donna alta e magra, dall’altro quello dell’uomo alto, aitante e muscoloso. Questa esasperata enfatizzazione della linea e della forma non trasmette messaggi positivi ai fini di una sana alimentazione e di una corretta attività motoria, rischiando di indurre, in uno status psicologico particolarmente vulnerabile come quello degli adolescenti, comportamenti alimentari incongrui, a volte nevrotici. Questo è favorito anche dall'“inganno” dei prodotti pubblicizzati, usualmente ipercalorici o nutrizionalmente squilibrati, ma consumati nei media da interpreti con perfette silhouette, caratterizzazione “positiva” e spesso praticanti scarsa attività fisica. Di conseguenza, si vedono sempre più frequentemente giovani che si sottopongono a diete nutrizionalmente scorrette, a volte associate a un eccesso di attività fisica (anche in ambienti dove il rischio doping è particolarmente presente), a volte a inattività. Inoltre, sebbene per gli adolescenti il cibo possa rappresentare un importante “momento” di socializzazione, si tratta quasi sempre di alimenti consumati nei fast-food e nei pub, anche questi caratterizzati da un eccesso di calorie, grassi saturi, colesterolo, sale, zucchero e una scarsa quantità di fibre, vitamine e sali minerali (1).
Alcol
Il consumo di alcol rappresenta un importante problema di salute pubblica, risultando responsabile in Europa del 3.8% di tutte le morti e del 4.6% degli anni di vita persi a causa di disabilità (4,8).
Esso può avere un effetto negativo su diversi aspetti della qualità di vita, danneggiando la salute, la felicità, la vita familiare, le amicizie, lo studio, il lavoro e/o le opportunità di lavoro e, conseguentemente, la situazione finanziaria (9). Inoltre, il consumo di sostanze alcoliche si associa spesso al consumo di sostanze stupefacenti, induce problemi di comportamento, scadenti performance scolastiche, anche legate a fenomeni di maggiore assenteismo, condotte sessuali a rischio, interferendo con la normale transizione dall’età adolescenziale a quella adulta. Anche se l’Italia è stata uno dei primi Paesi che è riuscito a ridurre significativamente i consumi alcolici, il consumo pro capite di alcol puro ha raggiunto, nella popolazione adulta di età > 15 anni, 6.1 litri/anno nel 2010 (5,10) (dato ufficiale disponibile più recente). Nel nostro Paese si identificano circa 8.000.000 di individui a rischio di età > 11 anni (circa 6.200.000 maschi e 1.900.000 femmine). Nel 2012, il 53.5% dei ragazzi e il 41.1% delle ragazze di età compresa tra 11 e 25 anni ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno; tra i ragazzi si mantiene pressoché stabile il valore negli ultimi anni, confermando quindi la riduzione registrata rispetto agli anni 2003-2009; tra le ragazze non si registrano variazioni significative rispetto alle ultime rilevazioni, sebbene il valore sia diminuito rispetto al 2003 (9). La prevalenza dei consumatori più elevata tra i ragazzi di sesso maschile si registra per la birra, con quasi un ragazzo su due che ha dichiarato di averne consumato nel corso dell’anno (46.8%) seguita dagli aperitivi alcolici (37.3%). Circa un ragazzo su tre e una ragazza su quattro dichiarano di aver consumato bevande alcoliche lontano dai pasti nel corso dell’anno; le percentuali risultano più basse tra coloro che hanno dichiarato di aver praticato il binge drinking (comunemente indicato come un consumo eccessivo episodico concentrato in un arco ristretto di tempo di bevande alcoliche di qualsiasi tipo in modo consecutivo). Fenomeni in aumento sono l’alcolpops e l’happy hour. Per quanto riguarda il primo, si tratta di bevande a basso tenore alcolico (5-6%), dal colore invitante, dal sapore dolce e gradevole, presentate come “trasgressive”, caratteristica che le rende ricercate dai giovani. Date le loro caratteristiche organolettiche, può non essere percepita la quantità reale di alcol assunto, con possibile intossicazione acuta e/o induzione di dipendenza. In Italia, in un’indagine del 2011 (10), quasi tre su quattro studenti (77%) hanno dichiarato che è “abbastanza facile” o “molto facile” entrare in possesso di birra o di alcolpops e i valori registrati nel nostro Paese sono superiori a quelli medi europei che hanno partecipato a tale indagine (73% e 63% rispettivamente). Il rito dell’happy hour raffigura invece il fenomeno commerciale per definizione, rivolto a garantire quantità di alcol maggiori di quelle che normalmente si richiederebbero al di fuori di tale contesto e rappresenta l’occasione principale per bere alcolici per il 17.4% dei teen-ager.
A decorrere dal 2012 è stato introdotto il divieto di vendita di bevande alcoliche ai minori di anni 18, multato con la sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1000 Euro. Il divieto vale anche per le attività di somministrazione come bar, pub, ristoranti, locali da ballo e simili (11). Tuttavia (12), nella classe di età al di sotto dell’età legale per la vendita e la somministrazione di bevande alcoliche (11-17 anni), il 22% dei ragazzi e il 17.3% delle ragazze dichiara di aver bevuto almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno. Tra i ragazzi, il 7.5% dichiara di aver bevuto vino, il 16.8% birra, il 12.4% aperitivi alcolici, il 5.9% amari e il 7.4% superalcolici; tra le ragazze, le prevalenze sono più elevate per aperitivi alcolici (11.6%) e birra (10.5%).
L’alcol è una sostanza psicotropa capace di indurre dipendenza: il 15% dei soggetti alcol-dipendenti ha sperimentato la sua prima dipendenza prima dei 18 anni, il 47% prima dei 21 e circa 2/3 prima dei 25 anni (13). Inoltre, i soggetti con più precoce alcol-dipendenza sperimentano ricadute “croniche” e soprattutto richiedono più tardivamente un intervento terapeutico rispetto a quelli con dipendenza esordita in età più avanzata (14). La riduzione dei danni causati dall’alcol è una delle più importanti azioni di salute che gli stati dovrebbero favorire per migliorare la qualità della vita, attraverso un’efficace azione di educazione, informazione e prevenzione, erudendo i giovani sui possibili effetti negativi sullo stato di salute del consumo occasionale o abituale di alcol (9). Questa attività di prevenzione dovrebbe cercare di salvaguardare gli adolescenti anche dalle pressioni mediatiche; il consumo d’alcol, infatti, viene proposto come parte normale, integrante e appagante della vita quotidiana, propagandando in maniera diretta o occulta il concetto del bere, incoraggiandone, di fatto, l’utilizzo. Inoltre, nell’attuale società (15), come in quella passata, all’alcol – e ai locali dove viene commercializzato – viene conferita una funzione di socializzazione, di rafforzamento dei gruppi e dei rituali collettivi. Così bar, birrerie, osterie, circoli ricreativi vengono identificati quali luoghi privilegiati dove viene sviluppata e mantenuta la solidarietà tra gli individui; luoghi dove i ragazzi ricercano, e a volte trovano, quell’atmosfera che può, purtroppo, mancare all’interno delle famiglie, favorendone la frequentazione.
Fumo di sigaretta
I fumatori sono circa 650 milioni nel mondo. Secondo l’OMS, il fumo è “la prima causa di morte facilmente evitabile”, responsabile ogni anno della morte di 5 milioni di persone in tutto il mondo per cancro, malattie cardio-vascolari e respiratorie (5,16). Il numero è peraltro destinato ad arrivare a 10 milioni entro il 2030 (20), se non saranno adottate misure efficaci. Nell’Unione Europea si stima che fumino 4.5 milioni di persone e che ogni anno vi siano 650mila decessi correlati al fumo.
Da un’indagine del 2014 condotta per conto dell’Istituto Superiore di Sanità (17) si evince che in Italia sono fumatori 11.3 milioni di persone, il 22% della popolazione: 6.2 milioni di uomini (25.4%) e 5.1 milioni di donne (18.9%). Gli ex fumatori sono 6.6 milioni (il 12.8%): 4.6 milioni di uomini e 2 milioni di donne. Per la prima volta dal 2009 si osserva un aumento della prevalenza di fumatrici, che passano dal 15.3% del 2013 al 18.9% del 2014. Viceversa si osserva un lieve ma costante decremento della prevalenza di fumatori, che passano dal 26.2% al 25.4%.
Si inizia a fumare mediamente a 17.8 anni, con un gap di un anno e 4 mesi tra uomini e donne (17.2 gli uomini, 18.6 le donne). Oltre il 72.5% dei fumatori ha iniziato a fumare tra i 15 e i 20 anni e il 13.2% anche prima dei 15 anni. L’inizio dell’abitudine al fumo di sigaretta è il frutto di un complesso processo comportamentale individuale (9,17), ambientale e sociale, mentre solo raramente è riconducibile a un singolo evento. Il giovane emula il fumatore (17), adulto e pari (16), per sentirsi “grande” e parte integrata di un gruppo sociale (rito di iniziazione) e per affermare la propria personalità. Fin dagli anni ‘60 la scuola è stata considerata il luogo più idoneo a diffondere informazioni sulla salute; ma è anche vero che molti giovani iniziano a fumare proprio in ambiente scolastico, stimolati dall’esempio dei coetanei e purtroppo, a volte, anche degli insegnanti.
L’uso della sigaretta elettronica si è più che dimezzato nel 2014 (18). Gli utilizzatori sono passati dal 4.2% del 2013 all’1.6% del 2014. Il fenomeno non sembra riguardare attualmente l’età adolescenziale. Gli utilizzatori della e-cig hanno mediamente 42 anni e sono soprattutto uomini (66%). Questo prodotto viene consumato principalmente da giovani adulti e adulti, poiché l’84.4% dei consumatori ha età compresa tra i 25 e 64 anni.
Sebbene in Italia sia presente il divieto per la pubblicità diretta delle sigarette (10) (Legge n. 165 del 10/04/62), è tuttavia possibile quella indiretta (7) (sponsorizzazioni di eventi sportivi, eventi culturali e utilizzo del marchio di sigarette per linee di abbigliamento sportivo), che rappresenta un ulteriore fattore di stimolo per l’inizio di questa abitudine.
Droghe
Dal punto di vista epidemiologico, il numero dei decessi droga-correlati (5,19), in diminuzione dal 1997, dopo il picco del 1996, ha registrato, nel 2002, rispetto all'anno precedente, un netto decremento del 60%, passando da 822 a 516. Non sono noti casi di decesso per overdose in minori di 15 anni e solo una minoranza riguarda la fascia 15-19 anni. Questo dipende probabilmente anche dal fatto che i decessi sono in larga prevalenza dovuti all’utilizzo di eroina, che risulta attualmente la droga meno utilizzata dagli adolescenti.
La sostanza maggiormente utilizzata dagli adolescenti rimane la cannabis (20,21), di cui circa 1/3 degli studenti delle scuole superiori ha fatto uso almeno una volta nella vita e circa 1/4 nell’ultimo anno. Il confronto (22) tra i consumi riferiti tra il 2000 e il 2006/2007 dimostra che questi rimangono sostanzialmente stabili per le varie sostanze, ad eccezione dell’eroina che ha mostrato un consistente calo (23); l’uso delle varie droghe è di maggiore appannaggio del sesso maschile, anche se nei soggetti più giovani vi è la tendenza a consumi analoghi tra i due sessi. I dati epidemiologici mostrano inoltre che, con l’età, il consumo dei vari tipi di droga aumenta progressivamente e vi è una tendenza alla sperimentazione di più sostanze, soprattutto nei consumatori abituali, tanto che il policonsumo è aumentato di circa il 60% tra il 2000 e il 2005 e nel 2007 il 12% degli studenti che hanno fatto uso di droghe illegali ha utilizzato due sostanze e un altro 12% tre sostanze (18).
In età adolescenziale l’uso delle droghe può essere occasionale (il cosiddetto sballo) o abituale. La prima modalità di assunzione deriva dal fatto che molti giovani (circa il 20%) non considerano pericoloso, ad esempio, l’uso ricreativo e moderato dei cannabinoidi, ritenendolo compatibile con gli impegni quotidiani (scuola, lavoro, attività sportiva, relazioni familiari e sociali), e ne ritiene dannoso solo l’utilizzo esagerato (35%). Negli anni, si è assistito al diffondersi crescente di varietà di prodotti di cannabis disponibili (20). Le foglie di cannabis, che possono essere una sostanza ad alto potere stupefacente, svolgono ora un ruolo più importante, cui si associa la recente comparsa dei prodotti sintetici simili alla cannabis.
Le prime sostanze sperimentate dai giovani sono legali, tabacco e/o alcol, poi si aggiungono le droghe illegali. Un aspetto emergente è rappresentato dai cosiddetti smart-shops (10), negozi specializzati nella vendita di particolari prodotti erboristici, diversi per origine o formulazione ma con marchio CE, chiamati genericamente smart-drugs. Si tratta di una serie di composti, sia di origine vegetale che sintetica, che contengono vitamine e principi attivi di estratti vegetali, tra cui i più diffusi sono l’efedrina, la caffeina, la taurina, ma anche sostanze con caratteristiche allucinogene. Negli smart-shops vengono inoltre venduti accessori destinati ad ottimizzare l’effetto derivato dall’assunzione di sostanze legali ed illegali, come cartine, filtri, pipe, bong, vaporizzatori. L’espressione “droghe furbe” sembrerebbe prendere origine dal fatto che queste sostanze non sono perseguite o perseguibili dalla legge, in quanto non presenti, come tali o come principi attivi in esse contenuti, nelle tabelle legislative che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Il mercato odierno delle droghe sembra più fluido e dinamico, oltre che meno articolato intorno alle sostanze a base vegetale trasportate su lunghe distanze fino ai mercati di consumo europei. Internet pone sfide sempre più ardue (24), sia come meccanismo che favorisce la veloce diffusione di nuove tendenze sia come mercato anonimo in rapida crescita su scala mondiale. La rete crea una nuova interconnessione, sia nel consumo sia nell’offerta di droga, ma offre anche l’occasione di trovare strumenti innovativi di intervento per il trattamento, la prevenzione e la riduzione dei danni (24,25).
Comportamenti sessuali a rischio
L’adolescenza è il periodo della vita in cui, di regola, inizia l’attività sessuale e con essa il rischio di contrarre e diffondere malattie a trasmissione sessuale (MST) o di andare incontro a gravidanze indesiderate (1,19).
Le MST sono un problema di particolare rilevanza per l’età adolescenziale. Ogni anno nel mondo (5,18,22) si diagnosticano 333 milioni nuovi casi di MST (escluso HIV), un terzo dei quali riguarda soggetti di età < 25 anni; ogni anno un adolescente su 20 contrae una MST curabile (senza considerare le infezioni virali) e 1 su 4 di età compresa tra 13 e 19 anni contrae una MST dopo un rapporto sessuale (22). Più della metà delle nuove infezioni da HIV interessano giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (26). Purtroppo i dati disponibili sono molto eterogenei e probabilmente sottostimati. In Italia (5,19,22,26), le informazioni disponibili sulla diffusione nazionale delle MST provengono dai dati riportati dal Ministero della Salute (26), che sono limitati alle sole malattie a notifica obbligatoria, cioè gonorrea, sifilide e pediculosi del pube. Non sono invece disponibili i dati sulla diffusione nazionale di altre MST che non sono a notifica obbligatoria, quali, ad esempio, le patologie genitali provocate da Chlamydia trachomatis, Trichomonas vaginalis, HSV-1 e 2 e HPV. La distribuzione per sesso dimostra una lieve prevalenza per quello maschile (51.7%), nel 92.5% si tratta di individui eterosessuali e nel 21% di soggetti non italiani (22,27).
Gli adolescenti contraggono più frequentemente patologie virali o caratterizzate da scarsa sintomatologia, come cerviciti da Chlamydia e vaginiti aspecifiche, ma anche patologie meno frequenti tra gli adulti, come la gonorrea (27). La diffusione delle MST è influenzata da numerosi fattori: giovane età d’inizio dell’attività sessuale, partner sessuali multipli, rapporti omosessuali, basso livello socio-economico, appartenenza a minoranze etniche, disinformazione sul rischio del contagio sessuale, non utilizzo di metodi contraccettivi di barriera, concomitante uso di alcol o sostanze stupefacenti, presenza di fattori immunologici e maturativi dell’apparato riproduttivo.
L’altro aspetto legato all’inizio dei rapporti sessuali è quello della procreazione responsabile. In Italia, l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG, Legge 194 del 22 maggio 1978) ha mostrato una netta tendenza in discrescita, tuttavia ogni anno nel nostro Paese si contano tra le minorenni circa 10.000 parti e 4000 IVG eseguite in strutture pubbliche. Ad ogni modo, il tasso di abortività in Italia tra le donne con età < 20 anni rimane tra i più bassi in Europa (5,19).
Questi dati, rilevati anche in aree territorialmente omogenee, sottolineano la necessità di un miglioramento delle strategie preventive per quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti sessuali degli adolescenti (28). Le metodologie utilizzate non hanno, infatti, pienamente raggiunto il loro scopo, anche per una probabile inadeguatezza delle modalità di comunicazione tra le agenzie educative e il mondo giovanile.
Tatuaggi e piercing
Tatuaggi e piercing sono conosciuti da molto tempo (29). Nelle diverse epoche, vari simboli o disegni hanno assunto significati religiosi, sociali, etnici e simbolici. In ciascuna cultura il tatuaggio aveva uno specifico valore e veniva considerato segno di riti di iniziazione, di riti magici, simbolo di regalità o rango, di coraggio e valore militare o di appartenenza a un’etnia, ceto o gruppo religioso, e anche strumento di seduzione o talismano. Dagli anni ’70, nei Paesi più industrializzati, il tatuaggio compare, soprattutto tra i giovani, anche tra coloro che appartenevano a movimenti culturali alternativi e di contro-cultura (beatnik, hippy, punk, skinhead). È tuttavia nelle ultime due decadi che la pratica si è allargata a tutte le classi di popolazione, particolarmente tra i giovani, gli appartenenti allo star system e gli atleti (30).
Da dati recenti, risulta che negli USA il 24% della popolazione ha almeno un tatuaggio, il 10-20% in Germania e il 20% degli adulti in Italia. Non è stata rilevata una significativa differenza tra i sessi, ma i tatuaggi sono risultati maggiormente presenti negli studenti di sesso maschile praticanti attività agonistica rispetto ai non atleti (30). Uno studio svizzero (31) del 2007 condotto su oltre 7000 adolescenti ha dimostrato la presenza di almeno un piercing in oltre il 20% dei ragazzi tra 16 e 20 anni, con una netta prevalenza per il sesso femminile (ragazze 33.8% vs. ragazzi 7.4%).
In alcuni casi il ricorso agli ornamenti corporei può rappresentare una vera e propria pratica auto-lesiva, con possibili complicanze secondarie. Per il piercing (31) è stata riportata un’incidenza di complicanze mediche pari al 17% (sanguinamento, trauma tissutale e infezioni batteriche; queste ultime soprattutto nel piercing dell’ombelico), mentre non sono state riscontrate complicanze mediche secondarie alla pratica del tatuaggio, sebbene sia stata raccomandata la necessità di eseguire nei soggetti con piercing o tatuaggi un follow-up che comprendesse la sorveglianza sierologica.
Tatuaggi o piercing si associano inoltre a una maggiore predisposizione ad assumere comportamenti a rischio (29,32) (disturbi del comportamento alimentare, uso di droghe leggere e pesanti, condotta sessuale a rischio e suicidio); in particolare, è stato riscontrato un maggior grado di comportamenti violenti nei maschi con tatuaggi e in femmine con piercing. Il consumo di droghe cosiddette “leggere” è risultato associato sia ai tatuaggi che ai piercing nei soggetti più giovani, mentre il consumo di droghe “pesanti” aumenta con l’incremento del numero di piercing (32). Un maggiore rischio di suicidio è stato osservato nei soggetti con tatuaggi o piercing sin dall’età più giovane: in generale questo rischio sembra essere maggiormente presente nelle ragazze con tatuaggi. La presenza di tatuaggi e piercing in adolescenti non indica necessariamente l’assunzione di comportamenti a rischio, anche se deve allertare i genitori, gli insegnanti e i medici, che devono assicurare migliori misure preventive e il rilievo obiettivo di ornamenti corporei deve rappresentare un’opportunità per iniziare con l’adolescente una discussione su possibili rischi comportamentali.
Incidenti stradali e trauma cranico
Gli incidenti, soprattutto stradali, rappresentano una delle principali cause di morte, in particolare nel sesso maschile e nella fascia di età 10-14 anni e 20-24 anni, mentre sono di gran lunga la causa principale tra i 15 e i 19 anni (5,11,19). Gli incidenti stradali rappresentano un problema di assoluta priorità per la sanità pubblica nel mondo, per l’alto numero di morti e di invalidità permanenti e temporanee. Agli enormi costi sociali e umani, si aggiungono quindi anche elevati costi economici, che rendono la questione della sicurezza stradale un argomento di enorme importanza per i dipartimenti di prevenzione e i sistemi sanitari di tutti i Paesi. I dati dell’OMS (18) confermano che questo problema planetario è di non facile risoluzione e deve impegnare istituzioni diverse, in primo luogo quelle di tipo governativo anche mediante l’emanazione di regole che aumentino la sicurezza attiva e passiva.
Spesso questa evenienza è causata da comportamenti a rischio, come guida in stato di ebrezza o sotto l’azione di droga, mancato utilizzo di mezzi di protezione (casco, cinture), mancato rispetto dei limiti di velocità, gare con moto ed auto, ecc. Il coinvolgimento dei pediatri (33) in progetti di prevenzione degli incidenti in età pediatrica sta probabilmente portando a un miglioramento della situazione, almeno per le fasce più giovani.
Un’importante causa di morbilità in età adolescenziale conseguente agli incidenti è rappresentato dal trauma cranico (TC), che si configura oggi come uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Negli Stati Uniti, l’incidenza annuale è intorno a 200 casi per 100.000 abitanti; di questi almeno il 10% sono fatali e il 20-40% di gravità moderata o severa. La causa principale è rappresentata dagli incidenti stradali e il TC viene considerato il principale killer e la prima causa di disabilità in età pediatrico-adolescenziale: lo subiscono circa 2 milioni di persone ogni anno e comporta lesioni gravi con residua invalidità in circa 80.000 americani. In Europa (34) è stata indicata un’incidenza intorno a 235/100.000 abitanti/anno, ma con consistenti variazioni tra i vari Paesi. In Italia (19,22), i ricoveri per TC sono 300-500/100.000 abitanti/anno, quindi con un’incidenza simile a quella riportata in altri paesi europei; il rapporto maschi/femmine è pari a 16/1 e l’età di massima incidenza è tra i 10 e i 30 anni. Il TC è spesso correlato all’abuso di alcol. Ne possono conseguire gravi danni cerebrali, con deficit motori e sensoriali, che compromettono in maniera devastante la qualità di vita, soprattutto di un adolescente. Un aspetto spesso misconosciuto è rappresentato dal fatto che molti TC possono danneggiare le strutture ipotalamiche-ipofisarie, causando un quadro di ipopituitarismo (35-38). Nel 35-50% dei soggetti con TC è stato riscontrato un singolo deficit neuroendocrino: la più frequente anomalia è il deficit di ormone della crescita (50%), seguito dai deficit delle altre tropine ipofisarie (TSH 40%, ACTH 30%, FSH 30%, LH 20%). La valutazione in fase acuta non è in grado di predire l’evoluzione a distanza. Il deficit di ACTH è particolarmente insidioso, in quanto di non facile individuazione. Tutti i ragazzi con dato anamnestico di trauma cranico da modesto a grave andrebbero pertanto tenuti sotto osservazione per quanto riguarda la funzione neuroendocrina.
Bullismo
Il bullismo costituisce oggi, nel mondo occidentale, un fenomeno di estrema rilevanza etico-sociale (39,40). Uno studio epidemiologico su larga scala (41) ha osservato come, negli Stati Uniti, il 30% dei bambini (classi 6-10 e 11-15 anni) abbia avuto a che fare con atti di bullismo: le vittime (quelle che subiscono soltanto) sono l’11%, i bulli (coloro che vittimizzano) il 13%, i bully-victims (soggetti che sono sia vittima che bullo) il 6%. Un altro studio condotto in 40 paesi, tra cui Turchia, Israele e Nord America, ha rilevato che dall’8.6 al 45.2% dei ragazzi (11-15 anni) sono stati coinvolti in atti di bullismo. Diversi studi nelle scuole hanno osservato come essere vittima di bullismo possa associarsi con il rischio di comportamenti suicidari ed è ormai dimostrata l'associazione tra vittimizzazione da bullismo durante l'infanzia o l'adolescenza e disturbi mentali e del comportamento in età adulta.
Il bullismo non può considerarsi un fenomeno nuovo, ma ne sono certamente nuove la dimensione (quantitativa) e la perversità (qualitativa) troppo spesso raggiunte: la cronaca è piena di esempi (atti di teppismo-vandalismo, violenze-aggressioni sessuali e non, turbolenze esasperate negli stadi e fuori da essi, malvagità e violenza psicologiche su soggetti deboli, stupri di gruppo, ecc.), che sfiorano veri e propri atti di criminalità (42,43). Alikasifoglu et al (41) hanno tentato di quantificare il fenomeno, esaminando i comportamenti di bullismo in un ampio campione di adolescenti (n = 3519, maschi 50.5%, femmine 49.5%; età 16.4 ± 1.1 anni), mettendo in evidenza che:
- il 22% del campione era stato vittima di atti di bullismo, con una percentuale più alta nei maschi (26.4%) rispetto alle femmine (17.5%);
- una percentuale quasi uguale di soggetti è risultata bullo (9.3%, di cui maschi 12.2% e femmine 6.1%) o bullo e vittima contemporaneamente (9.5%, di cui maschi 13.5% e femmine 5.3%);
- il 59% degli adolescenti non era stato oggetto di bullismo né aveva compiuto atti di bullismo (maschi 49%, femmine 71%);
- i bulli hanno più facilmente presentato altri comportamenti a rischio, come guardare la TV per più di 4 ore/giorno, non usare i sistemi di sicurezza alla guida di motoveicoli, adottare comportamenti violenti, assenteismo scolastico. Inoltre, sia i bulli che i bulli/vittime più facilmente fumavano, bevevano alcol e si ubriacavano, risultavano sessualmente attivi e dedicavano un tempo eccessivo ai videogiochi;
- le vittime sono più facilmente ragazzi di più basso livello socio-economico e con difficoltà ad instaurare relazioni con i coetanei.
Inoltre, comportamenti di bullismo possono essere predittivi di disturbi psichiatrici in età adulta (42).
Altro fenomeno dilagante (si stima intorno al 34% di tutti i casi di bullismo,) e, per certi versi, ancora incontrollabile è il cyber-bullismo (40,44). Nelle mani dei bulli, anche i social network diventano armi micidiali. In generale, il fatto di comunicare online, senza guardare l’altro negli occhi, scatena un effetto di disinibizione che può spingere a dire cose che non ci saremmo mai sognati di dire nell’interazione faccia a faccia. Per i bulli i social media sono delle vere e proprie bombe con cui devastare l’auto-stima della vittima, ad esempio aprendo su Facebook un gruppo che la denigra. Negli ultimi tempi si è inoltre assistito alla creazione di social e siti internet con il solo scopo denigratorio. Nancy Willard (44,45) propone le seguenti categorie di cyberbullismo:
- flaming: messaggi online violenti e volgari mirati a suscitare battaglie verbali in un forum;
- molestie (harassment): spedizione ripetuta di messaggi insultanti mirati a ferire qualcuno;
- denigrazione: sparlare di qualcuno per danneggiare gratuitamente e con cattiveria la sua reputazione, via e-mail, messaggistica istantanea, gruppi su social network, ecc;
- sostituzione di persona (impersonation): farsi passare per un'altra persona per spedire messaggi o pubblicare testi reprensibili;
- rivelazioni (exposure): pubblicare informazioni private e/o imbarazzanti su un'altra persona;
- inganno (trickery): ottenere la fiducia di qualcuno con l'inganno, per poi pubblicare o condividere con altri via mezzi elettronici le informazioni confidate;
- esclusione: escludere deliberatamente una persona da un gruppo online per provocare in essa un sentimento di emarginazione;
- cyber-persecuzione (cyberstalking): molestie e denigrazioni ripetute e minacciose, mirate a incutere paura.
Per cercare di arginare questo fenomeno, risulta indispensabile una collaborazione tra istituzioni diverse, in particolare tra famiglia e scuola (39,40). Genitori affetti da “insufficienza sociale” hanno, infatti, notoriamente colpa grave delle attività aberranti dei figli e del degrado morale di questi. Opporsi alle prime e al secondo, in famiglia e nella scuola, con il sostegno delle autorità impegnate nel sociale, ma anche dei pediatri, “socialmente sensibili”, contribuirebbe alla civiltà dei comportamenti, che è un bene di tutti e che tutti devono responsabilmente difendere.
Social network
L’avvento di internet e l’uso che le persone ne hanno fatto nel corso degli anni, lo hanno reso un compagno onnipresente nelle vite di gran parte di noi. La tecnologia si adatta e segue questo trend: non solo computer portatili sempre più maneggevoli, ma ora anche smartphone e tablet garantiscono l’accesso al web ovunque ci troviamo. È possibile usufruirne comodamente da casa o in ufficio o a scuola.
Il primo grande merito dei social network è indubbiamente quello di aver facilitato la comunicazione: basta avere la connessione a Internet per parlare in tempo reale con persone dall’altra parte del globo, grazie alle webcam addirittura vederne il volto. I social network rappresentano un aggregatore di persone che cercano e vogliono mantenere contatti con vecchi e nuovi amici, condividendo foto, video e contenuti della propria vita.
Quasi la totalità degli adolescenti (5,10), il 95.7%, utilizza internet quotidianamente, il 16% naviga nel web > 4 ore/die e l’85% dei giovani tra 12 e 19 anni possiede un profilo Facebook (nel 2008 la diffusione di Facebook è stata così esponenziale da posizionare l'Italia al primo posto della classifica mondiale dei paesi con maggiore percentuale di incremento utenti). Tra gli adolescenti dai 12 anni ai 18 anni, invece, circa il 40% naviga > 2 h/giorno, mentre il 47% trascorre lo stesso tempo davanti ai videogiochi. C’è chi ha misurato il tempo dedicato giornalmente “ai monitor”: se sommiamo il tempo trascorso ogni giorno con computer, internet, cellulari e tv arriviamo a una media di 8-9 ore al giorno passate con uno schermo. Rimane spesso poco tempo per dedicarsi ad attività rilassanti e curare le relazioni personali. Il rischio di ammalarsi di video-dipendenza e tecno-stress è concreto (10).
La dipendenza dai social network sembra essere dovuta al forte senso di sicurezza, di personalità e di socialità (in una società sempre meno connotata dai contatti sociali) che tali siti sono in grado di fornire. L'assuefazione ai social network potrebbe essere causata dalla socialità che questi siti sono in grado di fornire grazie alle loro infinite applicazioni. Come le altre dipendenze, porta le proprie conseguenze e i propri problemi. Quelli più riscontrati sono emicrania (l’effetto più diffuso), tachicardia e ipersudorazione. Purtroppo questa dipendenza si sta diffondendo a macchia d’olio. Ansia, depressione, stress sono decisamente dei fattori predittivi.
Sexting e sextortion
La parola “sexting” si è recentemente diffusa (10) e viene utilizzata per indicare un comportamento molto di moda tra gli adolescenti: scambio di foto o video sessualmente espliciti o comunque inerenti la sessualità, spesso realizzati con il cellulare e diffusi tramite MMS o condivisi su Internet tramite chat, e-mail, blog o social network. L’origine di questo termine è dato dall’unione delle parole inglesi “sex” (sesso) e “texting” (inviare testi). Scattarsi una foto in posa provocante, magari senza vestiti, e inviarla al proprio “fidanzato” è un esempio di quello di cui stiamo parlando.
Può sembrare divertente ed eccitante inviare foto sexy a un/a attuale fidanzato/a, ma cosa succede se la relazione finisce? Un/a ex fidanzato/a, dopo che ci si è lasciati, magari in rapporti non rimasti buoni, potrebbe volersi vendicare e diffondere su internet le foto sexy ricevute. Una volta che le immagini sono in circolazione online, diventano di tutti, lasciano un’“impronta digitale” che non è più controllabile e recuperabile. Oltre ai problemi per la reputazione della persona ritratta nella foto o nel video, non bisogna dimenticare che il sexting può avere serie conseguenze anche sul piano legale (10), in quanto per la legge italiana il sexting rientra in ciò che si chiama “produzione e distribuzione di materiale pedo-pornografico”.
Il termine “sextortion”, deriva dall’unione delle parole inglesi “sex” ed “extortion” (estorsione). Il reato di estorsione prevede che qualcuno obblighi una persona a fare qualcosa contro la propria volontà, per ricavarne dei benefici. In questo caso, chi compie il reato costringe la vittima a inviare foto/messaggi/video con un contenuto sessualmente esplicito. Alcuni ragazzi possono essere costretti a fare sexting dal proprio partner per mantenere viva la loro relazione. A volte, però, le relazioni si interrompono, e può capitare che quelle foto vengano divulgate per vendetta o per gioco. Altri ragazzi possono essere ricattati e costretti a condividere loro foto in pose ammiccanti o in scatti di nudo perché minacciati da coetanei. Da un’indagine Eurispes/Telefono Azzurro (10), nel 2012 oltre un adolescente su 4 ha raccontato di aver ricevuto SMS/MMS o video a contenuto sessuale. A inviare questo materiale sono soprattutto gli amici (38.6%), il partner (27.1%) o sconosciuti (22.7%). Il 59.2% ha detto di essersi divertito o che gli ha fatto piacere riceverli, un adolescente su 6 è invece rimasto indifferente; al 20% delle ragazze, però, ha dato fastidio. Il 12.3% degli adolescenti ha ammesso di aver inviato questo tipo di immagini (nel 2011 ce lo aveva detto il 6.7%). Tra questi, il 41.9% non vede cosa ci sia di male nell’averlo fatto, l’11% ha detto di voler fare uno scherzo, il 16.1% ha detto di averlo fatto con il proprio partner, di cui si fida. Al 20.5% dei ragazzi, infine, è capitato di trovare online proprie foto imbarazzanti, all’11.1% video spiacevoli che li ritraevano.
Gioco d'azzardo
La crisi economica nel nostro paese non tocca il settore del gioco d’azzardo, che risulta essere un fenomeno in crescita, anche tra i più giovani (4,19). Il gioco d'azzardo (o gambling) consiste nello scommettere denaro sul futuro esito di un evento. Secondo la legge italiana, il gioco d’azzardo è consentito solo ai maggiori di 18 anni, che possono praticarlo in luoghi autorizzati. Anche le scommesse sul web hanno limiti di accesso: essendo illegali per i minori di 18 anni, richiedono registrazione anagrafica e la disponibilità di una carta di credito.
Secondo recenti rilevazioni Eurispes (10) il 12% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni punta i propri soldi online, mentre il 27% li gioca offline. Il gioco in denaro non riguarda solamente il mondo del web, dal momento che il 33.7% dei bambini ha dichiara che il “Gratta e Vinci” è il gioco preferito. Per quanto riguarda il gioco on-line, dai dati dell’ultima Indagine sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia (Telefono Azzurro ed Eurispes, 2012), è emerso che all’interno del 12% degli adolescenti che si dichiarano giocatori, il 2.5% gioca spesso, il 3.4% qualche volta, il 6.1% raramente. Dati più consistenti emergono sul gioco off-line (dai videopoker alle slot machine, a cui i ragazzi hanno accesso in sale giochi, tabaccai, edicole o bar): del 27% dei giocatori tra i 12 e i 18 anni, il 4.6% gioca spesso, il 10.4% qualche volta e il 12% raramente. Sembra esserci una maggiore propensione al gioco d’azzardo nei maschi rispetto alle femmine, per entrambe le modalità (on-line e off-line), mentre le regioni d’Italia dove il fenomeno sembra essere più diffuso sono quelle del Centro Italia. I giochi d’azzardo che attraggono maggiormente i ragazzi sono le scommesse sportive (44%), mentre il poker Texas Hold’em attrae quasi un adolescente su tre.
Alla domanda “Qual è stato il motivo principale che ti ha spinto a giocare?”, il 31.6% dei ragazzi intervistati dichiara di farlo “per puro divertimento”, il 23.9% è stimolato dalla possibilità di vincere denaro, mentre la pubblicità ha influenzato solo il 10%; l’8.2% infine, gioca per emulare amici e parenti.
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Disturbi del comportamento alimentare
Classificazione ed epidemiologia dei disturbi del comportamento alimentare
Simonetta Marucci
ASL1 Perugia, Residenza DCA Todi
I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) rappresentano una patologia con andamento francamente epidemico e nella loro diffusione si osserva sempre più una costante modificazione delle caratteristiche psico-patologiche. Le diverse forme in cui si declinano i DCA sembrano interpretare perfettamente un disagio diffuso legato ai modelli di vita occidentali.
La variabilità delle forme cliniche in cui si esprimono i DCA rende estremamente difficoltoso il loro inquadramento nosografico e quadri classici di patologie descritte solo pochi anni fa, quali Anoressia e Bulimia Nervosa, non si adattano più a ciò che osserviamo oggi, mentre compaiono forme prima sconosciute, come DCA maschili, Bigoressia, Ortoressia e disturbi infantili con espressioni sempre più severe. Esiste poi una variabilità della patologia anche nel singolo paziente, con una vera e propria migrazione da un sintomo all’altro nell’arco della storia clinica del soggetto (1). Secondo i dati che emergono da numerosi studi, circa il 50% dei soggetti anoressici manifesta sintomi anche bulimici e soggetti con Bulimia Nervosa hanno sofferto di Anoressia nel 25-35% dei casi (2). Inoltre, oggi non si osserva quasi più la classica forma “astinente” dell’Anoressia, caratterizzata esclusivamente dal digiuno, ma si sono innestati in essa alcuni comportamenti tipici del versante bulimico, mentre nell’ambito della Bulimia prevalgono spesso il normopeso e l’evoluzione verso forme multi-compulsive con auto-lesionismo e abuso di alcool e droghe.
Nel nuovo DSM V è stato inserito il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge eating disorder) che era precedentemente inquadrato tra i DCA non Altrimenti Specificati e che sta suscitando un interesse crescente per i suoi legami, importanti, con l'obesità (3).
Tra Anoressia e Bulimia, le principali forme conosciute di DCA, troviamo una serie di manifestazioni cliniche intermedie, a volte atipiche, che differiscono dai disturbi principali non tanto sul piano qualitativo, quanto su quello quantitativo, in relazione alla severità del quadro clinico (4). Questa estrema variabilità fenomenologica dei DCA nel tempo rende molto difficoltosa una loro classificazione e alcuni autori sostengono che non è poi così utile fare una distinzione tra le varie forme cliniche, dal momento che tutte condividono una stessa base psico-patologica, e la terapia stessa non si differenzia in maniera sostanziale. La recente pubblicazione del DSM V, il Manuale Diagnostico delle Malattie Mentali sulle categorie diagnostiche dei DCA ha visto una lunga discussione, al termine della quale ha prevalso la scelta di semplificare la classificazione precedentemente in vigore (DSM IV, APA 2000), ampliando i criteri diagnostici a situazioni meno conclamate, permettendo così di eliminare, di fatto, gli EDNOS (Eating Disorders non Otherwise Specificated), che erano arrivati paradossalmente a costituire quasi la metà dei DCA, mettendo in crisi, con la loro aspecificità, lo stesso concetto di classificazione. Questa revisione ha permesso di inquadrare nosograficamente situazioni cliniche precedentemente non considerate, soprattutto quelle relative alla fascia di età infantile e pre-adolescenziale, oltre ai DCA maschili drammaticamente in aumento.
Per quanto riguarda l’Anoressia Nervosa, resta, tra i criteri diagnostici, il mantenimento volontario di un peso basso in relazione all’età ed al sesso, con un’intensa ideazione su peso e forme corporee; si definiscono due sottotipi, Restrittivo e con Abbuffate e Condotte di Eliminazione, e si stabilisce una scala di gravità basata sul BMI.
La novità, oltre alla minore rigidità dei criteri diagnostici, è stata l’esclusione da essi dell’amenorrea, poiché il mestruo, che può a volte essere presente in soggetti che presentano tutti i sintomi dell’AN, non può essere utilizzato come criterio in soggetti che assumano anti-concezionali, in adolescenti prima del menarca, in donne in menopausa e nei maschi.
Per i criteri diagnostici della Bulimia Nervosa si è abbassata la frequenza degli episodi bulimici, da due a una volta alla settimana, e si è eliminata la distinzione “purging/non purging”, poiché il secondo rientra nel BED (Binge Eating Disorder) (5).
L’aumentata incidenza di DCA in età evolutiva ha indotto a considerare tra le categorie diagnostiche anche il Pica (ingestione persistente di sostanze non nutritive e non commestibili), il Disturbo da Ruminazione (rigurgito ripetuto di cibo che viene poi rimasticato e ingerito o sputato) ed il Disturbo dell’Alimentazione Evitante-Restrittivo (apparente mancanza di interesse per il cibo, evitamento basato su elementi sensoriali, preoccupazione per conseguenze spiacevoli legate all’ingestione di alimenti).
Altri disordini alimentari della prima infanzia sono il Disturbo emotivo da evitamento del cibo (FAED: Food Avoidance Emotional Disorder), caratterizzato da rifiuto del cibo legato spesso a ossessioni e fobie con perdita di peso, l’Alimentazione Selettiva, in cui il bambino non ha perdita di peso e cresce normalmente, ma tende a selezionare solo pochi alimenti, con conseguente disadattamento e disagio, fino all’evitamento di situazioni di socializzazione, la Disfagia Funzionale, con difficoltà a deglutire e paura di vomitare e soffocare, e la Sindrome da Rifiuto Pervasivo, interpretata come forma estrema di disturbo post-traumatico. Tutti questi disturbi sono caratterizzati da comportamento alimentare patologico ma senza l’ideazione sulle forme corporee.
Accanto a queste situazioni, riscontrabili prevalentemente nella prima infanzia, si osservano oggi sempre più frequentemente, nei bambini e pre-adolescenti, forme cliniche caratterizzate da alterazioni del comportamento alimentare tipiche, fino a non molto tempo fa, solo dell’adolescente e dell’adulto. Anche l’obesità infantile, attualmente in preoccupante espansione, rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di un DCA, anche per il fatto che, soprattutto nelle femmine, si diffonde un’insoddisfazione per il corpo che porta poi a diete incongrue.
In realtà si sta abbassando progressivamente l’età di esordio dei DCA, con una prevalenza, per Anoressia e Bulimia, pari all’1% in età pediatrica (6), con un quadro clinico quasi del tutto simile a quello del giovane adulto, ma con conseguenze ben più gravi sul piano organico, in termini di accrescimento ed equilibrio ormonale (7), soprattutto quando non si riesce a diagnosticare e intervenire tempestivamente. In bambine prepuberi, infatti, non essendo valutabili le anomalie del ciclo mestruale ed essendo la riduzione di peso non confrontabile con i parametri fissati per gli adulti, è difficile arrivare a una diagnosi di DCA. Questo porta, spesso, a sottostimare la vera portata epidemiologica del fenomeno. In Italia, i dati forniti dal Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, aggiornati al 2006, indicano una prevalenza di AN dello 0.2-0.8% e della BN dell’1-5%: queste percentuali corrispondono a circa 3 milioni di giovani. Nel nostro Paese non sono stati condotti molti studi epidemiologici, ma i dati forniti da quelli disponibili confermano i trend degli altri paesi. Uno studio del 2003 (8), condotto su un campione di 934 giovani donne tra i 18 e i 25 anni, rivela una prevalenza complessiva lifetime dei DCA intorno al 5.3%, suddivisi in 2% per la AN e 4.6% per la BN. Lo stesso studio si occupa anche di valutare la prevalenza dei disturbi sotto-soglia, rilevando un 2.6% per la AN ed un 3.1% per la BN, mettendo l’accento sull’importanza di non trascurare le situazioni subcliniche. Un altro studio condotto nel 2006 (9) su 2355 soggetti di età > 14 anni ha rilevato una prevalenza lifetime dello 0.42% per AN, 0.32% per BN, 0.32% per DAI (Disturbo da Alimentazione Incontrollata) e 0.32% per Disturbi non Altrimenti Specificati. Le differenze tra i due studi sono riferibili all’età del campione osservato: nel primo studio era più circoscritta (18-25 anni), mentre nel secondo non era previsto un limite massimo.
Questo permette di fare una riflessione: se noi dovessimo valutare il dato statistico della incidenza e prevalenza dei DCA nella popolazione generale, avremmo la sensazione di non trovarci di fronte ad un problema di grande rilevanza epidemiologica, ma se andiamo a restringere il campo di ricerca nella fascia di età adolescenziale/giovanile, il dato acquista le dimensioni di un vero e proprio allarme sanitario.
Un’altra considerazione va fatta sulla coincidenza dei dati epidemiologici a livello internazionale: la cultura occidentale appare il denominatore comune, assumendo il ruolo, addirittura, di fattore di rischio.
Altro dato importante da sottolineare riguarda il sesso maschile, dove la prevalenza risulta dello 0.24%. Sul dato della distribuzione per genere, pesa però il fatto che, alla maggiore difficoltà diagnostica, si aggiunge il problema che i maschi sono più resistenti nel rivolgersi ai servizi. Solo 20 anni fa l’incidenza dei DCA nei maschi era in rapporto di 1:10 con le femmine, mentre oggi si calcola che sia arrivato a 1:4 per AN e BN mentre è solo di 3:4 per il BED (1). Nei maschi l’ossessione per le forme corporee si esprime maggiormente, a differenza dell’idea di magrezza delle femmine, attraverso una ricerca dell’aumento della massa muscolare (Reverse Anorexia), con l’esercizio fisico praticato anche per diverse ore al giorno, fino a compromettere gravemente il funzionamento sociale (11). Per quanto riguarda l’incidenza dei DCA, essa risulta essere di 102 casi/100.000 per AN e 438 casi/100.000 per BN (12), confermando l’incremento di quest’ultima negli anni.
Rispetto ai dati di outcome a 5 anni, l’AN ha una possibilità di evoluzione verso la guarigione nel 66.8%, mentre nella BN essa è solamente del 45%. Quelli che non guariscono, evolvono verso altre forme o verso la cronicizzazione. Da sottolineare l’elevata mortalità, soprattutto nell’AN, sia per cause mediche che per suicidio.
Il quadro epidemiologico allarmante richiama l’attenzione della comunità scientifica e dei clinici sull’importanza della diagnosi precoce e sull’appropriatezza dei percorsi terapeutici, ma anche sui fattori di rischio culturali e sociali sui quali occorre agire con interventi di prevenzione, che coinvolgano non solo gli operatori sanitari ma anche la famiglia, la scuola, il mondo dello sport e i mass media.
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Inquadramento diagnostico dei disturbi del comportamento alimentare
Simonetta Marucci
ASL1 Perugia, Residenza DCA Todi
Il momento più importante e “delicato” di tutto il percorso terapeutico è quello dell’inquadramento diagnostico (1), poichè da esso dovrà derivare un progetto di cura ispirato a criteri di appropriatezza ed efficacia. Questa fase si attua, solitamente, a livello ambulatoriale e ha una durata variabile da 1 a 4 settimane, necessarie per una valutazione clinica, nutrizionale e psicologica, da cui deriverà una diagnosi (di stato) riguardo al disturbo alimentare e a eventuali comorbilità cliniche e psichiatriche, che permetterà di individuare il livello di trattamento più adeguato, per quel paziente in quel momento. In caso di minorenni la valutazione deve essere estesa necessariamente alla famiglia, mentre, nel caso di adulti, il coinvolgimento della famiglia o del partner è consigliabile, ma da valutare caso per caso.
La motivazione al trattamento è fondamentale ma, allo stato attuale, non abbiamo strumenti standardizzati per valutarla. La diagnosi è multidisciplinare e condivisa tra i vari professionisti (2): il medico psichiatra, il medico internista e/o nutrizionista e/o endocrinologo, lo psicologo clinico e il dietista/nutrizionista. È determinante che l’integrazione dei due livelli, internistico e psicologico, venga garantita fin dalla fase iniziale.
Valutazione internistica
La valutazione clinico–anamnestica deve comprendere anche la “storia” del peso e del comportamento alimentare, la valutazione dello stato nutrizionale, della condotta alimentare e della spesa energetica.
L’esame obiettivo potrà rivelare ipertrofia delle parotidi, erosioni dello smalto dentale, callosità sul dorso delle dita (segno di Russel), indicativi di frequente vomito auto-indotto.
Gli esami ematochimici e strumentali necessari per una adeguata valutazione della compromissione a livello organico, conseguente al disordine nutrizionale, sono:
- per tutte le patologie: esame delle urine, emocromo completo con formula leucocitaria, glicemia, test per la funzionalità epatica, assetto lipidico, creatininemia, azotemia, BMI, PA e FC, bioimpedenziometria;
- per pazienti con basso peso corporeo: elettroliti serici, ECG + eventuale ecocardio, amilasemia, creatininemia, ormoni tiroidei, analisi delle urine, pre-albumina, MOC;
- per pazienti con abbuffate e comportamenti di compenso: elettroliti sierici, amilasemia, creatininemia, ormoni tiroidei, gastroscopia;
- per pazienti obesi affetti da BED: misurazione circonferenza addominale, valutazione cardiaca, uricemia.
Valutazione nutrizionale
La valutazione dello stato nutrizionale comprende inizialmente il calcolo del BMI, la rilevazione delle misure antropometriche e un esame bioimpedenziometrico, nonché la già citata rilevazione della storia del peso corporeo, indagando sulle eventuali correlazioni tra oscillazioni importanti del peso ed eventi autobiografici.
La valutazione della condotta alimentare dovrà riguardare le abitudini alimentari, in relazione a eventi di significato emozionale, le caratteristiche quantitative ma anche qualitative della strutturazione del pasto, l’esistenza di comportamenti disfunzionali (dieta ferrea, iperattività fisica, abbuffate, eccessiva assunzione di liquidi finalizzata all’induzione di vomito o a falsare il peso, quando sottoposto a verifica), la presenza di condotte di compenso (vomito auto-indotto, lassativi, diuretici, anoressizzanti, ormoni, …), ossessione per il cibo e le forme corporee.
Valutazione psico-patologica e psico-diagnostica
In considerazione delle particolari caratteristiche psico-patologiche e di complessità del disturbo, appare fondamentale l’importanza del primo contatto con il paziente e di tutta la fase di valutazione per stabilire una buona relazione terapeutica, per cui il terapeuta deve modulare il suo intervento con la cautela e la sensibilità necessarie. In questa fase, oltre alla valutazione psico-diagnostica, attraverso specifici test, si pongono le basi per la costruzione di una motivazione al trattamento. I principali test utilizzati sono:
- EAT–40 – Eating Attitudes Test (Garner & Garfinkel) nella versione italiana validata da M. Cuzzolaro e A. Petrilli nel 1988 (3);
- EDE 12.OD – Eating Disorders Examination (Fairburn & Cooper) nella versione italiana validata da V. Ricca e E. Mannucci (4);
- SCID – Structured Clinical Interview for DSM IV (First), Intervista strutturata dal DSM IV – Ed. italiana (5).
In età adolescenziale e pre-adolescenziale sono necessari strumenti psico-diagnostici specifici, tra i quali quelli maggiormente condivisi sono:
- EDE – Eating Disorder Examination, per la valutazione dei tratti comportamentali e psicologici legati ai DCA (Fairburn & Cooper);
- CBCL – Child behavior Checklist, per la valutazione della sintomatologia psico-patologica e della comorbilità psichiatrica (Achenbach)(6);
- K–SADS – Kiddie Schedule for Affective Disorder and Schizoprhenia, per la valutazione della sintomatologia psico-patologica e della comorbilità psichiatrica (Kaufman)(7);
- CAPS – Child Adolescent Perfectionism Scale, per la valutazione del perfezionismo quale fattore predittivo di DCA (Flett)(8);
- PBI – Parental Bonding Index, per la valutazione delle caratteristiche dell’interazione genitore–figlio dalla prospettiva del minore (Parker)(9);
- ECI – Experience of Caregiving Inventory, per la valutazione di alcuni fattori stressanti, riconducibili alle caratteristiche del bambino, a quelle del genitore e ad eventi situazionali–demografici dalla prospettiva dei genitori (Joyce)(10).
Tali strumenti permettono di valutare tratti comportamentali e psicologici legati ai DCA, come ad esempio l’impulso alla magrezza, l’insoddisfazione per il corpo, la tendenza al perfezionismo, l’insicurezza inter-personale, la disregolazione emotiva. Poiché la famiglia rappresenta una risorsa e un elemento integrante nella cura di queste patologie, è importante prendere in considerazione anche la prospettiva dei genitori, verificando l’eventuale presenza di alcuni fattori stressanti, riconducibili alle caratteristiche del bambino, a quelle del genitore e ad eventi situazionali–demografici, e rilevando il loro bisogno di sostegno, il senso di fallimento, la misura in cui il disagio del figlio influenza l’intera famiglia, e individuando i problemi riscontrati con i servizi sanitari.
All’interno del percorso di valutazione è necessario, quindi, garantire almeno un incontro tra la famiglia (e/o il partner) e lo psichiatra o lo psicologo che si occupa specificamente dei problemi familiari per l’esplorazione delle dinamiche familiari, soprattutto per i minori e per i pazienti che convivono con la famiglia (11).
Nel caso di pazienti adulte con un legame stabile, la valutazione prenderà in considerazione anche la relazione di coppia, per verificare da un lato l’eventuale funzione protettiva del sintomo, dall’altro le risorse che il partner può mettere a disposizione nel processo di guarigione.
La valutazione interdisciplinare permette all’equipe dei terapeuti di avere degli elementi utili, sia clinici che di compliance, per la scelta del setting di trattamento più appropriato per il paziente nello stato in cui la valutazione viene fatta.
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Approccio terapeutico ai disturbi del comportamento alimentare
Simonetta Marucci
ASL1 Perugia, Residenza DCA Todi
La terapia dei Disturbi del Comportamento Alimentare deve necessariamente articolarsi in diversi livelli di trattamento (1,2), tra loro non sovrapponibili né, viceversa, disarticolati, che devono rappresentare la risposta più idonea e appropriata sulla base delle valutazioni dell’equipe: regime ambulatoriale, regime riabilitativo, regime di ricovero ospedaliero (acuzie). A seconda dei cambiamenti che si presentano durante il percorso terapeutico, il paziente può transitare da un livello all’altro.
Regime ambulatoriale
L’ambulatorio rappresenta il primo filtro e nel 60% dei casi è in grado di seguire il paziente fino alla guarigione, attuando il programma terapeutico senza modificare l’assetto di vita del soggetto. Questo setting terapeutico è rivolto a pazienti in condizioni fisiche e psicologiche sufficientemente stabili da non richiedere un monitoraggio quotidiano, e qualora esista una buona motivazione al trattamento.
L’approccio terapeutico ambulatoriale ai DCA deve prevedere in tutti i casi l’utilizzazione combinata e contemporanea del trattamento nutrizionale e psico-terapeutico rivolto al paziente e un eventuale trattamento di supporto o terapeutico per i familiari. L’approccio più efficace risulta quello psico-biologico, mentre non risulta efficace nel trattamento dei DCA l’approccio dietetico tradizionale. Buoni risultati ha ottenuto anche il Training di Familiarizzazione con il cibo in tutte le patologie, qualora la condizione clinico/nutrizionale/psicologica del paziente lo consenta. La durata ottimale della riabilitazione psico–nutrizionale in regime ambulatoriale è rispettivamente:
- AN: 12–18 mesi
- BN: 8–12 mesi
- DAI: 18–24 mesi.
Regime residenziale e semi-residenziale (residenza e DH – la dicitura fa riferimento alla semi-residenzialità o centro diurno e non al DH ospedaliero)
Per i soggetti che non rispondono al trattamento ambulatoriale, soprattutto per bassa motivazione, scarso funzionamento sociale e comportamenti disfunzionali difficilmente controllabili in ambito familiare, un periodo riabilitativo in strutture residenziali o semi-residenziali, con l’obiettivo di riacquisire le abilità compromesse dalla patologia, determina la più alta percentuale di successi terapeutici. La terapia residenziale può anche essere il proseguimento di una degenza ospedaliera effettuata per problemi acuti, e costituisce una valida alternativa alla permanenza prolungata in ospedale.
Uno dei criteri di accesso a questo livello di trattamento è che il BMI dei pazienti sia > 13.5 kg/m2 nel caso di AN e < 45 kg/m2 nel caso di BED. È necessario che le condizioni mediche siano stabili e non ci sia necessità di cure mediche intensive.
Il regime residenziale è particolarmente adatto anche nelle situazioni in cui vi sia la necessità di separare il paziente dal contesto familiare, quando questo funzioni da rinforzo e mantenimento della patologia, e in casi in cui sia necessario un contenimento di comportamenti disfunzionali, quali vomito auto-indotto e auto-lesionismo.
Il regime semi-residenziale può essere attuato come prima istanza terapeutica oppure come prosecuzione del trattamento ambulatoriale, ospedaliero e residenziale. Viene indicato nei casi in cui il paziente, pur non rispondendo al trattamento ambulatoriale, abbia una discreta motivazione e un soddisfacente controllo sui comportamenti psico-patologici, oltre a un ambiente familiare con maggiori capacità di aiutare il paziente nel suo percorso.
Regime di ricovero ospedaliero
Tale livello, chiamato anche “presidio salva-vita”, deve essere utilizzato quando ci sia una seria compromissione delle condizioni cliniche del paziente.
In questa fase l’obiettivo prioritario non è quello riabilitativo, ma quello di correggere le alterazioni elettrolitiche, nutrizionali e metaboliche e di ripristinare le condizioni psico–fisiche del paziente, al fine di permettere, prima possibile, la prosecuzione dell’iter terapeutico presso un altro livello di trattamento. L’unità di ricovero ospedaliero di tipo medico deve avere caratteristiche di alta specializzazione e deve essere abilitata al trattamento acuto e alla ri-alimentazione dei pazienti con DCA. È dimostrato che i pazienti trattati in unità di ricovero ospedaliero specializzate hanno una prognosi migliore dei pazienti trattati in unità ospedaliere senza esperienza specifica (3).
La decisione del ricovero è comunque traumatica per il paziente e per la famiglia e deve pertanto essere gestita con grande attenzione. Il ricovero dovrebbe essere effettuato a una distanza ragionevole dal luogo di residenza, in modo da consentire il coinvolgimento dei familiari, il mantenimento dei legami sociali e lavorativi, ed evitare quanto più possibile le difficoltà della transizione tra livelli diversi di trattamento (2). I criteri di accesso per il ricovero sono sostanzialmente medici: stato nutrizionale, condizioni cardio-circolatorie e metaboliche del paziente, dati di laboratorio indicanti una situazione ad alto rischio quoad vitam, presenza di gravi complicazioni mediche, come il diabete, compromissioni epatiche, renali, cardio-vascolari che richiedano un trattamento in acuto.
Gli interventi appropriati in regime ospedaliero per i pazienti anoressici sono:
- valutazione delle complicanze cliniche: esami emato-biochimici, ecocardio (con particolare attenzione al prolasso mitralico), Rx torace, ECG, MOC, ecografia addominale;
- refeeding tramite nutrizione artificiale: enterale, tramite sondino nasogastrico (SNG) o gastrostomia endoscopica percutanea (PEG), o parenterale, tramite catetere venoso centrale o periferico (4);
- pasti assistiti;
- integrazioni idro-elettrolitiche (sodio, potassio, cloro, calcio);
- supporto psicologico/psichiatrico.
Il cambiamento di setting
ll passaggio da un livello di trattamento a un altro, in assenza di una sequenzialità obbligatoria, costituisce la normalità all’interno di un percorso di cura che può durare anche svariati anni, e si rende necessario nella direzione di una maggiore intensità terapeutica, quando manca la risposta al trattamento in atto, oppure all’opposto, qualora le condizioni del paziente siano migliorate. La gestione di questa fase da parte dell’equipe è molto importante, perché esiste un alto rischio di destabilizzazione del paziente con drop-out. Per facilitare la transizione del paziente tra i vari spazi di cura è necessario attuare e mantenere la realizzazione di una rete assistenziale integrata, dove i quattro livelli assistenziali possano coesistere nella stessa unità strutturale, garantendo una continuità. Un trattamento sanitario obbligatorio, contro la volontà del paziente, è raramente necessario, ma diventa inevitabile in relazione alla presenza di grave rischio per la vita dello stesso.
Trattamenti psicologici
Quelli indicati dalla letteratura per il trattamento di AN, BN e DAI comprendono:
- colloquio motivazionale;
- psicoterapia analitica;
- CAT (terapia cognitivo–analitica);
- IPT (psicoterapia inter-personale)
- CBT (terapia cognitivo-comportamentale)(5);
- terapia individuale;
- terapia familiare (6);
- evidence-based self–help programmes.
Il trattamento di tipo psicologico, vista la frequente comorbilità psichiatrica, deve tenere conto di eventuali psico-patologie associate.
Trattamenti farmacologici
Attualmente, in Italia come in molti altri Stati, sono pochi i farmaci con l’indicazione per il trattamento dei disturbi alimentari (7). In particolare, se vogliamo considerare l’indicazione specifica, possiamo dire che non esistono psicofarmaci per AN e DAI, mentre solo la fluoxetina ha l’indicazione ufficiale per BN (8). Nonostante le incerte basi razionali, gli psicofarmaci sono largamente utilizzati con funzione ausiliaria nella terapia dei DCA (9). In quest’ottica il razionale del farmaco viene individuato nella comorbilità psichiatrica e in alcune dimensioni bersaglio.
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