Anatomia e fisiologia dell'organo adiposo
Anatomia e istologia dell'organo adiposo
Francesco Cavagnini
Istituto Auxologico Italiano, Università di Milano
Considerato fino a pochi anni or sono un semplice serbatoio di energia depositata in forma di trigliceridi, il tessuto adiposo è stato recentemente riconosciuto come un organo distinto, l’organo adiposo. Concepito dapprima come tessuto senza un’architettura specifica, a struttura e distribuzione diffusa, questo tessuto si è rivelato costituito da due tipi di cellule adipose con specifiche caratteristiche morfo-funzionali, dotato di una struttura ben definita e provvisto di una distribuzione peculiare.
Istologicamente, vi si riconoscono due tipi di cellule.
- Gli adipociti bianchi sono sferici, occupati da un unico vacuolo di grasso che sospinge alla periferia il nucleo e il citoplasma, ridotto ad una sottile rima, con mitocondri dotati di poche creste. Rappresentano una riserva energetica: mentre in caso di sovra-alimentazione si ingrossano accumulando trigliceridi, in caso di carenza alimentare provvedono ad ossidare i trigliceridi con produzione di energia (ATP), riducendo quindi le loro dimensioni.
- Gli adipociti bruni sono più piccoli dei precedenti, poligonali, con nucleo centrale circondato da numerosi piccoli vacuoli di grasso e abbondante citoplasma ricco di mitocondri con molte creste laminari. Tali cellule sono in stretto contatto con vasi sanguigni e fibre nervose adrenergiche. Grazie alla presenza nei mitocondri di una proteina (UCP-1, uncoupling protein1) in grado di disaccoppiare e quindi rendere inefficace la fosforilazione ossidativa, gli adipociti bruni hanno una funzione opposta ai precedenti: anziché conservare e produrre al bisogno energia in forma di ATP, la disperdono sotto forma di calore. In questo modo assicurano l’omeostasi termica dell’organismo in caso di abbassamento della temperatura ambientale oppure aumentano il dispendio energetico in caso di sovra-alimentazione. Questo processo biochimico è innescato da una stimolazione adrenergica, con liberazione di noradrenalina e attivazione dei suoi recettori β3 specificamente espressi sulla membrana di questi adipociti. Il calore prodotto verrà facilmente diffuso all’intero organismo attraverso la ricca rete vascolare che li circonda. Di fatto, nell’animale geneticamente modificato, l’assenza del recettore adrenergico β3 o del tessuto adiposo bruno è seguita dallo sviluppo di obesità. L’adipocita bruno, a differenza dell’adipocita bianco, non modifica sostanzialmente la propria morfologia in caso di eccessivo apporto calorico.
I progenitori dell’adipocita bianco e bruno non sono i fibroblasti presenti nel tessuto adiposo stesso, bensì cellule endoteliali (periciti) dei capillari che lo irrorano.
Circa la struttura del tessuto adiposo, è stato di recente documentato come essa non sia di tipo continuo e uniforme, bensì costituita da diversi depositi di grasso, tra loro isolabili in quanto provvisti di una membrana connettivale. In seno ad ogni deposito sono riconoscibili adipociti bruni frammisti agli adipociti bianchi. Nella specie umana, gli adipociti bianchi sono largamente prevalenti su quelli bruni.
La copresenza dei due citotipi nel tessuto adiposo è la premessa per il fenomeno della trans-differenziazione reversibile tra i due tipi di adipociti, fenomeno che conferisce al tessuto adiposo una sorprendente plasticità. Infatti, la prolungata esposizione al freddo, così come l’attivazione protratta del sistema adrenergico (pazienti con feocromocitoma), induce un aumento degli adipociti bruni nel tessuto adiposo. Questo aumento non sembra tanto dovuto ad una proliferazione di cellule progenitrici, ma piuttosto ad una trasformazione diretta (trans-differenziazione) degli adipociti bianchi in adipociti bruni con neo-espressione della proteina UCP-1. Al contrario, l’elevazione della temperatura ambientale nell’animale da esperimento, induce una trasformazione degli adipociti bruni, che perdono la caratteristica multi-vacuolarità per diventare simili agli adipociti bianchi, con un unico vacuolo di grasso intra-cellulare e con abolizione dell’espressione di UCP-1. Un ruolo chiave nel processo di trans-differenziazione è svolto da una miochina prodotta dal muscolo, denominata irisina, che induce una riprogrammazione genica del tessuto adiposo in risposta a variazioni nutrizionali.
Un altro elemento importante nell’istologia del tessuto adiposo è costituito dai macrofagi. Nell’obesità è presente una vera patologia del tessuto adiposo: questo mostra una massiva infiltrazione di macrofagi, responsabili della produzione di numerose citochine (TNFα, IL-6, IL-1α, ecc) che impattano con il recettore insulinico causando insulino-resistenza.
Per quanto riguarda la sua distribuzione, il tessuto adiposo si trova localizzato in sede sottocutanea, nell’omento e in sede profonda, peri-viscerale. La sua distribuzione distrettuale differisce nei due sessi e riveste notevole rilevanza clinica. Nella donna è più rappresentato in regione gluteo-femorale, nell’uomo a livello addominale. L’adipe dei due distretti, superficiale e profondo, sembra dotato di diverse caratteristiche funzionali, presentando addirittura una diversa capacità di espressione genica. Di fatto, è oggi ben documentato che in entrambi i sessi un eccesso di adipe viscerale, quale si osserva nella sindrome metabolica, si associa ad un aumentato rischio cardiovascolare.
A conferire al tessuto adiposo la dignità di “organo” contribuisce la capacità della sua componente bianca di produrre un elevato numero di ormoni e altre molecole biologicamente attive (adipochine), tanto da poter essere considerato un organo endocrino.
Di recente è stato ipotizzato che in caso di iperalimentazione avrebbe luogo un’espansione del compartimento adiposo sottocutaneo, che assorbirebbe l’eccesso di energia introdotta, limitando la neoformazione di adipe viscerale. Tale espansione si verificherebbe per ingrossamento degli adipociti bianchi pre-esistenti, per neo-formazione di nuovi adipociti a partire da cellule progenitrici e anche per trans-differenziazione di adipociti bruni in adipociti bianchi. Ben si comprende come una disfunzione dell’adipe sottocutaneo, con inceppamento di questo meccanismo, possa contribuire all’instaurarsi dell’obesità viscerale con le conseguenti ripercussioni cliniche.
Queste nuove acquisizioni anatomo-funzionali sul tessuto adiposo possiedono un forte potenziale terapeutico, stimolando la ricerca di nuovi farmaci (es. agonisti selettivi dei recettori β3-aderenergici) per il trattamento dell’obesità.
Bibliografia
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Le adipochine
Francesco Cavagnini, Massimo Scacchi
Istituto Auxologico Italiano, Università di Milano
(aggiornato al 9 gennaio 2020)
Generalità
Vengono definite adipochine o adipocitochine numerose (oltre 600) sostanze biologicamente attive (enzimi, ormoni, citochine, fattori di crescita), prodotte dall’adipocita e dalla componente stromale-vascolare del tessuto adiposo, soprattutto sotto-cutaneo, nella sua qualità di organo endocrino e paracrino.
Queste sostanze svolgono una funzione di enorme portata nella regolazione del metabolismo. Esse, infatti, influenzano la sensibilità insulinica oltre che il trofismo della cellula β-pancreatica, lo stato di infiammazione cronica associato alla sindrome metabolica, il comportamento alimentare e il dispendio energetico; infine, stabiliscono una relazione funzionale tra il tessuto adiposo e l’attività di diversi organi ed apparati (cardio-vascolare, riproduttivo, scheletrico, uro-poietico, sistema endocrino e autoimmune, sistema della coagulazione, ecc). Nell’obesità, a causa dello stato infiammatorio cronico e della disfunzione del tessuto adiposo, la produzione di adipochine è orientata in senso diabetogeno e aterogeno (1-5).
Alcune di queste sostanze meritano una menzione particolare.
Azioni delle adipochine | |
Regolazione della risposta infiammatoria | Interleukina 1, 6, 8, 10 Tumor necrosis factor alfa (TNFα) Transforming growth factor β (TGFβ) Interferon γ Chemerina Proteina C-reattiva Inibitore-1-dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1) |
Insulino-resistenza ed epato-steatosi | Vaspina Resistina Visfatina Fetuina-A Chemerina Proteina-4 legante il retinolo (RBP4) Proteina-4 legante gli acidi grassi |
Ipertensione arteriosa | Angiotensinogeno |
Emostasi | Fibrinogeno |
Miglioramento della funzione endoteliale | Nesfatina Apelina Omentina |
Leptina
Identificata nel 1994, inibisce la secrezione ipotalamica di peptidi che stimolano l’appetito (NPY, AGRP, MCH, ecc.) e promuove quella di peptidi anoressanti (CRH, POMC, MC, ecc). Contemporaneamente incrementa il dispendio energetico, esercitando in definitiva un effetto catabolico. Coerentemente con queste azioni, i suoi livelli circolanti risultano elevati dopo il pasto e negli stati di ipernutrizione e soppressi nel digiuno e negli stati di iponutrizione.
Mutazioni del gene o del recettore della leptina si accompagnano allo sviluppo precoce di obesità massiva. Nell’obesità di origine non genetica i livelli plasmatici di leptina sono elevati e correlati positivamente con la massa del tessuto adiposo bianco. La mancanza del suo effetto anoressante in questo caso viene attribuita a una resistenza alla sua azione nel sistema nervoso centrale. A causa di questa resistenza, la somministrazione di leptina esogena non si è rivelata in grado di modificare consumo calorico e peso corporeo in pazienti obesi. Più efficace sembrerebbe la somministrazione combinata di leptina e amilina, peptide prevalentemente prodotto dalle cellule β-pancreatiche e in grado di ripristinare la sensibilità alla leptina.
A livello vascolare, la leptina aumenta lo stress ossidativo, promuove la proliferazione e la migrazione delle cellule muscolari lisce nonché la deposizione di calcio, producendo una disfunzione endoteliale; queste azioni, insieme ad una azione pro-infiammatoria e pro-trombotica, forniscono alla leptina un distinto profilo aterogeno. Di fatto, animali privi del gene della leptina o del recettore di questa sono resistenti all’aterosclerosi, pur sviluppando una grave obesità. Questi effetti della leptina, insieme all’insulino-resistenza, anch’essa favorita dall’ormone, si riscontrano nella sindrome metabolica, anche se restano ancora da definire i rapporti tra obesità, livelli di leptina ed eventi cardio-vascolari. La leptina, infatti, prodotta anche a livello del miocardio, svolgerebbe un’azione locale cardio-protettiva. Nell’uomo, elevati livelli sierici di leptina sarebbero associati ad aumentato rischio di infarto miocardico ed ictus cerebrale, indipendentemente dalla presenza di obesità.
Ancora, la leptina potrebbe agire direttamente a livello articolare, favorendo la comparsa dell’osteo-artrosi associata all’obesità: di fatto, questa complicanza non compare nell’obesità dell’animale privato del gene della leptina.
La leptina favorirebbe l’attività del sistema immune, come testimoniato dallo stato di immuno-deficienza di topi privati del gene della leptina o del suo recettore. La somministrazione di leptina esogena potrebbe dare adito ad un effetto nel complesso pro-infiammatorio e quindi potenzialmente deleterio. Il trattamento con antagonisti della leptina potrebbe quindi essere efficace non solo nei casi di cachessia ma anche in quelli di patologie immuno-mediate.
Considerate le interazioni di recente dimostrate tra sistema scheletrico e metabolismo energetico, non sorprende che la leptina, squisita espressione della massa adiposa e quindi dello stato nutrizionale, possa influenzare il metabolismo dell’osso. Infatti, attraverso interazioni con diversi peptidi ipotalamici e con il sistema adrenergico, essa regola negativamente la neoformazione ossea da parte degli osteoblasti.
Infine questa adipochina, oltre ad interagire con i sistemi immunitario ed emopoietico, svolge un ruolo cruciale nel legame funzionale tra stato nutrizionale e sistema riproduttivo (6): stimola la secrezione ipotalamica di GnRH, sensibilizza l’ipofisi alla sua azione, amplificando la liberazione di gonadotropine, e interviene infine nel regolare la produzione di steroidi gonadici. La leptina esercita, pertanto, una funzione importante nell’avvio della pubertà ed è responsabile dell’amenorrea, e quindi del blocco della capacità riproduttiva, quando l’organismo è denutrito come nel caso paradigmatico dell’anoressia nervosa. In questa condizione clinica è stata riportata la ripresa del ciclo mestruale con la somministrazione di leptina.
Adiponectina
Identificata un anno dopo la scoperta della leptina, è abbondantemente presente nel plasma, soprattutto nella sua forma multimerica ad alto peso molecolare, e la sua produzione è regolata negativamente dal sistema endo-cannabinoide. Recettori per l’adiponectina sono espressi nel muscolo (AdipoR1) e nel fegato (AdipoR2). I suoi livelli circolanti sono diminuiti nell’obesità e inversamente proporzionali al grado di sovrappeso e di insulino-resistenza; essi sono altresì diminuiti nel diabete di tipo 2 e nelle malattie cardio-vascolari, come probabile conseguenza dell’aumentato stress ossidativo e dello stato infiammatorio cronico presenti in queste condizioni. L’adiponectina è il probabile mediatore dell’effetto dei farmaci insulino-sensibilizzanti che, attraverso il PPARγ, inducono l’espressione del suo gene. Infatti, la somministrazione di questi farmaci aumenta i livelli circolanti di adiponectina, che risultano invece diminuiti dalle citochine pro-infiammatorie. Questa adipochina sembra anche dotata di una azione protettiva sulla cellula β-pancreatica; la sua somministrazione stimola la secrezione di insulina, riduce la produzione epatica di glucosio e favorisce l’ossidazione dei grassi.
L’adiponectina possiede squisite proprietà anti-ossidanti, anti-infiammatorie e anti-aterogene. Essa regola positivamente l’enzima responsabile della produzione di ossido nitrico nell’endotelio e riduce la proliferazione delle cellule muscolari lisce nella parete vascolare. Un deficit di adiponectina si accompagna a disfunzione endoteliale, con diminuita capacità di vaso-dilatazione, aumentato spessore dell’intima-media, insorgenza di ipertensione arteriosa e scompenso cardiaco, aumentato rischio di infarto miocardico e malattia coronarica in pazienti diabetici. All’adiponectina viene pertanto riconosciuta un’azione cardio-protettiva.
Bassi livelli di adiponectina si accompagnano a maggiore accumulo di grasso nel fegato e a maggiore progressione della epato-steatosi non alcolica a steato-epatite.
Nel sistema nervoso centrale l’adiponectina aumenta il dispendio energetico, favorendo così la diminuzione del peso corporeo. Per ragioni non del tutto chiarite, elevati livelli di adiponectina sono predittivi di aumentata mortalità nell’insufficienza renale cronica (7).
Un agonista dei recettori dell’adiponectina, somministrabile oralmente e conosciuto come AdipoRon, si è dimostrato in grado di ridurre l’insulino-resistenza e di migliorare il compenso glico-metabolico in topi obesi, prolungandone l’aspettativa di vita. Lo sviluppo di farmaci agonisti dell’adiponectina sembra promettente, poiché tale adipochina unisce agli effetti insulino-sensibilizzanti quelli anti-infiammatori, che possono essere utili nel trattamento dell’infiammazione del tessuto adiposo del paziente obeso.
Altre adipochine
Nesfatina. Si sta rivelando uno dei più potenti peptidi con azione anoressante. Oltre che nell’ipotalamo e in altre aree del sistema nervoso centrale, è prodotta nello stomaco, nel pancreas e nel tessuto adiposo. Questa adipochina presenta un profilo di attività simile all’adiponectina: come questa è dotata di azione anti-infiammatoria, riduce la produzione epatica di glucosio e ne aumenta l’utilizzazione (8). I suoi livelli circolanti sono aumentati nell’uomo obeso, dove correlano positivamente con il BMI (9).
Vaspina. Prodotta prevalentemente dal tessuto adiposo viscerale (il nome è un acronimo di visceral adipose tissue-derived serine protease inhibitor), riduce l’assunzione di cibo, inibendo a livello ipotalamico l’espressione del peptide oressigeno NPY e stimolando quella del peptide anoressante POMC. È anch’essa aumentata nel sangue dell’uomo obeso e possiede attività insulino-sensibilizzante.
Visfatina. Espressa prevalentemente nel tessuto adiposo bianco, favorisce la maturazione della cellula β-pancreatica e la secrezione di insulina, oltre a svolgere azioni insulino-simili. Per contro, è dotata di azione pro-infiammatoria e influenza negativamente la funzione endoteliale. Nell’animale da esperimento, l’antagonista della visfatina conosciuto con la sigla FK866 riduce il danno polmonare e intestinale, inibendo la produzione di citochine pro-infiammatorie.
Apelina. È prodotta e secreta da diversi tessuti (cuore, parete vascolare) oltre che dal tessuto adiposo. Il suo contenuto nel grasso e i suoi livelli sierici sono aumentati nell’obesità e si riducono con la riduzione ponderale. Ha azione cardio-protettiva, ipoglicemizzante e favorente l’utilizzo del glucosio da parte del muscolo. In modelli animali, esercita azione vaso-dilatatoria e anti-aterogena (10).
Resistina. Nel topo, ma con minore certezza nell’uomo, questa adipochina induce insulino-resistenza e dislipidemia, probabilmente a seguito dei suoi effetti pro-infiammatori. I suoi livelli circolanti sono aumentati nell’obesità. Sembra esistere una modulazione negativa reciproca tra gli effetti della resistina da un lato e quelli della leptina e dell’adiponectina dall’altro.
Angiotensina. Nel tessuto adiposo sono espressi angiotensinogeno, renina e angiotensin-converting enzyme e pertanto vi è produzione locale di angiotensina II. L’azione di questa nel tessuto adiposo tramite i suoi due specifici recettori è complessa e imperfettamente nota. L’attivazione del recettore A1 promuove lo sviluppo di insulino-resistenza e di diabete tipo 2. Il tessuto adiposo esprime anche recettori per i mineral-corticoidi, che mediano l’azione dei mineralo- e dei glico-corticoidi nel controllo dell’adipogenesi e nell’espansione della massa adiposa, con i relativi effetti pro-infiammatori e di insulino-resistenza.
TNFα. Questa citochina è prodotta in maggiore misura dalle cellule stromali del tessuto adiposo, essenzialmente i macrofagi, piuttosto che dagli adipociti, e maggiormente nel grasso viscerale che in quello sotto-cutaneo. I suoi livelli circolanti sono aumentati nel soggetto obeso e diminuiscono con la riduzione ponderale. Attraverso il suo recettore di tipo 1, il TNFα svolge una azione pro-infiammatoria e pro-aterogena, determinando inoltre insulino-resistenza. Va peraltro sottolineato che in pazienti obesi diabetici trattati con farmaci biologici anti-TNF non si osservano nè un significativo aumento della sensibilità insulinica nè un calo ponderale di qualche rilievo.
Interleuchina-1β. A questa citochina infiammatoria, espressa da tessuto adiposo, monociti e macrofagi, è riconosciuto un ruolo fondamentale nella fisiopatologia di numerose malattie infiammatorie. In un gruppo di pazienti affetti da diabete mellito tipo 2 l’antagonista del recettore di IL-1β noto come Anakinra si è dimostrato non solo in grado di ridurre i fattori pro-infiammatori circolanti, ma anche di migliorare glicemia e funzione β-cellulare.
Retinol Binding Protein 4. Prodotta da tessuto adiposo e fegato, è in grado di determinare insulino-resistenza sistemica. Nell’uomo i livelli circolanti di RBP-4 correlano con varie componenti della sindrome metabolica, vale a dire ipertensione arteriosa, dislipidemia, malattia cardio-vascolare e massa del grasso intra-addominale. Il trattamento di obesità e diabete mediante calo ponderale, esercizio fisico, chirurgia bariatrica e somministrazione di glitazonici, riduce i livelli circolanti di RBP-4.
Omentina. Nota anche come intelectina e prodotta maggiormente nel grasso viscerale, è caratterizzata da attività insulino-sensibilizzante, anti-infiammatoria e anti-aterosclerotica. I suoi livelli circolanti sono ridotti nell’obesità e aumentano dopo calo ponderale, allenamento aerobico e trattamento con farmaci quali atorvastatina, metformina, pioglitazone ed exenatide.
Chemerina. Prodotta prevalentemente dal tessuto adiposo, gioca un ruolo chiave nell’adipogenesi, promuovendo sia la vascolarizzazione del tessuto adiposo stesso sia il reclutamento di macrofagi, contribuendo così verosimilmente allo stato infiammatorio di basso grado presente nella gran parte dei pazienti obesi. In questi ultimi si osservano elevati livelli circolanti di chemerina, che si riducono dopo calo ponderale.
Epcidina. Originariamente descritta come importante regolatore dell’omeostasi del ferro prodotta dal fegato, è stata successivamente caratterizzata come adipochina. Se da un lato tale peptide sembra giocare un ruolo di rilievo nell’anemia delle malattie croniche, dall’altro la sua produzione è stimolata dalla leptina, cosicchè i livelli circolanti di epcidina potrebbero aumentare in caso di obesità.
Fibroblast growth factor-21. Prodotto a livello di pancreas, fegato e tessuto adiposo, nei roditori e nei primati è in grado di migliorare tolleranza glucidica, sensibilità insulinica e profilo lipidico. Inoltre, riduce la secrezione di glucagone, induce l’espressione del gene dell’insulina e protegge le β-cellule del pancreas dall’apoptosi. FGF-21 favorisce la liberazione da parte del tessuto adiposo di adiponectina, adipochina che potrebbe mediarne alcune azioni. Nell’uomo sono stati riscontrati livelli elevati di FGF-21 in caso di obesità e diabete mellito tipo 2, e ridotti in caso di anoressia nervosa e diabete mellito tipo 1. La somministrazione per quattro settimane dell’analogo di FGF-21 contraddistinto dalla sigla LY2405319 ha determinato in pazienti obesi e diabetici calo ponderale, riduzione di colesterolo LDL e trigliceridi, aumento del colesterolo HDL e miglioramento della sensibilità all’insulina.
Neuroregulina-4. Secreta prevalentemente dal tessuto adiposo bruno dopo esposizione al freddo, riduce efficacemente la lipogenesi epatica. Topi caratterizzati da sovra-espressione di Nrg-4 vanno incontro a un minor incremento ponderale se sottoposti ad una dieta ad alto contenuto di grassi; presentano inoltre una riduzione della trigliceridemia e del grado di epato-steatosi, nonché un miglioramento di sensibilità all’insulina e tolleranza al glucosio. Nell’uomo l’espressione di Nrg-4 da parte del tessuto adiposo è inversamente correlata a BMI e a contenuto epatico di lipidi; è inoltre inferiore in caso di ridotta tolleranza glucidica o diabete mellito tipo 2 (11,12).
Irisina. Sebbene sia stata originariamente considerata una miochina, è ora nota la sua espressione anche da parte del tessuto adiposo, dove promuove, in risposta all’esercizio fisico, la trasformazione del grasso bianco in grasso bruno. Inoltre, irisina facilita la captazione di glucosio da parte del muscolo scheletrico, riduce l’insulino-resistenza e migliora la sopravvivenza delle β-cellule pancreatiche. A livello dello scheletro, riduce il numero degli osteoclasti e aumenta massa e forza dell’osso corticale (13).
Bibliografia
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Il controllo del comportamento alimentare
Francesco Cavagnini, Massimo Scacchi
Istituto Auxologico Italiano, Università di Milano
(aggiornato al 9 gennaio 2020)
Il comportamento alimentare occupa una posizione centrale nel mantenimento dell’omeostasi energetica ed è regolato in modo complesso da fattori biologici e fattori ambientali. Questi fattori, se alterati, favoriscono lo sviluppo di patologie da ipo- o ipernutrizione (1). Questa regolazione si compie attraverso un controllo periferico e un controllo centrale. La conoscenza delle ormai numerose molecole endogene che influenzano la fame e la sazietà sta stimolando la ricerca farmacologica di analoghi o antagonisti di potenziale impiego terapeutico.
RUOLO DELL’IPOTALAMO
Due popolazioni neuronali del nucleo arcuato dell’ipotalamo rivestono un ruolo fondamentale nella regolazione metabolica dell’omeostasi energetica e sono definiti neuroni di primo livello. I neuroni POMC rilasciano l’ormone melanocito-stimolante (α-MSH), che, legandosi ai recettori MC3 e MC4 della melano-cortina localizzati a livello del nucleo para-ventricolare e dell’area ipotalamica laterale, dove sono presenti i cosiddetti neuroni di secondo livello, promuove un effetto catabolico, con cessazione dell’assunzione di cibo e stimolazione della termo-genesi. Adiacenti ai neuroni POMC vi sono quelli che co-secernono il neuropeptide Y (NPY) e l’agouti-related peptide (AgRP). Anche questi neuroni proiettano i loro assoni al nucleo para-ventricolare e all’area ipotalamica laterale, dove NPY promuove un effetto anabolico, stimolando potentemente l’assunzione di cibo. Nelle stesse aree AgRP antagonizza l’azione di α-MSH producendo un potente effetto oressante (2).
CONTROLLO CENTRALE
Come anticipato nel paragrafo precedente, si realizza mediante un’azione integrata di segnali neuropeptidergici, monoaminergici, aminoacidici e attraverso il sistema endo-cannabinoide centrale, con la proiezione ad aree superiori dei segnali periferici giunti all’ipotalamo; queste aree, con azione integrata di altri sistemi, attivano infine circuiti anabolici o catabolici, a seconda che i segnali periferici di origine abbiano indicato uno stato di ipo- o ipernutrizione. È importante sottolineare come la maggior parte dei neuropeptidi che intervengono nel controllo centrale, oltre ad agire su fame e sazietà, influenzano in senso contrario il dispendio energetico, così da produrre un effetto finale consensuale.
Segnali neuro-peptidergici
Si tratta di peptidi oressigeni e anoressanti prodotti da specifiche aree del nucleo arcuato (neuroni di primo livello) in risposta ai segnali periferici di sazietà e di adiposità. A seconda che i segnali periferici siano di tipo oressigeno o anoressante, inducono la secrezione dei peptidi con azione consensuale, inibendo nel contempo la secrezione dei peptidi con effetto opposto. Questi peptidi, condotti da proiezioni nervose a neuroni di aree superiori (neuroni di secondo livello), agiscono con identico meccanismo, inducendo la secrezione di altri peptidi, finalizzando così il segnale periferico originario (tabella).
- NPY è il più potente stimolante dell’appetito ad oggi conosciuto. La sua somministrazione centrale nel ratto induce un aumento dell’assunzione di cibo, promuove l’adipo-genesi e inibisce la termo-genesi (3).
- AgRP è un altro potente stimolante dell’appetito, che agisce esercitando un antagonismo competitivo a livello del recettore della melano-cortina. Nell’obesità umana sono state documentate elevate concentrazioni plasmatiche di AgRP.
- La potente azione anoressante della melano-cortina si esercita, come già anticipato, attraverso i recettori MC3 ed MC4 del peptide: almeno l’8% dei casi di obesità grave nell’uomo è legato a mutazioni di questi recettori.
- Il CRH ha una spiccata azione anoressante nell’animale da laboratorio. Nell’uomo, la sua somministrazione aumenta il dispendio energetico e l’ossidazione dei grassi (4).
Segnali centrali per la regolazione del comportamento alimentare | |||
Azione oressigena | Azione anoressante | ||
Neuroni di I livello | Nucleo arcuato (melano-cortina) | Neuropeptide Y (NPY) Agouti-related peptide (AGRP) |
Proopiomelanocortin (POMC) Melanocyte-stimulating hormone (α-MSH) Cocaine and amphetamine-regulated transcript (CART) TRH |
Neuroni di II livello | Nucleo para-ventricolare | CRH Ossitocina Ciliary neurotrophic factor (CNTF) |
|
Nucleo laterale | Melanin-concentrating hormone (MCH) | ||
Area peri-fornicale | Oressine |
Segnali monoaminergici e aminoacidici
Si tratta di neuro-trasmettitori, che interagiscono con i vari neuro-peptidi nel controllo del comportamento alimentare.
- La serotonina attenua l’appetito e aumenta il dispendio energetico, riducendo così il peso corporeo; per questo, farmaci serotoninergici sono stati impiegati con successo per la riduzione ponderale, fino alla scoperta di complicanze cardio-vascolari che ne hanno resa necessaria la proscrizione.
- La noradrenalina stimola l’assunzione di cibo tramite i suoi recettori α2, mentre svolge effetto opposto attraverso i recettori α1, β2 e β3.
- La dopamina svolge effetti diversi in differenti aree cerebrali. Questa monoamina appare specificamente coinvolta, attraverso il recettore D5, nella risposta di “gratificazione” che segue l’ingestione di cibi ad elevata palatabilità. Composti agonisti dei recettori D1 e D2 riducono il consumo di cibo.
Sistema endo-cannabinoide centrale
I due principali endo-cannabinoidi cerebrali, anandamide e 2-arachidonil-glicerolo, esercitano una netta azione oressigena attraverso specifici recettori CB1 e CB2, inibendo la trasmissione sinaptica delle terminazioni GABAergiche e glutamatergiche. Essi interagiscono, inoltre, rinforzando il sistema dopaminergico di gratificazione, incentivando così l’assunzione di cibo (5). Nell’obesità sono riscontrabili livelli plasmatici aumentati di endo-cannabinoidi. Farmaci antagonisti del recettore CB1 si sono dimostrati efficaci nell’indurre decremento ponderale e migliorare il profilo metabolico di pazienti obesi, ma i loro effetti negativi, soprattutto sull’umore, ne hanno impedito l’impiego terapeutico.
CONTROLLO PERIFERICO
Segnala all’ipotalamo lo stato nutrizionale dell’organismo, sia quello momentaneo (segnali di sazietà, in relazione allo stato di alimentazione o di digiuno) che quello generale (segnali di adiposità).
Segnali di sazietà
Originano a livello gastro-intestinale in concomitanza con l’assunzione di cibo e informano il cervello sullo stato nutrizionale del momento (6,7). Comprendono stimoli meccanici legati alla distensione gastrica e la secrezione di numerosi gastro-entero-ormoni indotta dal passaggio del cibo nell’intestino (8,9). Questi segnali giungono al nucleo arcuato dell’ipotalamo, sia per via ematica che per via nervosa (nervo vago e afferenze simpatiche con stazione intermedia al nucleo del tratto solitario).
Tra i gastro-entero-ormoni si annoverano colecistochinina (CCK), bombesina, glucagone, glucagon-like peptide 1 (GLP-1), amilina, somatostatina, apolipoproteina A-4, enterostatina, peptide YY3-36 (PYY3-36), oxinto-modulina, ghrelina e obestatina. Da notare come tra i numerosi gastro-entero-ormoni, la ghrelina sia l’unico ormone circolante a svolgere un’azione stimolante sull’appetito.
- CCK. Viene prodotta dalle cellule I del duodeno e del digiuno, ma anche nel sistema nervoso enterico e nel cervello. Se iniettata prima dei pasti, promuove senso di ripienezza e sazietà (10), ma ha una breve emivita. La somministrazione a lungo termine di CCK si associa, sia nell’animale che nell’uomo, a una scomparsa dell’effetto anoressante nel giro di ventiquattr’ore. Alcuni anni or sono un trial di fase II della durata di sei mesi con l’agonista di CCK noto come GI181771X diede, in oltre 700 pazienti obesi, risultati negativi sia in termini di calo ponderale che di miglioramento del rischio cardio-vascolare. Lo sviluppo del farmaco è stato pertanto interrotto, anche se va detto che esperienze successive hanno dimostrato che, almeno nell’animale da esperimento, CCK e leptina esercitano un effetto saziante sinergico, determinando significativa riduzione ponderale.
- GLP-1. Secreto dalle cellule L dell’ileo distale e del colon, è rapidamente inattivato dall’enzima dipeptidil-dipeptidasi-IV (DPP-IV). È il capostipite degli incretino-mimetici, in quanto potenzia la secrezione insulinica indotta dal glucosio; riduce inoltre la secrezione di glucagone, rallenta lo svuotamento gastrico e favorisce il senso di sazietà (11). Analoghi di questo peptide resistenti all’azione della DPP-IV, così come inibitori della stessa DPP-IV hanno trovato impiego nel trattamento del diabete tipo 2. Gli analoghi del GLP-1, ma non altrettanto gli inibitori della DPP-IV, sono in grado di indurre riduzione ponderale nell’uomo. L’agonista del recettore per GLP-1 noto come liraglutide, alla dose giornaliera di 3 mg, è in commercio con l’indicazione al trattamento dell’obesità anche in assenza di diabete mellito; oltre al peso corporeo, riduce circonferenza vita, pressione arteriosa e rischio di sviluppare diabete.
- PYY3-36. Cosecreto con il GLP-1 dalle cellule L, è dotato di effetto anoressante; la sua somministrazione riduce l’assunzione di cibo, sia nel soggetto normopeso che nel paziente obeso. Nell’obeso è stata dimostrata una ridotta secrezione di PYY3-36 con livelli circolanti del peptide inversamente proporzionali al BMI, ma non è noto se questo possa essere causa o conseguenza dell’obesità.
- Ghrelina. Secreta dalle cellule ossintiche del fondo gastrico sotto lo stimolo dello svuotamento gastrico, è in grado di esercitare un chiaro stimolo sull’appetito. Aumentata in circolo in condizioni di digiuno e di denutrizione (anoressia nervosa), si riduce dopo il pasto, in presenza di iperglicemia e di iperinsulinemia, effetto quest’ultimo probabilmente mediato dalla secrezione di somatostatina. Da parte sua, il peptide inibisce la secrezione insulinica e aumenta i livelli glicemici. I livelli plasmatici di ghrelina sono ridotti nell’obesità, ad eccezione che nella sindrome di Prader Willi, dove la iper-ghrelinemia potrebbe contribuire all’iperfagia incontrollabile. Il by-pass gastrico riduce la secrezione di ghrelina, e tale fatto potrebbe contribuire all’importante calo ponderale e alla riduzione del senso di fame che si osservano dopo tale intervento di chirurgia bariatrica. Oltre a inviare un segnale oressigeno a livello centrale, la ghrelina svolge numerose azioni endocrino-metaboliche: stimola la secrezione di GH, ACTH e prolattina, aumenta la gluconeogenesi e la glicogenolisi, aumentando così la glicemia, riduce la secrezione insulinica e riduce l’ossidazione dei lipidi (12-14).
- Obestatina. Deriva dallo stesso precursore della ghrelina, della quale antagonizza l’azione stimolatoria sul GH. Le sue concentrazioni ematiche seguono quelle della ghrelina, essendo inversamente correlate allo stato nutrizionale. Ad onta del nome, la sua azione inibitoria sull’appetito è assai modesta.
- Oxinto-modulina. Appartiene alla famiglia dei peptidi derivati dal pre-proglucagone, agisce sui recettori per il GLP-1 ed è degradata dal DPP-IV. Alcuni studi nell’uomo hanno dimostrato la sua capacità di ridurre l’introito alimentare e il peso corporeo. Sono allo studio suoi analoghi dotati di una maggiore emivita rispetto al peptide naturale: si segnala in particolare l’agonista long-acting dei recettori di GLP-1 e glucagone contrassegnato dalla sigla MOD-6031.
- Amilina. È prevalentemente prodotta dalle ß-cellule del pancreas endocrino, ma anche a livello di intestino, ipotalamo e gangli della base. Contribuisce a rallentare lo svuotamento gastrico, aumentando il senso di ripienezza. A concentrazioni sovra-fisiologiche, inibisce la captazione di glucosio e la sintesi di glicogeno nel muscolo scheletrico.
Segnali di adiposità
Informano i centri cerebrali sullo stato nutrizionale generale dell’organismo. Sono essenzialmente rappresentati dall’insulina e dalla leptina, entrambe dotate di azione anoressante e favorente il dispendio energetico e quindi di un effetto catabolico (15). Quando i depositi adiposi si accrescono, si verifica una resistenza all’azione dell’insulina e quindi un aumento della sua produzione pancreatica. Contemporaneamente aumenta la quantità di leptina prodotta dall’adipocita. I due ormoni raggiungono direttamente il nucleo arcuato per via ematica, dove attivano i segnali di controllo centrali. Per quanto riguarda la leptina, va detto che essa è prodotta anche dallo stomaco e che la sua liberazione viene stimolata dalla distensione delle pareti gastriche e dalla presenza di nutrienti all’interno del viscere: in tal modo, la leptina può potenziare l’effetto saziante di CCK e GLP-1 (16).
BIBLIOGRAFIA
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Overview sull'obesità
Simonetta Marucci
ASL1 Perugia, Residenza DCA Todi
Il termine “globesity” è stato coniato per rappresentare i termini della globalizzazione del problema Obesità, che sembra andare di pari passo con la diffusione dei modelli alimentari occidentali. Dopo essere rimasto quasi sullo sfondo per decenni, nonostante ne fossero già note le conseguenze per la salute, oggi sta assumendo le dimensioni di un'epidemia, tanto da rappresentare ormai una priorità nell’ambito della salute pubblica, anche per i costi che comportano le complicanze per l’organismo, legate a tale patologia.
Anche i Paesi in via di sviluppo sono oramai coinvolti, e abbiamo notizie di Cliniche per la perdita di peso in Africa, mentre tra i bambini brasiliani l’obesità è più che raddoppiata in una sola generazione. Sembra, anzi, che sia proprio la popolazione più povera ad essere maggiormente predisposta, e gli esperti di salute invocano fattori sociali, come il passaggio dall'economia rurale all'urbana, ed economici, in quanto in molti paesi frutta e verdura sono più costosi di grassi e zuccheri e la Coca Cola è più economica dell’acqua minerale.
Fattori sociali ed economici non soddisfano però completamente il quesito, e ci si interroga su quali siano le dinamiche di natura biologica e genetica che fanno sì che siano proprio le popolazioni abituate a vivere con scarse riserve di cibo ad essere maggiormente inclini all’incremento del peso, laddove aumenti, in maniera sproporzionata la disponibilità di alimenti con elevato potere calorico. Ripercorrendo la storia dell’uomo, che è strettamente connessa a quella delle proprie capacità di procacciarsi il cibo, cogliamo con immediata evidenza che l’evoluzione ha favorito quei processi che ottimizzavano la qualità dell’alimentazione e la capacità di conservare energia sotto forma di tessuto adiposo, rinforzando quel corredo genetico “risparmiatore” funzionale ad una maggiore possibilità di sopravvivere in caso di carestia.
L'interpretazione del dilagare del problema obesità non si risolve, quindi, in un semplice dato quantitativo legato all'aumentata disponibilità di cibi ipercalorici, ma è molto più articolata, come rivelava già nel 1995 uno studio effettuato in Inghilterra (1), da cui emergeva come, nella popolazione studiata in un arco di tempo di circa 20 anni, si osservasse un incremento del peso corporeo a fronte di una riduzione dell’apporto calorico ed in relazione diretta, invece, con la riduzione dell’attività fisica.
I dubbi sull’approccio dietologico classico, per lo più restrittivo, sono giustificati, oltre che dall’esperienza clinica sotto gli occhi di tutti, anche dalla consistente letteratura scientifica che sta portando a rivedere i punti di vista metodologici. C’è da dire che la cosa che colpisce maggiormente è, caso mai, la lentezza con cui questo cambiamento di paradigma si stia realizzando, dal momento che il primo di questi studi, che consisteva in una revisione della letteratura sui risultati delle diete, risale al 1959 (2) e concludeva che il 90% dei pazienti che si erano sottoposti a dieta riacquistavano il peso perduto. Nonostante tali dati, le modalità di approccio alla dieta non sono sostanzialmente cambiate e, nel 1997 (3) si confermò con una metanalisi che “...i 2/3 delle persone che perdono peso, lo riacquistano entro un anno e, dopo 5 anni, quasi tutti i pazienti a dieta tornano al peso precedente”.
Eppure, oggi accade che le popolazioni economicamente privilegiate siano perennemente a dieta e, allo scopo di preservare il proprio stato di salute, viene loro chiesto di sospendere il piacere legato al cibo, associandolo ai rischi per la salute, di evitare il consumo di alcuni alimenti e limitarne altri, trasferendo sul cibo una serie di tabù che precedentemente afferivano esclusivamente alla sfera sessuale, con tutto il seguito di divieti, trasgressioni e conseguenti sensi di colpa che aprono la strada a meccanismi comportamentali compulsivi (4).
Il soggetto in sovrappeso, oltre a problematiche di tipo organico, è esposto anche a situazioni che compromettono l’equilibrio psicologico, poiché, fin dall’età infantile, subisce una stigmatizzazione sociale e sviluppa spesso un'insoddisfazione della propria immagine corporea che lo espone, soprattutto in età adolescenziale, a sviluppare un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA). Sovrappeso e DCA sono i due maggiori problemi di salute tra gli adolescenti e molti studi dimostrano una relazione tra essi (5). Si calcola che l’ aumento di un punto di BMI aumenti la probabilità di rischio di un DCA del 12% nelle ragazze e del 4% nei ragazzi e già tra i 6 e gli 11 anni dal 20 al 56% delle ragazze tende a mettersi a dieta per insoddisfazione della propria immagine corporea. Inoltre, come rivela Fairburn (6) in uno studio caso-controllo, l’obesità presente fin da bambino risultava tre volte più elevata tra individui con Bulimia Nervosa rispetto ai controlli sani.
Questi dati stanno sempre più orientando gli interventi di prevenzione e trattamento contestualmente verso l’obesità infantile e verso i disturbi alimentari, cercando di identificare i fattori di rischio e di mantenimento attivi in entrambe le situazioni. Non esistono ancora studi conclusivi su eziologia, rischi e fattori protettivi, ma è ormai un dato consolidato che la dieta restrittiva sia tra i fattori di rischio e di mantenimento sia dell'obesità che dei DCA. Il corpo diventa il campo di battaglia tra piacere del cibo e necessità di controllo, ma proprio il controllo cognitivo apre la via al pensiero ossessivo sul cibo ed alla compulsione. La discussione in corso sul prossimo DSM-V sta riguardando anche il possibile inquadramento della obesità tra i DCA, proprio in ragione dell'importante componente psicologica che condiziona in maniera determinante la compliance del paziente e, quindi, il successo della terapia.
Per questo motivo si auspica che gli interventi terapeutici rivolti al paziente obeso si orientino sempre di più, secondo un orientamento già condiviso, verso un approccio integrato psico-educazionale e comportamentale.
Bibliografia
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- Babio N, Canalis J, et al. A two-phase population study: relationship between overweight, body composition and risk of eating disorders. Nutr Hosp 2009, 24: 485-91.
- Fairburn C, et al. Risk factors for bulimia nervosa. Arch Gen Psychiatr 1997, 54: 509-17.
Classificazione ed epidemiologia dell'obesità
Vincenzo Novizio
A.O.R.N. "A.Cardarelli" - Napoli
Classificazione
L’obesità è una condizione patologica cronica caratterizzata da un eccesso di peso corporeo derivante da un eccesso di massa adiposa, in misura tale da influire negativamente sullo stato di salute (definizione OMS).
Come per tutte le altre condizioni in cui lo stato morboso o patologico è definito dalla deviazione di una variabile biologica da valori cosiddetti normali (diabete mellito, ipertensione arteriosa, ecc), così l’obesità viene definita come tale quando il peso corporeo, per l’eccesso della massa adiposa, devia dalla normalità e raggiunge valori che possono essere dannosi per lo stato di salute. Da questo deriva che, così come per altre condizioni, quali diabete mellito e ipertensione, la diagnosi poggia su criteri del tutto convenzionali, utilizzando cut-off derivanti da ampi studi epidemiologici e clinici, dai quali sono emersi valori limite cui corrisponde la normalità clinica e al di là dei quali si configura lo stato patologico.
Diverse sono le metodiche per la determinazione della massa grassa in vivo, tra loro differenti per praticità, accuratezza e costi (Pesata idrostatica, Pletismografia ad aria, Plicometria, Bioimpedenzometria, Circonferenze Corporee, DEXA, RM, TC, Ecografia), ma è l’indice di massa corporea o BMI (Body Mass Index) quello adottato ufficialmente dall’OMS quale indicatore dello stato ponderale dell’individuo. Tale indice si ottiene dividendo il peso in kg del soggetto per il quadrato dell’altezza espressa in metri. Anche se presenta alcuni limiti (non tiene conto, per esempio, di fattori come corporatura, entità della massa magra, genere, età), si è dimostrato comunque un soddisfacente predittore della percentuale di grasso corporeo, sicuramente facile da calcolare e molto utile sia nel singolo individuo che negli studi clinici ed epidemiologici.
La maggior parte delle indagini longitudinali mirate allo studio dei rapporti tra BMI e rischio per la salute ha dimostrato in modo concorde che il rischio di morbilità e mortalità aumenta con l’aumentare dei valori di BMI e si son potuti identificare dei cut-off che ci permettono di classificare gli stati ponderali in classi a progressivo aumento di rischio per la salute. La classificazione più seguita è quella proposta dall’OMS, modificata nel 2008 dalla Società Americana per la Chirurgica Bariatrica Metabolica (ASMBS).
Tabella 1 Stadiazione del peso corporeo secondo l’OMS (modificata da OMS 1995 e 2004- ASMBS 2008) |
|
Classe | Valore di BMI |
Sottopeso | < 18.5 |
Normopeso | 18.5-25 |
Sovrappeso (o pre-obesità) | 25-30 |
Obesità I grado | 30-34.99 |
Obesità II grado | 35-39.99 |
Obesità III grado | ≥ 40 |
Obesità IV grado (super) | ≥ 50 |
Obesità V grado (super-super) | ≥ 60 |
Le numerose evidenze epidemiologiche e la crescente mole di studi sulla funzione endocrina del tessuto (o meglio dell’organo) adiposo hanno reso evidente come non l’entità totale della massa adiposa bensì la sua particolare distribuzione regionale, ovvero centrale o addominale o viscerale, è quella che, a parità di BMI, si associa a maggior rischio di morbilità e mortalità.
Sicuramente i metodi più validi per la misurazione del grasso viscerale sono la TC e la RM, che vengono però utilizzati soprattutto nella ricerca. Nella pratica clinica, per la valutazione della distribuzione regionale del grasso sono più adoperate le circonferenze corporee, specie quella della vita e dei fianchi. Poiché sia la misurazione della circonferenza vita che il rapporto vita/fianchi sono correlati in modo sovrapponibile all’entità della massa adiposa viscerale e quindi ai fattori di rischio per malattia coronarica (ipertensione, iperglicemia, iperlipidemia), il parametro più utile nella pratica clinica, per la sua maggiore semplicità, è la misura della circonferenza vita (tabella 2).
Tabella 2 Parametri di riferimento per circonferenza vita (1) |
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Rischio | Maschio | Femmina |
Moderato | > 94 cm | > 80 cm |
Accentuato | > 102 cm | > 88 cm |
Epidemiologia
A tutti è noto che l’obesità ha attualmente raggiunto proporzioni epidemiche in tutti i continenti, tanto che l’OMS ha coniato il termine Globesity per indicare la diffusione su scala planetaria del problema, riflettendo i profondi cambiamenti verificatisi nella società e negli stili di vita delle diverse comunità, determinati a livello mondiale da crescita economica, modernizzazione, urbanizzazione, maggiore disponibilità di prodotti alimentari ad elevato contenuto calorico e globalizzazione dei mercati alimentari.
Come evidenziato dal lavoro pubblicato dalla IASO (International Association for the Study of Obesity) nel giugno 2013, i tassi di incidenza sono in rapida crescita e i soggetti affetti da obesità raggiungono in alcuni Paesi, come Tonga, stato insulare della Polinesia, anche il 70% della popolazione. Tra le nazioni in cui il problema si sta manifestando in modo più allarmante sicuramente troviamo gli Stati Uniti d’America, ove circa il 75% della popolazione > 15 anni è in sovrappeso e di questi oltre il 35% è obesa, questo almeno tra la popolazione maschile, mentre per quanto riguarda la popolazione femminile, peggio si trovano le abitanti del Qatar, del Kuwait e del Messico.
È interessante notare che, mentre la prevalenza di obesità tra gli adulti tra 20 e 74 anni si è più che raddoppiata nelle ultime 5 decadi (passando dal 13.4% del periodo 1960-62 al 35.1% del periodo 2005-2006) raggiungendo un plateau negli ultimi anni, la prevalenza della super-obesità (quella caratterizzata da BMI > 50) è passata nello stesso periodo dallo 0.9% al 6.2%, ovvero quasi 7 volte in più.
La prevalenza dell’obesità morbigena in generale, e quindi non solo di quella estrema, ha raggiunto negli USA percentuali dell’8%, almeno tra la popolazione femminile (2). Il fenomeno è così deflagrante che uno studio pubblicato nel 2011 ha calcolato che nel 2030 la percentuale di persone obese potrebbe negli USA aumentare fino a quasi il 50%, determinando gravi conseguenze sulla salute della popolazione e una maggiore spesa per la sanità pari a circa il 2% del bilancio statale (3).
Nel continente europeo le stime mostrano la presenza di circa 400 milioni di persone in sovrappeso, di cui circa 130 milioni obese. In pratica metà di tutti gli adulti europei sono in sovrappeso e di questi circa un terzo sono francamente obesi (4). A partire dagli anni Ottanta la prevalenza dell’obesità è triplicata in molti Paesi europei e continua a crescere; la tendenza è particolarmente allarmante nei bambini e negli adolescenti, poiché in questo modo l’epidemia si sposta nell’età adulta e genera una crescita esponenziale delle condizioni di sovrappeso ed obesità, con un inevitabile peggioramento delle condizioni di salute per le generazioni future.
In Italia, sono circa 17 milioni gli individui in sovrappeso e circa 5 milioni quelli obesi, collocandosi insieme a Paesi Bassi, Austria, Francia e Svezia, tra i Paesi Europei con la più bassa percentuale di persone obese nella popolazione adulta avente ≥ 15 anni (5).
In verità, i valori particolarmente elevati di Regno Unito (26.1%) e Lussemburgo (23.5%) possono essere dovuti alla diversa fonte utilizzata. In questi due Paesi, infatti, così come in Slovacchia, l’indicatore non si basa sulla dichiarazione di peso ed altezza dell’intervistato, come negli altri Paesi, ma sulla misurazione delle due dimensioni considerate, ed è noto in letteratura che il dato dichiarato, per gli adulti, comporta una sottostima del fenomeno.
Le percentuali più alte di adulti obesi si registrano in Molise (13.5%), Basilicata (13.1%), Puglia (12.6%) (5).
In Italia i bambini obesi sono il 10.2% del totale (peggiori al mondo dopo gli Stati Uniti con il 14%). Anche in questo caso le regioni peggiori sono Basilicata, Puglia, Molise, Campania, Abruzzo (6).
Si stima che il numero di persone adulte obese aumenterà del 2.4% medio annuo da oggi al 2025 (7). Giacché il 70% dei bambini obesi rischia di restare obeso da adulto e che in media 1/3 degli obesi adulti lo era da bambino, tra il 2025 e il 2050 la crescita degli adulti obesi sarà del 2.8% medio annuo (8).
Bibliografia
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- IASO (International Association for the Study of Obesity), London May 2012.
- Istituto Nazionale di Statistica. Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo. 2013.
- Rapporto Okkio alla Salute, 2012.
- Società Italiana Obesità, 2011.
- The European House-Ambrosetti, 2011.
Inquadramento diagnostico del paziente obeso
Generalità e calcolo del fabbisogno calorico
Generalità e calcolo del fabbisogno calorico
Marco Cipolat
SC Dietetica e Nutrizione Clinica, ASO Santa Croce e Carle, Cuneo
Generalità
La spesa energetica totale (total energy expenditure, TEE) è determinata da tre fattori:
- il metabolismo basale o a riposo (basal metabolic rate, BMR, o resting energy expenditure, REE);
- l’effetto termogenico (o potere dinamico specifico) dato dagli alimenti;
- il costo dell’attività fisica (activity energy expenditure, AEE).
La spesa energetica a riposo attualmente, nei soggetti non praticanti attività sportive professionali, può raggiungere il 70-80% della spesa energetica totale, essendo in gran parte scomparsi lavori ed attività di grande dispendio calorico. Essa è determinata per il 75% dalla massa muscolare.
Calcolo del fabbisogno calorico
Il consumo energetico nei soggetti sia obesi che non obesi è valutabile prevalentemente in due modi: la calorimetria e le equazioni predittive.
La calorimetria diretta è un metodo incentrato sulla rilevazione diretta del dispendio energetico, mediante una camera metabolica all’interno della quale viene posto il soggetto che viene osservato nella sua vita quotidiana. Si fa passare acqua attraverso la camera e l’energia dispersa dal soggetto viene misurata calcolando la differenza di temperatura dell’acqua stessa tra l’ingresso e l’uscita dalla camera. La calorimetria diretta misura pertanto il consumo energetico totale nel periodo di osservazione. Essendo estremamente dispendiosa e complessa, essa non trova applicazioni cliniche, ma solo sperimentali.
La calorimetria indiretta è incentrata sulla misurazione del consumo di ossigeno e della produzione di anidride carbonica del soggetto in studio in un determinato periodo di osservazione. Dal consumo di ossigeno si può risalire al dispendio energetico (vedi tabella 1 per i valori).
Tabella 1 Parametri per il calcolo della calorimetria indiretta |
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Calore sviluppato (kcal/g) | Consumo O2 (kcal/L O2) | |
Proteine | 4.3 | 4.46 |
Lipidi | 9.5 | 4.5 |
Glucidi | 4.18 | 5 |
Può essere effettuata in condizioni basali (a digiuno da circa 12 ore, a riposo termico, meccanico e psichico, in modo che possiamo trascurare sia l'energia cinetica che quella chimica potenziale assunta dalla dieta) oppure sotto sforzo. Questa metodica è quella usualmente utilizzata nel calcolo del dispendio energetico in ogni condizione fisiologica e patologica. Recentemente sono stati proposti e validati per l’uso quotidiano calorimetri indiretti portatili che consentono la determinazione al letto del paziente o in ambito ambulatoriale (1).
Nella pratica clinica la calorimetria indiretta viene utilizzata per la misura del consumo energetico a riposo, data la complessità e le difficoltà logistiche dell’utilizzo in altre situazioni fisiologiche (necessità di standardizzare il tipo di attività fisica, di utilizzare altri strumenti come cicloergometro o tapis roulant e le caratteristiche dei soggetti).
In mancanza di un calorimetro il consumo energetico a riposo è calcolabile con una serie di equazioni predittive, validate negli anni sia nel soggetto normopeso che nel soggetto obeso. Le più diffuse sono riportate in tabella 2.
Tabella 2 Equazioni predittive per il calcolo del consumo energetico (BMR o REE) a riposo (peso in kg, altezza in cm, età in anni) |
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Formula | Maschio | Femmina | |
Harris-Benedict | 66 + 13.75*peso + 5*altezza – 6.76*età | 655 + 9.56*peso + 1.85*altezza – 4.68*età | |
FAO-LARN (Schofield) | 18-29 anni | 15.3*peso + 679 | 14.7*peso + 496 |
30-59 anni | 11.6*peso + 879 | 8.7*peso + 829 | |
60-74 anni | 11.9*peso + 700 | 9.2*peso + 688 | |
≥ 75 anni | 8.4*peso + 819 | 9.8*peso + 624 | |
Owen | 879 + 10.2*peso | 795 + 7.2*peso | |
Mifflin | 5 + 10*peso + 6.25*altezza – 5*età | -161 + 10*peso + 6.25*altezza – 5*età |
Recentemente queste equazioni sono state sottoposte a rivalutazione, sia in relazione al dato calorimetrico indiretto che in relazione al BMI dei soggetti: l’equazione di Mifflin è risultata la più affidabile nella stima del consumo energetico a riposo, sia nei soggetti normopeso che obesi, in particolare nei gradi più elevati di obesità (2,3).
Il dispendio energetico dovuto all’attività fisica, come già detto, può essere misurato con calorimetri portatili o fissi. Questo però è molto complicato e pertanto lasciato alla sola pratica sperimentale. Recentemente sono comparsi sul mercato diversi tipi di strumenti portatili che uniscono sensori di calore e accelerometri atti alla valutazione del dispendio energetico da attività fisica direttamente “sul campo”. Spesso questi sono usati da singoli soggetti per l’auto-monitoraggio della propria spesa energetica. Ve ne sono da braccio, da polso e da cintura. Il processo di validazione di questi strumenti è ancora in corso e non tutte le evidenze concordano nel mostrarne un’accuratezza tale da poterli utilizzare con sicurezza nella pratica clinica (4).
Qualora tali strumenti non siano disponibili, è possibile calcolare il TEE moltiplicando il REE per un fattore detto livello di attività fisica o LAF, come suggerito dai Livelli Raccomandati di Energia e Nutrienti (LARN) del 2012 per la popolazione italiana (fabbisogno energetico giornaliero = REE * LAF). Il valore di LAF viene attribuito alle varie attività fisiche riunendole in gruppi omogenei per intensità. Va sottolineato come il REE nei LARN è calcolato con l’equazione di Schofield (4).
L’effetto termogenico degli alimenti è difficilmente calcolabile. Da quanto riportato in letteratura, questo si attesta attorno al 10% dell’REE. L’equazione proposta dai LARN (TEE = REE * LAF) sembra tener conto anche dell’effetto termogenico degli alimenti.
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Screening delle forme secondarie di obesità
Giovanni De Pergola & Domenico Caccavo
Ambulatorio di Nutrizione Clinica, UOC di Oncologia Medica, Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Università degli Studi Aldo Moro di Bari
GENERALITÀ
L’obesità secondaria è determinata da una causa nota e comprende le forme genetiche, le forme endocrine, le forme psicogene e quelle che seguono all’assunzione di alcuni farmaci. L’obesità secondaria è apparentemente molto meno frequente dell’obesità essenziale.
OBESITÀ ENDOCRINE
Obesità neuroendocrine
La regolazione neuroendocrina del comportamento alimentare dipende da alcune aree del sistema nervoso centrale e, in particolare, dell’ipotalamo. Tumori, emorragie, o processi flogistici ipotalamici, come le lesioni causate dagli interventi chirurgici in questa area, possono danneggiare le aree prevalentemente deputate al controllo del senso di fame e sazietà e della spesa energetica, conducendo all’obesità, anche se raramente l’obesità è causata da tali condizioni.
Alterazioni ipofisarie
Morbo di Cushing: caratterizzato da iperproduzione di ACTH e cortisolo. La disposizione dell’adipe è tipicamente centripeta e coinvolge volto, collo, addome e tronco, ma quello che distingue caratteristicamente questa patologia dall’obesità viscerale è la presenza di arti inferiori sottili a causa del depauperamento muscolare.
Ridotta secrezione o azione del GH: può rappresentare un fattore contribuente all’obesità (1).
Acromegalia: anche l’eccesso di GH, come nel caso di gigantismo e acromegalia, può accompagnarsi a obesità centrale (2).
Iperprolattinemia: l’obesità è spesso presente nei pazienti con iperprolattinemia (2).
Ipotiroidismo secondario: il deficit della secrezione di TSH può indurre riduzione dei livelli circolanti degli ormoni tiroidei, con deficit della spesa energetica (3).
Ipogonadismo ipogonadotropo: l’obesità può essere causata anche da deficit della secrezione di gonadotropine, con secondaria ridotta produzione di androgeni (4).
Ipopituitarismo: l’obesità può conseguire ad una condizione patologica caratterizzata da ridotta secrezione di tutti gli ormoni ipofisari, a causa di malattie dell'ipofisi (2).
Altre affezioni endocrine
Ipotiroidismo primitivo: anche il primitivo deficit della capacità della tiroide di sintetizzare T3 e T4 è naturalmente caratterizzato da deficit della spesa energetica (3). Le tiroiditi autoimmuni possono predisporre all’ipotiroidismo e, pertanto, all’incremento ponderale. Se non possono essere definite quale causa di obesità, le pazienti con tale tiroidite autoimmune meritano di essere monitorate per quanto attiene al peso corporeo e ai livelli circolanti di TSH.
Sindrome di Cushing: con iperproduzione di cortisolo (5). Ha le stesse caratteristiche cliniche del morbo di Cushing.
Insulinoma: spesso, ma non costantemente, la neoplasia che coinvolge le β-cellule del pancreas si associa a obesità centrale.
Sindrome dell’ovaio policistico (PCOS): caratterizzata da oligo-anovulazione, iperandrogenismo e cisti ovariche multiple, si associa nella maggior parte dei casi ad obesità centrale (6).
Ipogonadismo primitivo: caratterizzato da primitivo deficit della secrezione degli ormoni sessuali (testosterone nel maschio, estrogeni e progesterone nella donna).
Pseudoipoparatiroidismo: caratterizzato da deficit staturale, collo corto e tozzo, brevità del IV e V metacarpo, deficit mentale di vario grado ed eventuali calcificazioni sottocutanee e cerebrali, si associa frequentemente a incremento ponderale.
OBESITÀ PSICOGENE
Per obesità psicogena si intende una patologia nella quale l’aumento di peso è causato da un ricorso compulsivo al cibo, che può insorgere a seguito di predisposizione genetica o eventi traumatici di natura psicologica o di una sindrome caratterizzata da ansia e/o depressione. Le forme cliniche che hanno identità e rilevanza clinica sono:
- Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge Eating Disorder o BED): caratterizzato dalla presenza di abbuffate, con assunzione veloce e vorace di cibo, e sensazione di perdita del controllo sia sulla quantità sia sulla qualità del cibo ingerito;
- Sindrome dell’Alimentazione Notturna (Night Eating Eating Disorder): caratterizzata da iperfagia notturna, insonnia e anoressia mattutina.
OBESITÀ IATROGENE
Un aumento di peso può essere causato dai farmaci riportati in tabella.
Farmaci che possono causare aumento di peso | |
Anti-infiammatori steroidei | Cortisonici |
Anti-istaminici | Soprattutto quelli di vecchia generazione |
Ipoglicemizzanti | In ordine decrescente, insulina, sulfoniluree, tiazolidinedioni |
Ormoni sessuali femminili | Estrogeni e progestinici (soprattutto se derivati del testosterone) |
Anti-depressivi | Litio, triciclici, MAO-inibitori, SSRI |
Anti-ipertensivi | ß-bloccanti (soprattutto quelli non selettivi di vecchia generazione) e alcuni α-bloccanti |
Anti-psicotici | Olanzapina, clozapina, risperidone, sertindolo, clorpromazina, quetiapina, aloperidolo Clozapina e olanzapina aumentano anche il rischio di diabete tipo 2 e dislipidemia |
Anti-epilettici | Carbamazepina, fenitoina, valproato di sodio, gabapentin |
OBESITÀ DA MALATTIE NEUROLOGICHE E OSTEO-ARTICOLARI
Tutte le patologie invalidanti neurologiche (ictus, ecc) e osteo-articolari (spondilartrosi, gonartrosi, ecc), che inducono una significativa limitazione dei movimenti e conseguentemente della spesa energetica, risultano essere obesiogene.
ALTRE CAUSE
Accanto alle forme di obesità secondarie, che riconoscono una causa, merita di essere ricordato che vi sono fattori che non sono ancora stati identificati con certezza quali causa di obesità, ma sicuramente ne favoriscono fortemente lo sviluppo: il dismicrobismo intestinale (con alterazione del microbiota intestinale), la frequente sollecitazione visiva con alimenti appetitosi e ipercalorici, il deficit di sonno (quantitativo e qualitativo), il social network (soprattutto gli amici che trattiamo), lo stato socio-economico (in particolare, il livello economico e culturale e il fenomeno dell’immigrazione), l’elevata temperatura degli ambienti in cui si vive e/o lavora, la frequente esposizione all’aria condizionata, gli endocrine disruptors, l’età di comparsa della pubertà. Alcuni ricercatori continuano a sostenere l’ipotesi che l’obesità possa persino fare seguito a un’infezione virale.
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Stadiazione delle complicanze dell'obesità
Giovanni De Pergola & Alessandro Nitti
Ambulatorio di Nutrizione Clinica, UOC Oncologia Medica, Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Università degli Studi Aldo Moro di Bari
GENERALITÀ
È stato calcolato che 320.000 persone muoiono ogni anno in Europa per complicanze dell’obesità. Questo dato rappresenta un chiaro problema di salute pubblica in Europa, dove circa il 7.7% di tutte le cause di morte sono riconducibili all’eccesso ponderale. Il rischio aumenta con il crescere dell'indice di massa corporea (BMI > 25 kg/m2) e della circonferenza addominale (waist). L'obesità riduce l'aspettativa di vita di circa 7 anni e, nella popolazione gravemente obesa, di 9 anni nelle donne e 12 anni negli uomini.
COMPLICANZE METABOLICHE
Insulino-resistenza e iperinsulinemia
L’insulino-resistenza è una condizione clinica in cui sono richieste quantità d’insulina superiori a quelle normali per ottenere una risposta quantitativamente normale. La spontanea risposta biologica a tale alterazione è l’ipersecrezione dell’ormone, con stabile iperinsulinemia, che permette di compensare il difetto. Quando si parla d’insulino-resistenza si fa riferimento abitualmente al difetto di trasporto e utilizzazione del glucosio, ma tale condizione riguarda anche i lipidi circolanti, il metabolismo del tessuto adiposo, il turn-over delle proteine della massa magra, la sindrome delle apnee durante il sonno (OSAS), i parametri emostatici e fibrinolitici e i segni precoci dell’aterosclerosi (1).
Alterata glicemia a digiuno, alterata tolleranza glucidica e diabete tipo 2
Quando la risposta delle ß-cellule pancreatiche inizia a diventare insufficiente per progressivo esaurimento di tali elementi cellulari e/o per aggravamento dello stato d’insulino-resistenza, si slatentizzano condizioni quali l’alterata glicemia a digiuno (IFG) e/o l’alterata tolleranza glucidica (IGT) e/o il diabete mellito tipo 2.
Dislipidemia
I pazienti con obesità addominale (waist > 102 cm negli uomini e > 88 cm nelle donne) presentano tipicamente un aumento dei trigliceridi plasmatici, delle particelle piccole e dense del colesterolo LDL e riduzione del colesterolo HDL e dell’apoproteina A1 (2,3).
Iperuricemia
I pazienti con obesità centrale manifestano una maggiore prevalenza di iperuricemia, indotta dalla seguente catena di eventi patogenetici: iperinsulinemia → attivazione del sistema renina-angiotensina II-aldosterone (RAS) → aumento del riassorbimento renale tubulare di urato di sodio. Può contribuire all’iperuricemia un eccessivo introito di alcool o di alimenti ricchi in purine.
RISCHIO TROMBOTICO
I pazienti con obesità addominale presentano alterazioni della coagulazione e della fibrinolisi. In particolare, si verifica un aumento delle concentrazioni plasmatiche e dell’attività dei fattori pro-trombotici (fibrinogeno, fattore von Willebrand, fattore VII) ed anti-fibrinolitici (PAI-1), mentre è ridotta l’attività di alcuni fattori anti-trombotici (proteina C attivata) e fibrinolitici (t-PA) (4,5). La maggiore espressione della P-selectin sulla membrana cellulare e l’incremento dei suoi livelli circolanti induce iperaggregabilità delle piastrine, amplificando il rischio trombotico degli obesi (6).
MALATTIE CARDIO-VASCOLARI
Ipertensione arteriosa
I pazienti con obesità viscerale presentano una maggiore prevalenza di ipertensione arteriosa. Tra i meccanismi prevalgono l’iperattività del sistema simpatico (7) e del sistema RAS e la maggiore produzione di alcune adipochine ed ormoni da parte del tessuto adiposo (leptina, angiotensinogeno, ecc). Anche un difetto di azione dei fattori natriuretici ha un ruolo significativo nel favorire il carico emodinamico in condizioni di eccesso ponderale (8). L’ipertensione dei pazienti obesi è caratterizzata da aumento della pressione differenziale (9), in parte dovuta a un lieve, ma significativo, incremento delle concentrazioni plasmatiche di FT3 (10).
Complicanze vascolari
I pazienti con obesità addominale presentano disfunzione dell’endotelio e accelerazione dell’aterosclerosi (11). Queste alterazioni, associate all’insulino-resistenza, alle alterazioni del quadro lipidico, al maggiore rischio trombotico e ad altri fattori, favoriscono l’incidenza della cardiopatia ischemica e degli eventi cerebrali acuti (TIA e ictus). Nell’obesità sono più frequenti patologie vascolari, quali vene varicose, tromboflebiti ed edema venoso e/o linfatico degli arti inferiori.
Complicanze cardiache
I pazienti con obesità centrale hanno una maggiore prevalenza di cardiopatia ischemica (angina e infarto del miocardio), ipertrofia ventricolare sinistra, fibrillazione atriale, ipertensione polmonare, cuore polmonare, scompenso cardiaco (12) e morte improvvisa da causa cardiologica. Accanto ai meccanismi emodinamici e vascolari che agiscono sul cuore, l’eccessiva concentrazione di acidi grassi liberi (FFA) e citochine (TNF-a, IL-6, ecc), che raggiungono il cuore originando dal tessuto adiposo pericardico ed epicardico, riveste un ruolo determinante nella patologia cardiaca (13). Un importante studio epidemiologico ha dimostrato che il grasso periferico (bacino e cosce) esercita invece un effetto protettivo sul rischio di infarto del miocardio (14).
COMPLICANZE GASTRO-ENTEROLOGICHE
NAFLD (nonalcoholic fatty liver disease o steatosi)
I pazienti con obesità viscerale presentano una maggiore prevalenza di steatosi. Questa alterazione favorisce l’evoluzione della NAFLD in NASH (nonalcoholic steatohepatitis), quadro che presenta le stesse caratteristiche istologiche dell’epatite virale o alcolica. La NASH favorisce a sua volta l’evoluzione in cirrosi epatica e, in alcuni casi, in epatocarcinoma (15).
Calcolosi biliare
L’iperafflusso di FFA al fegato, la maggiore produzione di colesterolo e il deficit dei sali biliari favoriscono la formazione di calcoli biliari nei pazienti obesi. La dieta rigidamente ipocalorica (VLCD, con < 800 kcal/die), se protratta, induce ridotta motilità della colecisti e aumento del rischo di calcolosi della colecisti.
Patologia gastrica
Sono più frequenti nel paziente obeso reflusso esofageo ed ernia jatale.
PATOLOGIE RESPIRATORIE
I pazienti con obesità centrale manifestano un deficit respiratorio sia restrittivo sia ostruttivo (OSAS) e una maggiore prevalenza di patologie respiratorie, quali asma, atelettasia, pneumopatia cronica ostruttiva ed embolia polmonare, sino all’insufficienza respiratoria.
I pazienti con OSAS sono caratterizzati da disturbi del sonno, che nei pazienti obesi sono più frequenti, anche indipendentemente dalla presenza dell’OSAS (16). La maggiore incidenza di ipotiroidismo subclinico può facilitare l’insorgenza di disturbi del sonno nei pazienti obesi (17).
CANCRO
L’obesità addominale è un importante fattore di rischio per il cancro (18). Le sedi maggiormente influenzate dall’accumulo di grasso viscerale sono mammella, endometrio, prostata, colon-retto, esofago, rene, pancreas e complesso testa-collo (18).
ALTERAZIONI ORMONALI
Accanto a insulino-resistenza e iperinsulinemia, l’obesità addominale è caratterizzata da aumento della produzione di cortisolo, comunque sensibile all’inibizione con basse dosi di desametasone (19), deficit di secrezione di GH e IGF-I (20), aumento della conversione di FT4 in FT3, con livelli di FT3 ai limiti alti della norma. Tale fenomeno potrebbe rappresentare un meccanismo di compenso all’accumulo di grasso corporeo (21).
Per quanto attiene a ormoni sessuali e fertilità, è presente iperestrogenismo cronico, sia nella donna sia nel maschio, per aumento della conversione degli androgeni in estrogeni ad opera dell’aromatasi nel tessuto adiposo. Sono presenti ridotta secrezione e pulsatilità delle gonadotropine, soprattutto nella donna, e minore produzione di ormoni sessuali da parte delle gonadi (testosterone nel maschio ed estradiolo nella donna). Tali fenomeni, a causa della ridotta sintesi di SHBG, sono compensati da un aumento della percentuale della frazione libera degli ormoni sessuali. Pertanto, le alterazioni della sfera sessuale sono variabili.
Le donne obese che presentano una normale frequenza dei flussi mestruali presentano un normale numero di follicoli in fase follicolare all’ecografia ovarica, ma presentano anche un deficit della produzione di inibina, che rappresenta un marcatore della funzione endocrina dell’ovaio (22). L’alterazione del ciclo mestruale più frequente nelle donne con obesità primitiva è l’oligomenorrea, la cui presenza correla indipendentemente con la quantità di grasso addominale (23). Indipendentemente dalla frequenza delle mestruazioni, le donne obese hanno una maggiore prevalenza di infertilità. Le alterazioni endocrine e i fattori meccanici sono responsabili di un aumento delle complicanze in corso di gravidanza, a carico sia della mamma sia del bambino.
Gli uomini obesi hanno maggiore incidenza di alterazioni dello sperma (quantitative e qualitative) e dei casi di infertilità.
Sia i maschi sia le donne obesi presentano una riduzione dei livelli circolanti di deidroepiandrosterone (DHEA) (24), verosimilmente per ipercaptazione da parte del tessuto adiposo, che è un reservoir di ormoni steroidei. Poiché il DHEA esercita un effetto termogenetico, tale deficit potrebbe contribuire al persistere dell’obesità.
COMPLICANZE NEFROLOGICHE
Una tipica manifestazione della disfunzione endoteliale a livello renale è la microalbuminuria, che correla con il grado di obesità addominale, l’infiammazione generalizzata e il livello di insulino-resistenza (25). I pazienti con obesità viscerale presentano anche un aumento del rischio di insufficienza renale (26). Sfortunatamente, la perdita di peso intenzionale non sembra rallentare la progressione della nefropatia nei pazienti con insufficienza renale cronica lieve o moderata (27).
COMPLICANZE UROLOGICHE
L’obesità e l’aumento di peso aumentano il rischio di calcolosi renale, più nelle donne che negli uomini (28). I calcoli sono più frequentemente di ossalato di calcio (29). Un’alterazione meccanica propria dell’obesità è la compressione della vescica, che induce pollachiuria.
COMPLICANZE OSTEO-ARTICOLARI
I pazienti con obesità addominale presentano un aumento del rischio di osteoporosi (30) e fratture ossee (31), artrosi (prevalentemente gonartrosi e spondilartrosi, con ernie discali), valgismo delle ginocchia, alterazioni della pressione plantare, sindrome del tunnel carpale. Il deficit di vitamina D, che caratterizza i soggetti obesi (32), ha un ruolo determinante nel favorire l’osteoporosi.
Accanto alle patologie osteo-articolari di natura metabolica e degenerativa, l’obesità centrale favorisce quelle di natura infiammatoria (osteo-artriti) (33). Il dolore e il deficit funzionale che derivano da tali patologie inducono una riduzione del livello di attività fisica e un aggravamento del grado di obesità, creando un circolo vizioso.
COMPLICANZE NEUROLOGICHE E DELLA SFERA PSICHICA
Nei soggetti di mezza età, l’obesità è associata a maggiore rischio di demenza e malattia di Alzheimer (34). Una sana alimentazione, in particolare lo stile mediterraneo, può ridurre il rischio di sviluppare le patologie demenziali, ma non è noto se la riduzione di peso possa prevenirle. Nei pazienti obesi, e soprattutto nel sesso femminile, hanno una maggiore frequenza patologie della sfera psichica quali disturbi del comportamento alimentare, ansia, depressione, deficit dell’autostima, disturbi dell’immagine corporea, isolamento sociale e riduzione dell’attività sessuale.
ALTERAZIONI DEL CAVO ORALE
I pazienti obesi hanno maggiore prevalenza di patologie del cavo orale, quali carie, disgnazie, erosioni dello smalto, ma soprattutto parodontopatie (35). Lo stato pro-infiammatorio cronico e l’insulino-resistenza hanno un ruolo importante nel favorire queste patologie (35).
COMPLICANZE CUTANEE
Nei pazienti obesi sono più frequenti malattie cutanee quali atopia, psoriasi, stasi pigmentosa, intertrigine, acanthosis nigricans, idrosadenite suppurativa, polipo fibroepiteliale e cellulite.
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Genetica dell'obesità e forme genetiche
Giovanni De Pergola, Serena Bavaro
Ambulatorio di Nutrizione Clinica, UOC di Oncologia Medica, Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Università degli Studi Aldo Moro di Bari
Generalità
Se consideriamo i casi più frequenti di obesità che i medici incontrano nella pratica clinica, i fattori genetici incidono per circa il 25%. Inoltre, è stato osservato che ben l'80% dei figli con due genitori obesi presenta obesità, mentre tra i figli di due genitori normopeso meno del 10% sono obesi. Sulla base di questi dati si ha la chiara impressione che l’obesità abbia una determinante componente genetica. In realtà, se consideriamo il significativo aumento dell’incidenza di obesità negli ultimi 30 anni nei paesi occidentali, è difficile pensare che il patrimonio genetico umano possa essersi mutato in modo considerevole negli ultimi anni. Al contrario, è molto più probabile che il marcato aumento della prevalenza di obesità nei paesi industrializzati sia da ricondurre a una variazione dello stile di vita, per cui i figli di genitori obesi hanno un rischio maggiore di diventare bambini obesi a causa del contesto in cui vivono. Le condizioni ambientali, quali la maggiore disponibilità di alimenti ipercalorici e la minore possibilità reale di praticare attività fisica, con ridotta spesa energetica propria dei soggetti sedentari, rappresentano il tipico “ambiente obesogenico”. Merita di essere evidenziato che l’attività fisica esercita un notevole potere sull’espressione dell’ereditarietà, persino superiore a quello dell’alimentazione. Infatti, studi condotti in gemelli finlandesi hanno dimostrato che l’ereditarietà dell’obesità è del 90% tra i gemelli sedentari e soltanto del 20% tra gemelli fisicamente attivi (1).
Forme monogeniche di obesità
Casi di obesità caratterizzati da ereditarietà di tipo mendeliano si associano a mutazioni di geni che codificano per proteine che regolano l’appetito. Studi recenti hanno identificato forme di obesità umana con carattere recessivo dovute ad alterazioni dei geni che inducono la sintesi della leptina, del recettore della leptina, del recettore 4 della melanocortina (MC4R), dell’Agouti-related protein (AgRP), della pro-ormone convertasi 1 (PCSK1) e della pro-opio-melanocortina (POMC).
Tra le forme di obesità a trasmissione autosomica dominante, meno comuni in termini assoluti, quelle più frequenti sono associate a mutazione del gene MC4R, presente in una percentuale dell’1-6% nei bambini e dello 0.5-1% negli adulti, caratterizzate da iperfagia e maggiore precocità e gravità dell'obesità.
Il maggior numero di studi ha però riguardato la leptina e la mutazione del gene che ne induce la produzione. L’evento che ha suscitato il maggiore interesse clinico è stato il successo terapeutico ottenuto con la terapia con leptina in un bambino di 9 anni con obesità grave, che presentava una congenita impossibilità di sintetizzare questo ormone.
A differenza dell’obesità severa osservata nelle rare mutazioni omozigoti dei geni coinvolti nella via della leptina, le mutazioni eterozigoti dei geni di MC4R, LEP, LEP-R e POMC si associano a forme meno gravi e penetranti (2).
Forme sindromiche di obesità
Sono state descritte oltre venti tipologie di sindromi con ereditarietà autosomica dominante, recessiva o legata al cromosoma X, ma soltanto nove di esse sono state mappate in una regione del genoma, con l’identificazione di uno specifico difetto genetico o molecolare.
Le sindromi mendeliane con obesità che presentano la maggiore incidenza, sono:
- la sindrome di Prader-Willi (PWS);
- la sindrome di Bardet-Biedl (BBS);
- la sindrome di Angelman;
- l’osteodistrofia ereditaria di Albright (AHO);
- la sindrome da insulino-resistenza primaria tipo C (in cui l’obesità si associa a iperandrogenismo e acanthosis nigricans);
- la sindrome di Alström;
- l’acondroplasia;
- la WAGR (tumore di Wilms - aniridia - anomalie genito-urinarie - ritardo mentale).
In quasi tutte queste sindromi è presente ritardo mentale, di gravità variabile, ed in alcune di esse sono presenti iperfagia e alterazioni a carico degli assi di origine ipotalamica, permettendo di ipotizzare che tali sindromi abbiano origine da un’alterazione che concerne il SNC.
La sindrome di Prader-Willi è la più comune tra le forme sindromiche di obesità (prevalenza: 1/25.000 nati). Accanto all’eccesso ponderale, questa sindrome manifesta una ridotta attività fetale, ipotonia alla nascita, ridotta statura, ipogonadismo, mani e piedi di dimensioni ridotte e iperfagia (che si manifesta a 12-18 mesi di vita). I pazienti affetti da PWS sopravvivono raramente oltre i 30 anni e le principali cause del decesso (diabete mellito e malattie cardiovascolari) sono conseguenza dell’eccessivo introito alimentare e della precoce obesità. La PWS è prevalentemente indotta da una delezione del segmento paterno 15q11.2-12, che comporta la perdita dei geni ereditati lungo la linea paterna.
La sindrome di Bardet-Biedl, il cui esordio è molto precoce, è caratterizzata da ritardo mentale, retinopatia pigmentosa, polidattilia, alterazioni renali, ipogenitalismo e obesità. La BBS è un disordine geneticamente eterogeneo che si associa a ben 8 loci differenti, ciascuno dei quali si ripercuote sul fenotipo con minime differenze.
Obesità favorita dall’associazione con polimorfismi di singoli nucleotidi
Nel 2005 hanno avuto inizio gli studi di genome-wide association (GWAS) e, da allora, ne sono stati effettuati numerosi concernenti l’obesità. Questo approccio prevede la verifica di un’associazione tra una delle numerose varianti nucleotidiche comuni (single nucleotide polymorphisms [SNPs]) esistenti e la presenza di obesità o di caratteristiche proprie dei pazienti in eccesso ponderale. In pratica, viene esaminata la frequenza di specifici polimorfismi negli obesi e nei soggetti normopeso. Nello specifico, gli studi GWAS hanno permesso d’identificare i polimorfismi dei geni che controllano l'appetito e il metabolismo glicolipidico e che possono predisporre all'obesità. Nelle popolazioni europee sono stati individuati 32 loci associati con il BMI e 14 loci associati con il rapporto circonferenza dell’addome/circonferenza dei fianchi (WHR), aggiustato per il BMI (2).
Il polimorfismo più importante da un punto di vista epidemiologico e clinico è quello localizzato nell’introne 1 del gene del FTO, proteina associata alla massa grassa e all’obesità. Rispetto ai soggetti di pari altezza ed età che non manifestano l’allele di rischio, gli individui con una variante del locus del FTO hanno in media 3-4 kg in più e un rischio di sviluppare obesità 1.67 volte maggiore (3).
Altri due poliformismi significativi sono quelli posizionati in vicinanza del gene TMEM18 (proteina trans-membrana 18) e del MC4R (4). Sono state descritte anche varianti genetiche correlate a modificazioni della differenziazione dei pre-adipociti in adipociti (5).
Missing heritability
Con questo termine si intende la ricerca dei fattori che possono contribuire all’ereditarietà dell’obesità non spiegata con gli approcci descritti precedentemente (obesità monogeniche, forme sindromiche di obesità, obesità favorite dall’associazione con polimorfismi di singoli nucleotidi). Il problema della missing heritability descrive il gap esistente tra il rischio di sviluppare obesità (BMI ≥ 30) sulla base dei polimorfismi identificati mediante gli studi GWAS (2%) e l’ereditarietà stimata in accordo agli studi condotti in gemelli o in famiglie (40-70%). Senza entrare in troppi dettagli, le tecniche utilizzate a tale scopo sono la “genome-wide complex trait analysis”, le “rare variants”, le “copy number variants”, le “interazioni gene-gene” e la “epigenetica” (2). Quest’ultima studia i meccanismi molecolari mediante i quali l'ambiente modifica l’attività dei geni, senza modificarne le sequenze nucleotidiche. In tali casi, l’espressione genetica può essere modulata da 3 categorie di fenomeni:
- blocco della trascrizione, mediante metilazione diretta del DNA;
- modificazione diretta degli istoni mediante metilazione o acetilazione o fosforilazione;
- microRNA.
Bibliografia
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Criteri per l'impostazione terapeutica dell'obesità
Giovanni De Pergola
Ambulatorio di Nutrizione Clinica, UOC di Oncologia Medica, Dipartimento di Medicina Interna e Oncologia Umana (DIMO), Università degli Studi Aldo Moro, Policlinico di Bari
(aggiornato al 12 gennaio 2020)
L’obesità, in particolare quella caratterizzata da un accumulo di grasso in sede viscerale (obesità addominale o centrale), è una malattia cronica responsabile di patologie metaboliche, cardio-vascolari e osteo-articolari, alterazioni endocrinologiche, infertilità, sindrome dell’apnea ostruttiva durante il sonno (OSAS), cancro e altre alterazioni. Tutte queste anomalie, considerabili complicanze della malattia, sono causa di disabilità e della riduzione della qualità e della durata della vita. Tali dati hanno particolare rilevanza se si considera che oggi l’obesità è un problema epidemico e che il maggiore incremento nella sua prevalenza si è verificato negli ultimi 40 anni (1).
La perdita di peso deve essere raccomandata in tutti i pazienti con obesità o in sovrappeso, in tale ultimo caso se coesistono patologie quali pre-diabete, diabete mellito tipo 2, ipertensione arteriosa e dislipidemia (2). L’obiettivo iniziale deve essere un calo ponderale compreso tra il 5 e il 10% del peso iniziale nell’arco dei primi 6 mesi di trattamento, ma può essere necessaria una riduzione > 10% in caso di obesità di III grado (3). In realtà, una moderata riduzione di peso (5-10%) offre importanti benefici clinici soltanto se è mantenuta a lungo termine (4). La tabella 1 sintetizza il trattamento dell’obesità a livello dei servizi di cure primarie, ma anche a livello specialistico, in accordo alle linee guida SIO-ADI 2016-2017 (5).
Tabella 1 Trattamento dell’obesità a livello dei servizi di cure primarie |
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Livelli di partenza BMI (kg/m2) | Obiettivo riduzione ponderale |
25-29.9 | 5-10% in 6 mesi |
30-34.9 | 5-15% in 6-12 mesi |
35-39.9 | 15- > 20% in 12 mesi |
Nei pazienti con storia pregressa di frequenti insuccessi terapeutici e/o con livello molto basso di motivazione, il trattamento da proporre è una terapia di mantenimento del peso, in attesa di poterne iniziare una per il calo ponderale |
Il calo ponderale induce benefici reali e quantificabili in termini di morbilità e mortalità nei soggetti con sovrappeso o obesità. Peraltro, dopo avere ottenuto il calo ponderale iniziale, il mantenimento del peso perso è il principale obiettivo e risulta necessaria la partecipazione dei pazienti a un progetto terapeutico della durata di almeno un anno (3).
A differenza di altre patologie, come l’ipertensione arteriosa, il trattamento a lungo termine è di difficile realizzazione, poiché l’obesità ha una patogenesi multi-fattoriale, che prevede il contributo di componenti ambientali, socio-culturali, fisiologiche, mediche, comportamentali, genetiche, epigenetiche, ecc (6). Quindi, se l’origine della obesità è multi-fattoriale, anche la sua gestione deve essere multi-disciplinare, utilizzando in modo integrato i diversi strumenti disponibili (educazione alimentare, esercizio fisico, terapia cognitivo-comportamentale, farmaci, chirurgia bariatrica) e le diverse competenze professionali, che devono condividere l’obiettivo terapeutico (4).
Deve essere enfatizzato che la terapia può controllare la malattia obesità, ma non prefiggersi di guarirla. Infatti, anche quando si ottiene un considerevole calo ponderale, il paziente con obesità tende spontaneamente a recuperare il peso perduto e necessita di essere monitorato a lungo termine. Il team terapeutico dovrebbe quindi sorvegliare il paziente nel corso del tempo, utilizzando tutti gli accorgimenti che possono permettere di tenere sotto controllo il peso corporeo e le eventuali complicanze che possono derivare dal suo eccesso.
Il primo gradino della terapia è rappresentato dalle modifiche dello stile di vita, attraverso l’educazione alimentare e l’esercizio fisico. L’introduzione di un supporto farmacologico dovrebbe invece essere presa in considerazione quando gli altri presidi non farmacologici si sono dimostrati insufficienti, come nel caso di un inadeguato calo ponderale iniziale o, una volta raggiunto il peso appropriato, quando questo non può essere mantenuto con lo stile di vita (7,8).
Il principio fondamentale nella programmazione della dieta del paziente con eccesso ponderale è che deve essere ipocalorica, ma anche sostenibile a lungo termine, senza generare un vissuto di stress, che induce ad abbandonarla. Sebbene gli studi disponibili dimostrino che non esistono modelli di dieta migliori di altri (ad esempio modificando le percentuali dei macro-nutrienti: carboidrati, proteine e lipidi) se vengono pareggiate le calorie, alcuni autori, tra i quali il sottoscritto, sono convinti che alcuni modelli di dieta possano essere più efficaci di altri proprio perché permettono di seguire le diete ipocaloriche con maggiore facilità. Nello specifico, il modello ideale di dieta è quello che riduce il senso di fame e la secrezione d’insulina, ormone lipogenetico, rallenta lo svuotamento dello stomaco, prolungando il senso di sazietà e rallentando l’assorbimento dei nutrienti, e aumenta la spesa energetica. Questo modello è caratterizzato da una maggiore percentuale di proteine, una minore percentuale di carboidrati, un basso indice glicemico e un maggiore contenuto di fibre.
Per quanto attiene all’esercizio fisico, questo aumenta il metabolismo basale, riduce la glicemia, aumenta il trasporto del glucosio favorito dalla contrazione, aumenta la sensibilità periferica all’insulina, riduce i livelli circolanti di colesterolo totale e trigliceridi e aumenta quelli di colesterolo HDL. Ancora, migliora l’efficienza contrattile cardiaca, riduce la frequenza cardiaca e le resistenze periferiche, riduce la pressione arteriosa sistolica e diastolica, migliora l’elasticità delle pareti arteriose, migliora mobilità e flessibilità articolare, previene la demineralizzazione dell’osso, migliora la funzionalità respiratoria, aumenta il tono dell’umore e riduce l’ansia. L’esercizio più efficace per raggiungere la stabilizzazione della perdita di peso è quello di tipo aerobico rispetto a quello di tipo anaerobico, ma il massimo risultato si ottiene con un programma di lavoro che preveda entrambe le tipologie di attività fisica (9).
Per quanto concerne la terapia farmacologica, quella dell’obesità ha delle peculiarità rispetto ad altre patologie; infatti, i farmaci possono contribuire alle modificazioni dello stile di vita ed essere utilizzati in maniera intermittente (4). Il paziente deve essere aiutato ad acquisire capacità di auto-gestione e abilità decisionale e le parole chiave, per il medico che ha in gestione il paziente con obesità, devono essere “insegnare” ed “educare” e non “prescrivere”.
Un aspetto innovativo per quanto attiene alla terapia dell’obesità è che il parametro da controllare non può più essere soltanto il peso corporeo; devono essere monitorati anche l’accumulo di grasso in sede addominale, valutabile indirettamente mediante la circonferenza addominale, e pressione arteriosa, glicemia, assetto lipidico, ecc. Un ulteriore messaggio riguarda la necessità di stabilire obiettivi clinici reali, valutando il successo terapeutico sulla base degli effetti del calo ponderale sulle complicanze e sulle principali patologie correlate all'obesità: diabete mellito di tipo 2, ipertensione arteriosa, iperlipidemia, grasso viscerale, sleep apnea, patologia osteo-articolare, funzione psico-sociale, funzione riproduttiva.
Se si considerano le sole metodologie non chirurgiche, il fattore che maggiormente predice la perdita di peso a lungo termine è la velocità del calo ponderale inziale (10,11). Pertanto, una scarsa perdita di peso dopo 3-4 mesi di trattamento dovrebbe indurre a modificare la strategia terapeutica.
La continua valutazione dei risultati permette continui aggiustamenti della dieta, del tipo e del livello di esercizio fisico, dell’approccio cognitivo-comportamentale, del tipo e della dose dei farmaci (12,13). Il soggetto obeso che ha perso peso deve essere sempre monitorato per la possibilità del rischio di ricadute e il cuore del problema sta proprio nel concetto di obiettivo e di successo terapeutico (14). Il reale obiettivo clinico deve essere quello di migliorare in modo soddisfacente i rischi di morbilità e di mortalità, specialmente cardio-vascolari.
Se con dieta, attività fisica, terapia comportamentale e terapia farmacologica non si riesce a ottenere i risultati desiderati, si può prendere in considerazione la chirurgia bariatrica (figura). Questa deve essere valutata come opzione terapeutica nei pazienti adulti (età 18-60 anni) con obesità severa (BMI > 40 kg/m² o BMI > 35 kg/m² se in presenza di comorbilità associate), in cui precedenti tentativi di perdere peso e/o di mantenere la perdita di peso con tecniche non chirurgiche siano falliti e in cui vi sia la disponibilità a un prolungato follow-up post-operatorio.
La tabella 2 sintetizza i criteri guida per la scelta del trattamento integrato del paziente obeso.
Tabella 2 Guida per la scelta del trattamento integrato del paziente obeso |
|||||
BMI | |||||
Trattamento | 25–26.9 | 27–29.9 | 30–34.9 | 35–39.9 | > 40 |
Dieta, esercizio fisico, terapia comportamentale | + | + | + | + | + |
Terapia farmacologica | - | Con comorbilità | + | + | + |
Terapia chirurgica | - | Con comorbilità | + | + |
Sebbene la chirurgia bariatrica induca una marcata perdita di peso e la scomparsa del diabete a fronte di un piccolo rischio di serie complicanze, essa è consigliata in una percentuale di pazienti ancora bassa (2). La chirurgia bariatrica è da considerarsi contro-indicata nei pazienti che presentino una delle seguenti condizioni: assenza di un periodo di trattamento medico verificabile, incapacità a partecipare a un prolungato protocollo di follow-up, patologia psichiatrica maggiore, alcolismo e tossico-dipendenza, ridotta aspettativa di vita e inabilità a prendersi cura di se stessi in assenza di un adeguato supporto familiare e sociale (5).
Bibliografia essenziale
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Terapia comportamentale dell'obesità
Simonetta Marucci
ASL1 Perugia, Residenza DCA Todi
L’obesità è una malattia cronica, che necessita di un supporto professionale continuo ed integrato, in quanto è gravata da elevata comorbilità e mortalità e ha un impatto notevole sulla spesa sanitaria, a causa delle disabilità conseguenti al sovrappeso stesso ed alle complicanze della Sindrome Metabolica.
Esiste una forte evidenza che sia sufficiente una perdita di peso pari al 10% per ridurre significativamente le complicanze mediche associate all’obesità (1), ma il problema principale nella cura dei pazienti obesi è il recupero del peso corporeo dopo un periodo di terapia dietetica, in una elevata percentuale di casi. Inoltre, l’obesità si associa, non di rado, a comportamenti alimentari di tipo compulsivo che rendono più difficile l’adesione a stili di vita corretti.
I programmi terapeutici rivolti al paziente obeso sono sempre più rispondenti ad un modello integrato interdisciplinare, in cui coesistono medici internisti, nutrizionisti, psichiatri, psicologi che prendono in considerazione non solo l’obiettivo della perdita di peso attraverso il controllo del pattern alimentare, ma, soprattutto, il mantenimento del peso perduto attraverso un cambiamento progressivo degli stili di vita, perseguendo il miglioramento della salute fisica e psicologica, della stima di sé e della globale qualità della vita. Le Terapie Cognitivo-Comportamentali sono quelle che, a tal fine, hanno rivelato la maggiore efficacia (2). Le principali caratteristiche che definiscono tale approccio si possono riassumere in alcuni punti fondamentali.
Valutazione iniziale e orientamento verso un obiettivo
E’ importante avere un buon inquadramento del paziente, considerando i fattori biologici e genetici della sua obesità, ma anche il suo funzionamento sociale, la storia del suo problema di peso, indagando la ragione per cui egli richiede il trattamento e la sua motivazione a sottoporsi ad esso.
Sono importanti le informazioni riguardanti le sue abitudini alimentari e l’esercizio fisico, che forniranno la base da cui partire per pianificare il trattamento. L’obiettivo principale non sarà solamente la perdita di peso ma anche il cambiamento in termini psicosociali. Soprattutto, non bisogna stabilire un obiettivo di peso non realistico rispetto alla storia clinica del paziente: il peso da raggiungere non potrà essere inferiore a quello più basso che egli ha avuto dai 21 anni in poi e che ha mantenuto per almeno 1 anno (3). In ogni caso, una riduzione del 10% si considera sufficiente per ridurre i rischi legati a complicanze mediche quali ipertensione, diabete, iperlipemia.
E’ fondamentale che il terapeuta discuta con il paziente la perdita di peso che quest’ultimo desidera, per evitare che egli aderisca irrealisticamente ad un proprio obiettivo, fallendo il quale si espone al rischio di un dropout.
Componenti del trattamento
Uno degli elementi fondamentali è l’automonitoraggio, basato sulla registrazione in un diario alimentare del cibo che viene assunto ad ogni pasto e delle emozioni e stati d’animo eventualmente associati al comportamento alimentare. Questo permette di identificare le situazioni che possano essere associate a perdita di controllo, portando ad un livello di consapevolezza i comportamenti reattivi. Il paziente discute poi, nell’incontro settimanale con i terapeuti, i propri risultati e le proprie prese di coscienza sui fattori di mantenimento di comportamenti a rischio, ricevendone un feed-back, volto a sviluppare strategie mirate al controllo degli stimoli.
Si lavora gradualmente sull’obiettivo di limitare l’esposizione ad un eccesso di cibo, programmando la lista della spesa, non lasciando grandi quantità di alimenti disponibili in casa e sulla tavola, al di fuori di quelli previsti per il pasto, definendo esattamente il tempo ed il luogo del pasto, non associandolo ad altre attività (es: mangiare davanti al PC o alla televisione).
Ristrutturazione cognitiva
Ha l’obiettivo di aiutare il paziente a superare tutti quei pensieri autosvalutanti che vanno a minare, a lungo andare, gli sforzi e la motivazione a perdere peso. I pensieri ricorrenti riguardano la convinzione di non poter perdere peso, gli obiettivi non realistici riguardanti il proposito di non toccare mai più alimenti ritenuti colpevoli del sovrappeso (dolci, pasta, ecc.) o il senso di fallimento che accompagna un episodio di perdita di controllo, con la convinzione che gli sforzi fatti siano inutili. Questa fase della terapia ha l’obiettivo di aiutare il paziente ad accettare anche perdite di peso modeste, elaborando risposte razionali alle proprie percezioni negative e stimolando la soddisfazione per la propria immagine corporea (2).
Problem solving
L’automonitoraggio permette al paziente di individuare facilmente le difficoltà connesse con il cibo e con il peso, portandolo poi a discuterle con il terapeuta, cercando di individuare insieme e valutare le possibili soluzioni, che poi verranno pianificate nello schema comportamentale.
Educazione nutrizionale e delle modalità di consumazione del pasto
La dieta deve essere ben bilanciata, con una adeguata quantità di carboidrati complessi ed un controllo degli zuccheri semplici e dei grassi, ma non esiste un controllo ferreo delle quantità. Si cerca, invece, di aiutare il paziente a ridurre la velocità nel consumare il pasto, allo scopo di aumentare la sazietà, riducendo spontaneamente la quantità di cibo, attraverso delle tecniche semplici. Masticare bene prima di ingoiare, appoggiare la forchetta tra un boccone e l’altro, preparare una porzione alla volta nel piatto, non fare altre attività mentre si mangia e, soprattutto, percepire il piacere del profumo e del gusto degli alimenti. I soggetti che aderiscono a questi programmi comportamentali risultano avere perdite di peso più significative (4).
Attività fisica
Rappresenta un obiettivo importante, poiché è correlato alla possibilità di controllo del peso a lungo termine. Si parte aiutando il paziente a monitorare la propria attività fisica, e poi si incoraggia ad incrementarne il livello. Anche qui si procede con gradualità, per evitare che il paziente sperimenti situazioni fallimentari legate ad obiettivi irrealistici.
I risultati a breve termine sono soddisfacenti, ottenendo il raggiungimento dell’obiettivo della perdita del 10% di peso in un arco di 30-35 settimane (5) con l’80% di adesione al programma terapeutico. A lungo termine il problema resta sempre quello del recupero del peso perduto che, nell’anno successivo, riguarda circa il 35% dei pazienti che diventano il 50% dopo 5 anni.
Alcuni ricercatori propongono un periodo più prolungato di incontri di mantenimento finalizzati a supportare il paziente nella sua motivazione, evitando il relapse (6).
Si stanno sviluppando modifiche al classico modello Cognitivo-Comportamentale, per puntare maggiormente ad evitare l’abbandono del programma terapeutico da parte del paziente, puntando su una relazione terapeutica collaborativa in cui il paziente stesso assume un ruolo attivo nell’individuare le strategie utili al raggiungimento e mantenimento degli obiettivi (7).
In ogni caso, è molto difficile mantenere grandi perdite di peso a causa delle risposte biologiche compensatorie che l’organismo oppone alla riduzione delle riserve adipose.
Bibliografia
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Terapia dietetica dell'obesità
Giuseppe Malfi
SC Dietetica e Nutrizione Clinica, ASO Santa Croce e Carle, Cuneo
(aggiornato al 5 agosto 2016)
La terapia dietetica rappresenta uno dei cardini del trattamento dell’obesità. È stato dimostrato che i risultati sono significativamente migliori quando la terapia dietetica è inserita in un intervento multi-disciplinare, che includa indirizzi per una variazione stabile dello stile di vita e un monitoraggio attivo (1). La variazione dello stile di vita è basata, oltre che sul tipo di alimentazione, anche sull’incremento dell’attività fisica; include inoltre norme comportamentali, indispensabili per ottenere sia la riduzione ponderale che il mantenimento a lungo termine del livello ponderale raggiunto.
La variazione stabile dello stile di vita è un obiettivo di non facile acquisizione, sia perché necessita di un’auto-gestione comportamentale di lungo periodo da parte dei pazienti, sia perché è indubbio che l’attuale ambiente è obesogeno (disponibilità a basso costo di alimenti ad alto contenuto energetico e riduzione delle necessità di attività fisica). Ne consegue che gli attuali risultati di lungo periodo del trattamento dell’obesità sono scoraggianti, osservandosi nella quasi totalità degli studi un re-incremento parziale o totale del peso precedentemente perso. I criteri correntemente ritenuti utili per migliorare il risultato di lungo periodo sono rappresentati da:
- programmazione e gestione specialistica di programmi di lunga durata, che includano perlomeno una fase iniziale intensiva – spesso erogata a piccoli gruppi di pazienti – durante la quale le variazioni consigliate dello stile di vita siano dettagliatamente esposte ai pazienti in forma aperta, con approfondita discussione, e fasi successive di monitoraggio attivo, con contatti tra pazienti e professionisti frequenti e prolungati (almeno ogni 12 mesi);
- prescrizione di terapie dietetiche valutate sul singolo individuo, presentate e spiegate in modo semplice e compatibile con le esigenze di vita del singolo, e quindi rivalutate nel tempo, con la possibilità di attuare le variazioni che si rendano necessarie, sia su base clinica che a seguito delle esigenze del paziente. Ciò significa evidentemente l’esclusione dell’utilizzazione di schemi dietetici fissi e pre-ordinati.
Le raccomandazioni nazionali (2) e internazionali (3) prevedono che la dieta sia basata su una riduzione rispetto ai fabbisogni di 500 (obesità classe I-II) - 1000 (obesità classe III) kcal/die. Il fabbisogno calorico viene calcolato sommando al fabbisogno metabolico di base (4) il coefficiente di attività fisica (5); nell’obesità di classe III è consigliata, per la valutazione del fabbisogno basale, l’utilizzazione della formula di Mifflin-St Jeor specificamente validata per questi individui (6). Le stesse raccomandazioni prevedono che la dieta ipocalorica utilizzi una ripartizione fisiologica dei macro-nutrienti (tabella 1).
Tabella 1 Ripartizione fisiologica dei macro-nutrienti |
|
Classe | % delle calorie totali |
Glicidi | 55-60 |
Proteine | 15-20 |
Lipidi | 20-30 |
I glicidi devono essere rappresentati in maggioranza da polisaccaridi, preferibilmente contenuti in alimenti ad alto contenuto in fibre e a ridotto indice glicemico (alcuni tipi di pasta e pane preferibilmente integrali, legumi, ecc), limitando i disaccaridi (latte, frutta) a quantità < 10-12% dell’energia totale.
Per i lipidi è indicata una limitazione degli alimenti ad alto contenuto in acidi grassi saturi e colesterolo (latte intero e derivati: yogurt intero, formaggi; uova; carni bovine e suine; lipidi da condimento di derivazione animale), e una preferenziale prescrizione di alimenti ad alto contenuto in acidi grassi mono- (olio di oliva) e poli-insaturi (pesce, pollame, oli di derivazione vegetale, ecc), con una ripartizione del 10% dell’energia totale per ciascuno dei gruppi di acidi grassi.
L’alcol è solitamente escluso.
Un’eventuale limitazione del sodio va valutata sull’esistenza di indicazione specifiche a questa restrizione (ipertensione, patologie cardiache o epatiche determinanti ritenzione idro-sodica).
Queste indicazioni generali vanno considerate alla luce della valutazione clinica del singolo individuo: la presenza di diabete scompensato può indirizzare verso una maggiore restrizione calorica, le dislipidemie verso una riduzione maggiore dei glicidi (ipertrigliceridemia prevalente) o dei lipidi (ipercolesterolemia prevalente). Vanno inoltre considerate le necessità logistiche dei pazienti (tipo e orari di lavoro, pasti fuori casa, frequenza di spostamenti fuori residenza, …), la loro alimentazione abituale (essenziale condurre un’anamnesi alimentare, anche se approssimata), le preferenze/avversioni alimentari; quando indicato, deve essere valutato il sospetto di disturbo del comportamento alimentare.
Infine è basilare valutare la storia dell’obesità, inclusi i precedenti tentativi di riduzione ponderale e i loro esiti; le cause degli eventuali precedenti fallimenti vanno discusse con il paziente, per evitare di ripetere indicazioni prescrittive rivelatesi insostenibili, e devono essere chiarite le cause di un'eventuale difficoltà alla compliance alle prescrizioni.
Sono state proposte diete a differente livello calorico e a diversa distribuzione dei nutrienti, al cui riguardo esiste una notevole letteratura. In questa sede saranno di necessità forniti solo alcuni cenni.
Very-low calorie diets (diete a contenuto calorico ≤ 800 kcal/d)
La composizione usuale prevede un apporto proteico di almeno 70 g/die, con quota glicidica e lipidica molto contenute (non superiore a ~ 80 g/die per i glicidi e intorno ai 15 g/die per i lipidi). Vista la difficoltà a gestire un’alimentazione così ridotta con alimenti naturali, vengono generalmente utilizzate preparazioni industriali. Il contenimento della quota glicidica al di sotto dei 50 g/die e, in particolare, non > 1 g/kg peso ideale/die, è in grado di indurre una chetogenesi (dieta chetogenica), con conseguente riduzione della fame e migliore adesione al piano nutrizionale proposto. Le indicazioni alla dieta chetogenica e alle VLCD in generale dovrebbero essere riservate a pazienti ben selezionati, che necessitano di rapido calo ponderale (obesi classe III in scompenso cardio-respiratorio o in preparazione ad interventi di chirurgia bariatrica o altra chirurgia scarsamente differibile, obesi classe II con indicazioni cliniche a rapido dimagramento). È comunque necessaria la supplementazione con poli-vitaminici e micro-elementi, abbondante apporto idrico e, nella dieta chetogenica, bicarbonato di sodio e potassio con un’attenta valutazione dell’andamento clinico-metabolico. Alcuni autori sottolineano l’importanza della supplementazione di DHA per l’effetto anti-infiammatorio (7). Costituiscono controindicazioni alla dieta chetogenica gravidanza e allattamento, disturbi del comportamento alimentare, abuso di alcool e altre sostanze, insufficienza epatica o renale, diabete tipo 1, porfiria, angina instabile, IMA recente. Tali diete dovrebbero essere seguite (8) sotto stretto controllo medico per un periodo di tempo comunque limitato alle 12-16 settimane, con successiva fase di riabilitazione nutrizionale e stabilizzazione. Per quanto la letteratura abbia in passato segnalato, relativamente alle VLCD, risultati a lungo termine insoddisfacenti (9), articoli più recenti hanno iniziato a riportare dati più confortanti nei risultati a medio termine (10) rispetto alle low calorie diet.
Low-carbohydrate diets e low-fat diets
Il livello minimo quotidiano di glicidi consigliato dall’American Diabetes Association è di 130 g/die (11). Sono state proposte diete a contenuto glicidico basso (low carbohydrate, LCD, 40-60 g/die, ~30-45% delle calorie) e molto basso (very-low carbohydrate, VLCD, con apporti glicidici di tipo chetogenico, 20 g/die, < 30% delle calorie di cui si è già parlato).
Le diete a ridotto contenuto lipidico sono rappresentate dalle low-fat (LFD, 10-20% delle calorie) e dalle very-low fat diets (VLFD, < 10% delle calorie).
Una meta-analisi del 2006 (12) che ha analizzato i risultati del confronto tra LCD e LFD, ha evidenziato:
- una migliore riduzione ponderale ottenuta dalle LCD a 6 mesi, e nessuna differenza a 1 anno;
- migliori risultati a 6 mesi delle LCD sulle variazioni di trigliceridi e colesterolo (Col) HDL, e delle LFD su Col e LDL-Col.
Due studi successivi (13,14) riportano risultati discordanti per il peso (migliore dimagramento a 1 anno con LCD, nessuna differenza a 1 anno), ma concordanti sul migliore effetto delle LCD su trigliceridi e HDL-Col a 1 anno.
Uno studio randomizzato del 2014 (15) ha confermato migliori risultati delle LCD rispetto alla LFD su calo ponderale, riduzione dei trigliceridi e aumento del colesterolo HDL. Una meta-analisi che ha confrontato diete a basso (4-40% calorie) e alto (50-70% delle calorie) contenuto in glicidi in diabetici tipo 2 (16) non ha evidenziato differenze nell’andamento del peso, ma migliore riduzione con LCD di trigliceridi, glicemia e HbA1C.
Due studi pubblicati nel 2009 e 2012 a opera di uno dei maggiori centri USA, che hanno analizzato le variazioni di peso a 6 mesi e a 2 anni (17) e le variazioni di composizione corporea a 6 mesi (18) in soggetti randomizzati a diete con differente contenuto lipidico (20% vs 40%), glicidico (55-65% vs 35-45%) e proteico (15% vs 25%), non hanno rilevato differenze significative sia della riduzione ponderale che delle variazioni di composizione corporea nei differenti gruppi di soggetti mantenuti a diete differenti. In questo studio, come peraltro già segnalato in numerosi altri studi (19), il maggior fattore determinante la riduzione ponderale si è dimostrato l’aderenza al programma di educazione e di monitoraggio, e cioè alla frequenza dei contatti paziente/professionista.
Caratteristiche principali di alcuni tipi di diete molto diffuse nel mondo | ||||
Dieta | Proteine | Lipidi | Carboidrati | Distribuzione calorica |
Atkins | 55-65% | ↓ < 100 g/die | Ipoglucidica | |
Weight watchers | Ipocalorica "a punti" | |||
Ornish | ↓ | Ipolipidica | ||
Dukan (articolata in varie fasi) | Iperproteica | ↓ | Ipoglucidica | |
Zona | Iperproteica | 40% C, 30% P, 30% L |
Si può quindi concludere che, all’interno di un’ovvia impostazione dietetica di limitazione dell’apporto nutritivo totale, nella terapia dell’obesità il risultato di medio/lungo periodo è fortemente condizionato dall’interazione positiva tra il paziente e il curante, utile a protrarre nel tempo i cambiamenti instaurati. Programmi di lunga scadenza, che prevedano frequenti contatti per almeno 1 anno e successivi moduli di mantenimento, gestiti da professionisti esperti in grado di interagire con il paziente stimolando la motivazione al trattamento, la presa di coscienza e l’autogestione della variazione stabile dello stile di vita, la gestione delle difficoltà e delle recidive, rappresentano al momento il trattamento di riferimento.
Bibliografia
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Contenuto alimenti e creazione diete personalizzate
Fulvio Sileo & Anna Lucchini
Endocrinologia & Dietologia, Ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo
Tenendo presenti i criteri esposti nel capitolo sulla terapia dietetica e le tabelle di composizione degli alimenti, si possono creare diete specifiche individualizzate in relazione alla tipologia di paziente e al numero di calorie richiesto.
Prima di passare alle diete specifiche, è opportuno tenere presenti le regole generali illustrate nella tabella.
Regole generali per l'impostazione di una dieta ipocalorica | ||
Gruppo di alimenti | Utilizzare/preferire | Escludere |
Latte e latticini | Latte scremato o parzialmente scremato, preferibilmente fresco Yogurt bianco magro |
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Pane | Pane integrale (da preferire) o comune, tostato Fiocchi di cereali semplici Grissini, fette biscottate, confezionati senza grassi |
Pane all’olio, al latte, condito in genere Fiocchi di cereali addizionati con zucchero, miele, cioccolato, frutta, ecc. |
Pasta | Pasta, riso (consigiiati integrali), semolino, orzo nella stessa quantità È possibile consumare la polenta in sostituzione della pasta Condire con olio crudo, pomodoro, verdure o cuocere in brodo di carne sgrassato o vegetale |
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Carne | Tacchino, pollo, cavallo, coniglio, maiale magro, vitello, vitellone, manzo, agnello, capretto, faraona, anatra Usare le parti più magre e private del grasso visibile Cottura: senza grassi, che saranno eventualmente aggiunti crudi a fine cottura |
Eliminare la pelle del pollame prima della cottura |
Pesce (fresco o surgelato) | Consigliato circa 2-3 volte per settimana Pesce magro: cernia, dentice, merluzzo o nasello, palombo, pesce spada, alici, sarda, sogliola, tinca, luccio, trota, calamaro, polpo, seppia Cottura: senza grassi, che saranno eventualmente aggiunti crudi a fine cottura |
Limitare pesce semigrasso: spigola o branzino, orata, triglia, carpa, cefalo, tonno, sgombro, salmone, storione Escludere pesce grasso: aringa, anguilla, capitone |
Formaggi | Da consumare massimo 3-4 volte per settimana Gruppo A: crescenza, caciottina di mucca, camembert, italico, mozzarella di bufala, scamorza, stracchino, taleggio Gruppo B: asiago, brie, caciocavallo, caciotta toscana, emmenthaler, fontina, gorgonzola, grana, groviera, parmigiano reggiano, pecorino, provolone, robiola, branzi o altri formaggi locali Mozzarella di mucca e ricotta di mucca e pecora |
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Salumi | Da consumare massimo 1-2 volte per settimana Prosciutto crudo e prosciutto cotto naturale magri, bresaola |
Eliminare il grasso visibile |
Uova | Consentito l’uso di n. 2 uova per settimana Cottura: senza grassi. L’uovo risulta più digeribile se, dopo cottura, l’albume è denso e il tuorlo morbido (es. alla coque, in camicia, ecc) |
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Verdura e ortaggi | Utilizzare tutti i tipi di verdura cruda (almeno una volta al giorno) e cotta, variata il più possibile Le patate saranno consumate in sostituzione di pane e pasta |
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Legumi | Utilizzare, almeno 1–2 volte per settimana Ceci, lenticchie, fagioli, piselli, freschi o secchi Risultano più digeribili se vengono consumati passati |
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Frutta | Almeno una volta al giorno Tutta la frutta fresca di stagione, cruda, cotta, frullata o spremuta, variata il più possibile |
Limitare la frutta zuccherina (banane, cachi, fichi, uva, mandarini); se utilizzata, dimezzare la quantità indicata nello schema Escludere frutta sciroppata e frutta secca (noci, mandorle, albicocche, ecc) e castagne |
Grassi di condimento | Preferibilmente olio extra-vergine di oliva crudo, oppure olio di semi di mais o girasole o soia, consumati il più possibile crudi | Limitare il più possibile l’uso di burro, preferendolo crudo (10 g di olio = 10 g di burro) Escludere margarina, lardo, strutto, panna e grassi animali in genere |
Bevande | Acqua naturale e minerale Tè e caffè in quantità moderata |
Vino, birra e superalcolici (liquori, aperitivi, amari, grappa, ecc.) Bibite zuccherate e gassate di ogni tipo (coca-cola, aranciata anche amara, acqua brillante, succhi di frutta anche se confezionati senza aggiunta di zucchero, ecc.) |
Dolciumi | In sostituzione dello zucchero è possibile utilizzare moderatamente dolcificanti a base di saccarina o aspartame o ciclamato | Dolciumi di ogni tipo: zucchero, miele, marmellata, caramelle, cioccolatini, brioches, biscotti anche integrali, gelati, torte, budini, ecc |
Varie | Utile, se gradito, l’uso di erbe aromatiche per migliorare il gusto dei cibi: basilico, salvia, prezzemolo, rosmarino, alloro, ecc Concesso, se gradito, l’uso moderato di spezie: pepe, zafferano, chiodi di garofano, cannella, noce moscata, peperoncino, paprika, ecc |
Sostanze grasse (maionese, salsa tonnata, olive, cacao, ecc.) e alimenti conservati sott’olio Alimenti conservati in genere, ad eccezione dei surgelati Sconsigliato l’uso di “prodotti dietetici” o “per diabetici”: marmellata, biscotti, gelati, ecc |
Esempi di diete
I pesi indicati si riferiscono all’alimento crudo e al netto degli scarti
È consigliabile variare il più possibile le alternative indicate nelle sostituzioni (stampa le sostituzioni)
Terapia fisica dell'obesità
Fulvio Sileo
Endocrinologia, Ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo
Introduzione
Indipendentemente dal BMI di un individuo, i dati della letteratura sono concordi nell’evidenziare che i soggetti che svolgono attività fisica presentano aspetti importanti di prevenzione delle malattie cardiovascolari, del diabete, dell’osteoporosi e della depressione e riduzione di mortalità, che non riguarda solo le cause metaboliche (diabete e sindrome metabolica), ma anche malattie cardiovascolari e alcune malattie neoplastiche (mammella e colon)(1).
Queste evidenze fanno diventare la sedentarietà un vero e proprio fattore di rischio, direttamente responsabile di un alto numero di decessi, numericamente inferiori rispetto a chi è iperteso o fuma, ma del tutto simili al soggetto diabetico e superiori rispetto al soggetto obeso.
Purtroppo l’attività fisica totale sembra essere diminuita negli ultimi decenni: circa il 40-60% della popolazione della comunità europea conduce uno stile di vita sedentario.
Nel 2008 sono state emesse nuove linee guida sull’attività fisica, con l’intento di migliorare la salute dei cittadini americani ed europei.
Nelle linee guida americane è stata data maggiore importanza alla prescrizione di una minima quantità di attività fisica, che dovrebbe essere svolta per le diverse fasce di popolazione, mentre le linee guida europee integrano i consigli sulla durata e i tipi di attività con raccomandazioni per azioni politiche sia nazionali che comunitarie.
L’attività fisica è di per sè così importante, che è interessante notare che se prendiamo in considerazione un soggetto obeso o in sovrappeso, l’attività fisica svolge un ruolo favorevole anche se non si verifica un calo ponderale. È infatti dimostrato che corre più rischi un soggetto normopeso assolutamente sedentario di un soggetto obeso che svolge un adeguato programma di esercizi fisici (2).
Il termine generico “attività fisica” comprende in realtà alcune precise situazioni che si differenziano per alcuni importanti aspetti ed assumono diversi termini.
- Attività fisica: comprende tutti i movimenti del corpo che comportano un dispendio energetico, comprese le attività quotidiane, come le faccende domestiche, le spese, il lavoro.
- Esercizio fisico: comprende i movimenti ripetitivi, programmati e strutturati, specificamente destinati al miglioramento della forma fisica e della salute.
- Sport: attività fisica che comporta situazioni competitive, strutturate e sottoposte a regole.
- Esercizio aerobico: movimenti ritmici, ripetuti degli stessi grandi gruppi muscolari per almeno 10 minuti.
- Esercizio contro resistenza: attività che utilizzano la forza muscolare per muovere un peso o lavorare contro resistenza.
Oltre ai vantaggi strettamente collegati all’attività fisica, è evidente che l’esercizio fisico comporta, come primo effetto, un aumentato dispendio calorico e lo rende quindi essenziale in un qualunque programma che prevede un calo ponderale, ma soprattutto il mantenimento di un raggiunto calo ponderale.
L’attività fisica rappresenta un importante fattore predittivo sulla possibilità di recuperare il peso perso. Chi non svolge un adeguato programma di attività, ha buone probabilità di recuperare il peso, chi mantiene o meglio incrementa il suo livello di attività fisica ha altissime probabilità di mantenere il peso raggiunto (3,4).
Forma fisica cardio-respiratoria
Uno dei meccanismi più importanti che porta ad un miglioramento dello stato di salute e ne diventa un importante indicatore, è la forma fisica cardio-respiratoria (CRF cardiorespiratory fitness), che esprime la capacità di utilizzare ossigeno da parte dei sistemi cardio-circolatorio, polmonare e muscolare. Può essere espressa in VO2max (massimo consumo di ossigeno) o MET (equivalente metabolico). Una MET equivale al consumo di circa 3.5 mL O2/kg/min, che rappresenta, approssimativamente, il consumo di O2 di un uomo adulto a riposo. Nella tabella 1 sono indicati i MET di alcune comuni forme di attività o esercizio fisico.
Tabella 1 MET di alcune comuni forme di attività o esercizio fisico |
|
Attività | MET |
Camminare a ritmo lento in pianura | 2 |
Camminare a ritmo veloce in pianura | 4 |
Camminare a ritmo veloce in salita | 6 |
Correre a ritmo lento (jogging) | 7 |
Correre a ritmo veloce (running) | 14 |
Salire le scale di corsa | 15 |
Andare in bicicletta in pianura | 4 |
Ciclismo in pianura, veloce | 10 |
Danza, aerobica | 6 |
Nuotare a ritmo lento | 4 |
Nuotare a ritmo veloce a stile libero | 10 |
Attività di palestra con pesi e macchine | 8 |
Sciare | 6 |
Praticare escursionismo | 6 |
Giocare a tennis | 7 |
I livelli di CRF sono inversamente proporzionali alla morbilità e mortalità cardiovascolare e alla mortalità da qualunque altra causa, in ambedue i sessi e indipendentemente da altri fattori di rischio. È stato calcolato che l’aumento di un solo MET della CRF si associa a una riduzione del 13% della mortalità da tutte le cause e ad una riduzione del 15% del rischio di eventi cardiovascolari. Sono stati definiti i valori di CRF che sono associati ad un alto rischio di eventi cardiovascolari (tabella 2).
Tabella 2 Valori di CRF (MET) associati ad alto rischio di eventi cardiovascolari |
||
Età (anni) | Uomini | Donne |
40 | 9 | 7 |
50 | 8 | 6 |
60 | 7 | 5 |
Occorre pertanto che un individuo mantenga o raggiunga un livello di CRF di protezione (come esplicitato nella tabella 2) ed è stato dimostrato che un programma di attività fisica aerobica applicato a soggetti sedentari può far incrementare la CRF da 1 a 3 MET in soli 3–6 mesi (5).
Prevenzione dell'obesità
Sono diverse le organizzazioni scientifiche che raccomandano la pratica di regolare attività fisica negli individui obesi o in sovrappeso, con intento preventivo e terapeutico (anche se non si arriva a perdere peso): il National Heart, Lung and Blood Institute, i Centers for Disease Control negli USA, l’American College of Sports Medicine e l’American Heart Association, l’American Medical Association, l’American Academy of Family Physicians. Le raccomandazioni sono piuttosto concordi e si possono pertanto riassumere le varie conclusioni, raccomandando ad una persona adulta di svolgere almeno 150 minuti a settimana di attività fisica aerobica di intensità moderata, oppure almeno 75 minuti di attività fisica aerobica di intensità vigorosa. Si possono ovviamente pensare tipi di attività con combinazione fra i livelli di intensità che risultino equivalenti (6,7).
L’attività aerobica deve essere svolta in periodi della durata di almeno 10 minuti. Per ulteriori benefici sulla salute, una persona adulta può aumentare l’attività fisica aerobica di intensità moderata a 300 minuti a settimana, oppure 150 minuti di attività fisica aerobica di intensità vigorosa o una combinazione equivalente.
Per quanto riguarda l’efficacia dell’attività contro resistenza, esistono evidenze limitate nel perdere la massa grassa e mantenere la massa magra durante una dieta ipocalorica. Esistono, tuttavia, evidenze sulla capacità di modificare favorevolmente alcuni fattori di rischio cardiovascolare (colesterolo HDL, colesterolo LDL, insulinemia, pressione arteriosa, HbA1c nel soggetto diabetico) se abbinata all’attività fisica aerobica. L’indicazione è, pertanto, che dovrebbero essere intraprese attività di forza, che coinvolgono i principali gruppi muscolari, per almeno due giorni a settimana.
Si sa per certo che una delle principali cause (forse la più importante) dell’epidemia di obesità che investe soprattutto il mondo occidentale, è il ridotto dispendio calorico dell’individuo moderno. Questo dipende non solo da attività lavorative meno dispendiose, perché meno manuali e più meccanizzate, ma da uno stile di vita nettamente più sedentario, purtroppo a cominciare dall’età pediatrica. Uno stile di vita più corretto, che comprenda come cardine fondamentale una costante attività fisica, diventa fondamentale per prevenire la condizione di sovrappeso/obesità e questo è supportato da numerosi studi con importante evidenza scientifica, che evidenziano un rapporto inversamente proporzionale fra peso corporeo e livelli di attività fisica. Alla luce di questi lavori, si può ipotizzare che per prevenire l’incremento ponderale (che tende ad essere definito come un incremento del peso > 3%) occorre praticare da 150 a 250 minuti di attività fisica di moderata intensità, tale da portare ad un dispendio energetico di 1200-2000 Kcal alla settimana. Questo corrisponde a circa 18–30 Km di cammino alla settimana. L’attività deve essere ripartita in diversi giorni alla settimana, con durata non inferiore a 10 minuti. Attività fisica di durata superiore a 300 minuti alla settimana deve essere praticata con prudenza per il rischio dell’insorgenza di lesioni muscolo-scheletriche (8,9).
Si ricorda ancora una volta l’importanza di una valutazione globale dello stato di salute di un individuo, prendendo in considerazione i vari organi ed apparati, prima di iniziare un programma che deve essere il più possibile personalizzato. Anche con la finalità preventiva, si ricorda l’importanza di inserire anche le attività di forza.
Terapia dell'obesità
Il ruolo dell’attività fisica nel favorire una riduzione del peso corporeo, soprattutto nella sua componente grassa, è facilmente intuibile e anche ampiamente dimostrato. Il movimento determina un dispendio calorico che è assolutamente fondamentale per arrivare a un bilancio energetico negativo: condizione assolutamente imprescindibile per ottenere una perdita di massa grassa.
Le linee guida sul trattamento dell’obesità ci dicono che occorre arrivare a un deficit energetico giornaliero di 500–1000 Kcal, per poter arrivare ad un obiettivo di una riduzione del peso corporeo di 0.5–1 Kg alla settimana. Pensare di ottenere tale deficit con la sola attività fisica è puramente utopistico, se consideriamo la maggior parte degli individui: diventa fattibile solo per persone molto motivate, che sono già abituate sia fisicamente che psicologicamente a carichi di lavoro non banali. In effetti solo una minoranza degli studi che hanno analizzato l’impatto della sola attività fisica nell’ottenere un significativo calo ponderale ha potuto dimostrare di avere raggiunto l’obiettivo, potendo pure stabilire quale carico di lavoro occorra per ottenere una significativa riduzione del peso corporeo. Meno di 150 minuti di attività fisica alla settimana non hanno portato a significativi cali ponderali, mentre per avere un calo significativo (dell’ordine di 6–8 Kg in 3 mesi) occorre realizzare un deficit energetico di almeno 500–700 kCal/die: situazione che solo pochi individui riescono a concretizzare (10).
La maggior parte degli studi evidenzia che vi è un rapporto dose-risposta fra durata/intensità dell’attività fisica e calo ponderale e che si può cominciare a vedere risultati statisticamente significativi in termine di calo ponderale con almeno 225 minuti alla settimana di attività fisica, fino ad un massimo di 420 minuti. I risultati in assoluto migliori si ottengono associando interventi addizionali: in primo luogo la restrizione calorica, ma anche la terapia farmacologica o la terapia comportamentale (11). Bisogna inoltre considerare che la persona obesa necessita, prima di iniziare un programma di attività fisica, di un’attenta valutazione medica, considerando le patologie che sono spesso associate alla condizione di obesità. Gli specialisti coinvolti possono essere l’internista, l’endocrinologo, il cardiologo, lo pneumologo, l’ortopedico, il fisiatra e lo specialista in medicina dello sport.
Mantenimento del calo ponderale
Se i dati della letteratura sono concordi nell’evidenziare che il solo esercizio fisico ottiene minimi risultati sulla perdita del peso, per quanto riguarda il mantenimento del peso raggiunto dopo calo ponderale le evidenze sono chiare del definire un ruolo fondamentale all’attività fisica. Sembra necessario un buon livello di dispendio calorico per evitare un recupero del peso perso: secondo alcuni autori 12 Kcal/Kg/die, mentre il National Weight Control Registry propone un livello ancora maggiore. In pratica, mentre tutti gli studi dimostrano che più si pratica attività fisica meno si tende a recuperare il peso perso, non è stato da tutti codificato il tempo e il livello di intensità necessari per raggiungere lo scopo. C’è chi propone un impegno minimo di 30’/die per la maggior parte dei giorni, mentre è molto più probabile che si debba arrivare a 200–300 minuti settimanali. In ogni caso sembra valere il principio (se vogliamo banale, ma dimostrato) che più ci si mantiene attivi meglio è, senza scendere al di sotto di 200 minuti alla settimana di moderata attività fisica o 350–400 minuti di cammino (12).
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- American College of Sports Medicine. American College of Sports Medicine Position Stand. The recommended quantity and quality of exercise for developing and maintaining cardiorespiratory and muscular fitness, and flexibility in healthy adults. Med Sci Sports Exerc 1998, 30: 975–91.
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- McTiernan A, Sorensen B, Irwin ML, et al. Exercise effect on weight and body fat in men and women. Obesity 2007, 15: 1496–512.
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Dieta chetogenica
Marcello Sciaraffia
SSD Endocrinologia, Ospedale S. Annunziata, Taranto
(aggiornato a febbraio 2024)
La dieta chetogenica a bassissimo contenuto calorico (VLCKD) costituisce un'interessante strategia nutrizionale per la gestione dell'obesità. Si caratterizza per la riduzione dell’apporto energetico totale (< 800 Kcal/die) e dell’assunzione di carboidrati (30-50 g/die, 13% dell'apporto energetico totale), con relativo aumento di grassi (15–30 g/die, 44%) e proteine (1-1.5 g/kg di peso corporeo ideale, 43%). La riduzione dell'assunzione di carboidrati al di sotto della soglia sopra riportata porta alla sintesi di chetoni.
Il protocollo VLCKD suggerito include proteine ad alto valore biologico (provenienti da latte, piselli, siero di latte e soia), pasti artificiali e alimenti naturali. Ogni pasto artificiale include tipicamente 18 g di proteine, 4 g di carboidrati e 3 g di grassi (principalmente oli vegetali alto oleici) e fornisce circa 100-150 Kcal.
Indicazioni
Sia la consensus della SIE del 2019 (1), confermata nel 2024 (2), che le linee guida EASO del 2021 (3) raccomandano la VLCKD in caso di:
- obesità grave;
- trattamento pre-operatorio dell'obesità con indicazioni bariatriche;
- obesità sarcopenica;
- obesità associata a diabete mellito tipo 2 (DM2), ipertrigliceridemia, ipertensione, NAFLD, OSAS e artropatia grave.
Controindicazioni
Assolute: diabete mellito tipo 1, diabete autoimmune latente negli adulti, insufficienza delle cellule β nel DM2 2, uso di SGLT-2 inibitori, gravidanza e allattamento, insufficienza renale grave, insufficienza epatica, insufficienza cardiaca (NYHA III-IV), insufficienza respiratoria, recente ictus o infarto miocardico, aritmie cardiache, disturbi alimentari e altre gravi malattie mentali, abuso di alcool e sostanze, infezioni attive/gravi, pazienti anziani fragili, 48 ore prima di un intervento chirurgico elettivo o procedure invasive, rari disturbi enzimatici.
Efficacia
La VLCKD si associa a significativa riduzione del peso corporeo sino a due anni. Rispetto ad altre diete della stessa durata, ma con contenuto energetico diverso (cioè LCD e VLCD), sono maggiori il calo ponderale, la riduzione della circonferenza vita (espressione del grasso viscerale) e della massa grassa (3).
È importante sottolineare che la riduzione del peso corporeo durante la VLCKD avviene preservando la massa magra e bruciando selettivamente i grassi nei compartimenti del tessuto adiposo viscerale anziché sottocutaneo, ottimizzando così la composizione corporea (4).
- Nel diabete mellito tipo 2 e nella sindrome metabolica la VLCKD si associa a riduzione dell'indice HOMA-IR e quindi a miglioramento della sensibilità insulinica, effetto superiore rispetto ad altri trattamenti nutrizionali (3). Gli effetti della VLCKD sulla funzione ß-cellulare potrebbero essere responsabili della percentuale significativa di pazienti che mostrano remissione del DM2. È stata frequentemente osservata remissione di lunga durata in pazienti con minor glicemia a digiuno, età più giovane e durata più breve del diabete (1). La VLCKD dovrebbe essere presa in considerazione per ottenere un'efficacia precoce sul controllo glicemico, in particolare nei diabetici obesi con malattia di breve durata. La VLCKD è stata inserita per la prima volta come possibile opzione terapeutica all’interno delle linee guida dell’American Diabetes Association (5). Sebbene gli studi sulla sicurezza a lungo termine siano ancora scarsi, è stato riportato che il trattamento per un anno con VLCKD in 15 pazienti con obesità e DM2 era sicuro e migliorava maggiormente la qualità della vita rispetto a una dieta standard ipocalorica (6). Revisioni sistematiche e meta-analisi recenti indicano che la VLCKD non è superiore ma nemmeno inferiore in termini di vantaggi metabolici per la gestione del diabete, ma non esistono ancora prove a lungo termine a sostegno della VLCKD nel trattamento del DM2 (3,7).
- Nella NAFLD l’utilizzo della VLCKD nella gestione dei pazienti obesi consente la rapida riduzione del volume del fegato e del contenuto intra-epatico di trigliceridi. La perdita di peso ottenuta con questo intervento dietetico ha portato alla risoluzione della NASH e alla riduzione del punteggio di attività della NAFLD, che è andata di pari passo con la riduzione del peso corporeo (1). Inoltre, uno studio recente ha dimostrato che la VLCKD è un approccio utile per la NAFLD indipendentemente dai cambiamenti nei fattori comunemente associati a tale patologia (obesità, massa grassa, resistenza all’insulina, lipidi e pressione sanguigna) (8).
- Nella PCOS e nell’ipogonadismo maschile, l’utilizzo della VLCKD era già raccomandato dalla consensus 2019 (1), ma sta sempre più riscontrando favori nella letteratura e nella pratica clinica (9-11).
Protocollo
Prevede 3 fasi: attiva, rieducazione e mantenimento.
Fase attiva: dieta ipocalorica (600-800 Kcal/die), caratterizzata da basse quantità di carboidrati (< 50 g/die dalle verdure) e da lipidi. La quantità di proteine ad alto valore biologico varia tra 1 e 1.5 g/kg di peso corporeo ideale. Questa fase è ulteriormente suddivisa in 3 fasi chetogeniche:
- nella fase 1 i pazienti assumono 4-5 volte/die pasti proteici ad alto valore biologico con verdure a basso indice glicemico;
- nella fase 2, una delle porzioni proteiche artificiali viene sostituita da un pasto proteico naturale, come carne/uovo/pesce a pranzo o a cena;
- nella fase 3, una seconda porzione di proteine naturali può sostituire la seconda porzione di proteine artificiali.
La fase attiva di solito dura 8-12 settimane, fino a quando i soggetti non raggiungono circa l’80% del calo ponderale previsto. È indispensabile assumere in questa fase integratori con micro-nutrienti (vitamine e minerali, come K, Na, Mg, Ca e acidi grassi omega-3).
Fase di rieducazione: dopo la fase attiva, i pazienti reintrodurranno progressivamente diversi gruppi di alimenti e nel frattempo prenderanno parte a un programma di rieducazione nutrizionale, per mantenere la perdita di peso a lungo termine. L'apporto calorico giornaliero varia tra 800 e 1500 Kcal/die. I carboidrati vengono gradualmente reintrodotti secondo il seguente ordine:
- fase 4: alimenti con indice glicemico più basso (frutta e latticini);
- fase 5: alimenti con indice glicemico moderato (legumi);
- fase 6: alimenti con indice glicemico alto (pane, pasta e cereali).
Fase di mantenimento (fase 7): include un programma nutrizionale che varia da 1500 a 2000 Kcal/die, a seconda dell'individuo, bilanciato dal punto di vista dei macro- e micro-nutrienti. Lo scopo principale di questa fase è il mantenimento della perdita di peso a lungo termine e la promozione di uno stile di vita sano.
Fase | Durata | Dieta | Obiettivo |
Attiva | 2-3 mesi | VLCKD (600-800 Kcal/die) | 80% calo ponderale |
Rieducazione | 1 mese | LCD (800-1500 Kcal/die) | 20% calo ponderale |
Mantenimento | Lungo termine | Bilanciata di mantenimento (1500-2000 Kcal/die) | Mantenimento calo ponderale |
Monitoraggio | |||
Parametri | Prima | Durante | Al termine |
Emocromo | x | x | |
Creatinina, uricemia | x | x | |
Glicemia, HDL, LDL, trigliceridi | x | x | |
GOT, GPT, bilirubina totale e frazionata | x | x | x |
Sodio, potassio, calcio, magnesio, fosfato | x | x | x |
Chetonuria | x | ||
TSH, FT4 | x | ||
Vitamina D | x | ||
Esame urine | x | x | |
Bioimpedenziometria | x | x |
Effetti collaterali comuni
Nei primissimi giorni del trattamento vengono riportati secchezza delle fauci, cefalea, ipoglicemia transitoria, di solito clinicamente lieve e non associata a sintomi. Anche nausea, diarrea e stipsi sono tra gli effetti collaterali gastro-intestinali più comuni, anche se poco frequenti. Molto più rari iperuricemia, urolitiasi e colelitiasi.
Bibliografia
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