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Anna Nelva
SSD Diabetologia e Endocrinologia, Ospedale degli Infermi di Biella, ASL BI

(aggiornato al 17 febbraio 2021) questo capitolo è in attesa di aggiornamento

 

La terapia delle dislipidemie è volta essenzialmente alla prevenzione della patologia cardio-vascolare (CVD) e, per le forme di grave ipertrigliceridemia, alla prevenzione della pancreatite acuta.
Prima di discutere l’intervento farmacologico, va ricordata la necessità di escludere sempre le forme secondarie e sottolineato l’insostituibile beneficio di uno stile di vita corretto.
Linee guida (LG) complete e aggiornate (1-4) danno supporto alle scelte terapeutiche, che per la rimborsabilità in Italia sono comunque vincolate dalla nota 13 e da disposizioni particolari con attivazione dei registri AIFA per gli inibitori di PCSK9 (PCSK9I). Quanto segue farà prevalentemente riferimento alle LG ESC/EAS 2019 (1).

 


VALUTAZIONE DEL RISCHIO CARDIO-VASCOLARE (CV) TOTALE

È essenziale per guidare il trattamento.
Lo screening per fattori di rischio (FR) comprendente il profilo lipidico viene consigliato:

  • dalle LG europee (1) negli uomini > 40 anni e nelle donne > 50 anni o in post-menopausa;
  • da AACE in tutti gli adulti dopo i 20 anni, ogni 5 anni; negli adulti di mezza età (uomini di 45-60 anni e donne di 55-65 anni) almeno ogni 1-2 anni; una volta all’anno negli anziani (2);
  • da ACC e AHA come routine per adulti fra 40 e 70 anni, ogni 4-6 anni per adulti fra 29 e 39 anni (4).

La valutazione del rischio CV può giovarsi di diversi sistemi, fra i quali si citano:

  • il sistema SCORE (Systematic Coronary Risk Estimation), adottato dalle LG ESC/EAS e dalla nota 13, che fornisce carte del rischio per stimare il rischio di primo evento aterosclerotico fatale entro 10 anni, per soggetti di età fra 40 e 70 anni, sulla base di età, genere, fumo, pressione arteriosa sistolica e colesterolo totale. Il rischio di eventi totali, fatali e non fatali, va considerato circa 3 volte maggiore per gli uomini e circa 4 volte maggiore per le donne (qualcosa meno nelle persone più anziane).
    Vengono fornite anche carte che tengono conto di HDL-C e una versione elettronica che utilizza HDL come variabile continua.
    Va precisato che il rischio di malattia CV aterosclerotica (ASCVD) sembra aumentato per valori di HDL-C > 90 mg/dL e che pertanto HDL-C a quei livelli non può essere usato come predittore di rischio (1);
  • il sistema CUORE, che stima il rischio di primo evento CV maggiore entro 10 anni. Fornisce carte del rischio per soggetti di età fra 40 e 69 anni, calcolate in base a categorie di FR (età, sesso, diabete, fumo, pressione sistolica e colesterolemia totale).
    Viene messo a disposizione anche un sistema di calcolo on line del punteggio individuale, utilizzabile per una fascia di età più ampia, dai 35 ai 69 anni, che considera valori continui per le stesse categorie (età, colesterolemia totale, pressione sistolica), e include in più i livelli di HDL e l’eventuale terapia anti-ipertensiva.

Il calcolo del rischio CV secondo le carte del rischio va effettuato solo per i pazienti senza evidenza di malattia ed escludendo i casi con (1):

  • malattia CV documentata, placche carotidee o femorali, punteggio di calcio coronarico (Coronary Artery Calcium, CAC) > 100;
  • diabete mellito;
  • ipercolesterolemia familiare (FH);
  • livelli di Lp(a) estremamente elevato (> 180 mg/dL);
  • singoli FR marcatamente elevati, in particolare colesterolo totale > 310 mg/dL, LDL > 190 mg/dL, PAO ≥ 180/110 mmHg;
  • insufficienza renale cronica.

Tutti questi vanno automaticamente nelle categorie di rischio alto o molto alto, salvo pazienti diabetici da meno di 10 anni, con diabete mellito tipo 1 di età < 35 anni o diabete mellito tipo 2 con età < 50 anni, senza altri FR, che possono essere considerati a rischio moderato.
Per i giovani con elevati livelli di FR va ricordato che, a fronte di un basso rischio di eventi a 10 anni, è invece elevato il rischio relativo, con una probabile riduzione dell’aspettativa di vita. Per loro è possibile usare tabelle di rischio relativo o calcolare l’età di rischio CV, cioè l’età di un soggetto ipotetico con livelli ideali di FR che abbia un rischio stimato sulle carte uguale a quello del nostro paziente. Il rischio nell’arco della vita è un altro approccio per illustrare l’impatto dei FR, che può essere utile nei soggetti più giovani: maggiore è il carico dei FR, maggiore è il rischio nell’arco della vita. Questo approccio produce nei più giovani dati di rischio maggiori per il maggiore tempo di esposizione.
Nelle persone di età più avanzata occorre ricordare che, a causa del solo dato anagrafico, la maggior parte di loro, specie se maschi, avrà una probabilità di morte CV > 5-10%, nonostante altri livelli di FR relativamente bassi, e che il sistema SCORE sovrastima il rischio sopra i 65 anni. Questo potrebbe portare a un eccessivo uso di farmaci nei pazienti più anziani. Prima di iniziare una terapia negli anziani bisognerà pertanto valutare attentamente i pazienti, anche per evitare gli effetti collaterali di una terapia farmacologica eccessiva.
Come riportato dal documento ESC/EAS 2019, il rischio è aumentato rispetto alla valutazione SCORE da:

  • deprivazione sociale e stress psico-sociale;
  • obesità e obesità centrale (misurate da BMI e circonferenza addominale);
  • inattività fisica;
  • storia familiare di CVD precoce (uomini < 55 anni, donne < 60 anni);
  • malattie infiammatorie croniche immuno-mediate;
  • patologie psichiatriche maggiori;
  • terapia per infezione da HIV;
  • fibrillazione atriale;
  • ipertrofia ventricolare sinistra;
  • insufficienza renale cronica;
  • sindrome delle apnee ostruttive del sonno;
  • steatosi epatica non alcolica.

Secondo le stesse indicazioni, pazienti apparentemente a rischio moderato possono essere:

  • riclassificati a un livello più alto sulla base di:
    • livelli aumentati di ApoB, lipoproteina (a) [Lp(a)], trigliceridi (TG), PCR, o presenza di albuminuria;
    • presenza di placche aterosclerotiche carotidee o femorali, CAC, indice caviglia-braccio (Ankle-Brachial Index, ABI);
  • riclassificati a un livello più basso sulla base di:
    • livelli elevati di HDL (fino a 90 mg/dL);
    • storia familiare di longevità.

Per quanto riguarda Lp(a), negli studi epidemiologici e di randomizzazione mendeliana fatti su popolazioni seguite dalla medicina di base, senza precedenti di patologia CV, il rischio CV inizia ad aumentare da livelli di 25-30 mg/dL (1,17-20). Nelle popolazioni in prevenzione secondaria, costituite da pazienti con precedente patologia CV in terapia ottimale con statine e anti-aggreganti, le recidive di eventi sembrano iniziare a livelli > 50 mg/dL (21-23). Infine, da uno studio di randomizzazione mendeliana emerge che persone con livelli di Lp(a) estremamente elevati, > 180 mg/dL, potrebbero avere un aumento del rischio di patologia CV nell’arco della vita simile a quella di soggetti affetti da ipercolesterolemia familiare eterozigote (1,24). Questa caratteristica potrebbe rappresentare una nuova alterazione ereditaria del metabolismo lipidico, determinante un rischio estremamente alto di patologia CV nel corso della vita, con prevalenza doppia rispetto all’ipercolesterolemia familiare eterozigote.

I documenti AACE (2,3), in parte in accordo con indicazioni anche di altre società scientifiche, citano alcuni ulteriori fattori di rischio, fra i quali:

  • policistosi ovarica (PCOS), che comporta una condizione di insulino-resistenza;
  • aumento di fosfolipasi A2 associata alle lipoproteine (Lp-PLA2) come indicatore di infiammazione vascolare non influenzato dall’obesità;
  • iperuricemia.

Inoltre, sottolineano l’importanza come FR aggiuntivo di livelli elevati di LDL piccole e dense e della triade dislipidemica che associa ipertrigliceridemia, basso HDL-C e eccesso di LDL piccole e dense.
In merito agli esami strumentali, occorre sottolineare che, rispetto ai modelli tradizionali, una valutazione prognostica migliore è consentita dalla TC con il rilievo di stenosi coronarica > 50% e della composizione della placca (1). Individui asintomatici apparentemente a rischio moderato potranno essere riclassificati in una categoria di rischio maggiore con l’identificazione di calcificazioni coronariche con TC o di ateromasia carotidea o femorale con eco-doppler (meno rilevante la misura dello spessore intima-media a livello carotideo). Sul versante opposto, nello studio MESA (Multi Ethnic Study on Atherosclerosis) è stato dimostrato un basso tasso di eventi CV a 10 anni in presenza di punteggio CAC = 0, in individui che sarebbero stati candidabili a terapia con statine. Alla luce di queste considerazioni, nei pazienti asintomatici, a rischio basso o moderato e potenzialmente candidabili a terapia con statine, punteggio CAC ed eco-doppler arterioso dovrebbero essere considerati come potenziali modificatori del profilo di rischio ASCVD con impatto sulla scelta terapeutica. Bisogna però ricordare il punteggio CAC è spesso molto basso in persone di età < 45 anni con severa FH, compresi quelle con forma omozigote (HoFH), e ha una bassa specificità in questa popolazione. Secondo le recenti indicazioni ACC/AHA, anche in presenza di punteggio CAC = 0 non bisognerebbe comunque soprassedere a terapia con statine, se indicata dagli altri criteri di valutazione del rischio, in presenza di diabete, storia familiare di cardiopatia ischemica prematura, fumo di sigarette (4).

Si segnala infine che l’uso di tecniche di imaging per determinare presenza ed estensione di danno vascolare aterosclerotico non è giustificato in pazienti a basso rischio per i quali non sia presa in considerazione la terapia con statine. Dopo terapia con statine il punteggio CAC è aumentato e dovrebbe essere interpretato con cautela (1).

 

Tabella 1
Categorie di rischio
(1)
Molto alto

Malattia CV aterosclerotica (ASCVD):

  • documentata clinicamente: precedenti sindromi coronariche acute (IMA o angina instabile), angina stabile, rivascolarizzazione coronarica (angio-plastica, by-pass, altre procedure), ictus e TIA, arteriopatia periferica;
  • documentata in modo inequivoco all’imaging: include i reperti noti per essere predittivi di eventi clinici, come placca significativa alla coronarografia o alla TC (malattia coronarica multi-vasale con due arterie epicardiche maggiori con stenosi > 50%) o all’eco-doppler carotideo.

Diabete mellito (DM) con danno d’organo o almeno tre fattori di rischio maggiori, o esordio precoce di DM tipo 1 di lunga durata (> 20 anni).
Severa insufficienza renale cronica (IRC) (eGFR < 30 mL/min/1.73 m²).
Rischio di CVD fatale a 10 anni ≥ 10% calcolato con SCORE.
Ipercolesterolemia familiare (FH) con ASCVD o altro FR maggiore.

Alto Singoli FR marcatamente elevati: in particolare, colesterolo totale > 310 mg/dL, LDL > 190 mg/dL, PA ≥ 180/110 mm Hg.
FH senza altri FR maggiori.
DM senza danno d’organo, con durata di DM ≥ 10 anni o altro FR associato.
IRC moderata (eGFR 30-59 mL/min/1.73 m²).
Rischio di CVD fatale a 10 anni 5-10% calcolato con SCORE.
Moderato Diabetici giovani (DM tipo 1 < 35 anni, DM tipo 2 < 50 anni) con DM di durata < 10 anni, senza altri FR.
Rischio di CVD fatale a 10 anni 1-5% calcolato con SCORE.
Basso Rischio di CVD fatale a 10 anni < 1% calcolato con SCORE.

 

 


OBIETTIVI TERAPEUTICI

Il target principale è il colesterolo LDL (LDL-C): numerosissimi studi e grandi metanalisi hanno dimostrato in modo indiscutibile l'efficacia della diminuzione della colesterolemia, con una riduzione dose-dipendente di patologia CV legata all’abbassamento di LDL-C, senza evidenza di un livello al di sotto del quale il beneficio cessi o si verifichi un danno (1). Alla luce di queste considerazioni, le linee guida ESC/EAS 2019 sottolineano come sembri appropriato ridurre LDL-C il più possibile, almeno nei pazienti a rischio CV molto alto.

 

Obiettivo primario: LDL-C (1)
Rischio molto alto:

  • in prevenzione primaria e secondaria: riduzione ≥ 50% rispetto al basale e LDL-C < 55 mg/dL (raccomandazioni di classe I e livello A per la prevenzione secondaria, classe I e livello C per la prevenzione primaria per persone senza FH, classe IIa e livello C per persone con FH);
  • in prevenzione secondaria per pazienti già affetti da ASCVD, che presentino il secondo evento entro due anni e in corso di terapia con statine alla massima dose tollerata: può essere considerato LDL-C < 40 mg/dL (raccomandazione di classe IIb e livello B).

Rischio alto: riduzione ≥ 50% rispetto al basale e LDL-C < 70 mg/dL (raccomandazione classe I, livello A).
Rischio moderato: LDL-C < 100 mg/dL (raccomandazione classe IIa, livello A).
Rischio basso: LDL-C < 116 mg/dL (raccomandazione classe IIb, livello A).

 

Obiettivi secondari

  • Non HDL-C:
    • rischio molto alto: < 85 mg/dL;
    • rischio alto: < 100 mg/dL;
    • rischio moderato: < 130 mg/dL.
  • ApoB:
    • rischio molto alto: < 65 mg/dL;
    • rischio alto: < 80 mg/dL;
    • rischio moderato: < 100 mg/dL.
  • Trigliceridi: non sono indicati obiettivi, ma livelli < 150 mg/dL indicano un rischio più basso, mentre valori più alti indicano la necessità di ricercare altri FR.
  • HDL-C: non sono stati determinati obiettivi specifici negli studi clinici, ma viene sottolineato che un aumento di HDL-C è predittivo di regressione dell’aterosclerosi e che un basso livello di HDL-C è associato con un eccesso di eventi e mortalità in pazienti con coronaropatia, anche con bassi livelli di LDL-C.

 

 


STRATEGIE DI INTERVENTO (1)

  1. Consigli sullo stile di vita in prevenzione primaria se:
  • rischio basso e LDL-C < 116 mg/dL (classe I, livello C);
  • rischio moderato e LDL-C < 100 mg/dL (classe IIa, livello A);
  • rischio alto e LDL-C < 70 mg/dL (classe IIa, livello A);
  • rischio molto alto e LDL-C < 55 mg/dL (classe IIa, livello B).

 

  1. Intervento sullo stile di vita, considerando aggiunta di farmaci se controllo insufficiente, in caso di:
  • prevenzione primaria se:
    • rischio basso e LDL-C 116-190 mg/dL (classe IIa, livello A);
    • rischio moderato e LDL-C 100-190 mg/dL (classe IIa, livello A);
    • rischio alto e LDL-C 70-100 mg/dL (classe IIa, livello A);
    • rischio molto alto e LDL-C 55-70 mg/dL (classe IIa, livello A);
  • prevenzione secondaria e LDL-C < 55 mg/dL (classe IIa, livello A).

 

  1. Intervento sullo stile di vita e concomitante intervento farmacologico in caso di:
  • prevenzione primaria se:
    • rischio basso e LDL-C ≥ 190 mg/dL (classe IIa, livello A);
    • rischio moderato e LDL-C ≥ 190 mg/dL (classe IIa, livello A);
    • rischio alto e LDL-C ≥ 100 mg/dL (classe I, livello A);
    • rischio molto alto e LDL-C ≥ 70 mg/dL (classe I, livello A);
  • prevenzione secondaria e LDL-C ≥ 70 mg/dL (classe I livello A).

 

 


TRATTAMENTO FARMACOLOGICO DELL’IPERCOLESTEROLEMIA

 

FARMACI DISPONIBILI IN ITALIA (1)

 

Statine
Farmaci di prima scelta, di efficacia ormai indiscutibile.

Meccanismo d’azione: sono potenti inibitori competitivi di HMGCoA-reduttasi, enzima chiave della biosintesi del colesterolo, e per questo in grado di ridurre la sintesi epatica di colesterolo. Promuovono così un’aumentata espressione del recettore per LDL (LDL-R) sulla superficie degli epatociti, portando ad aumentata estrazione dal sangue e quindi diminuzione della concentrazione plasmatica di LDL-C e di altre lipoproteine contenenti apoB, comprese le particelle ricche di trigliceridi.

Effetti su LDL-C: il grado di riduzione di LDL-C è dose-dipendente e diverso per le diverse statine (tabelle 2 e 3), con possibilità di notevoli differenze inter-individuali nell’efficacia a parità di dose. La scelta del tipo e dosaggio di statina va fatta tenendo conto della riduzione di LDL-C ritenuta ottimale sulla base delle caratteristiche del paziente, come sopra indicato. Per ottenere una riduzione almeno del 50% bisogna comunque utilizzare atorvastatina o rosuvastatina ad alte dosi.

 

Tabella 2
Equivalenza approssimativa fra le diverse statine
(modificata da 6)

Pitavastatina 1 mg
Rosuvastatina 5 mg
Atorvastatina 10 mg
Simvastatina 20 mg
Pravastatina 40 mg
Lovastatina 40 mg
Fluvastatina 80 mg

 

Tabella 3
Intensità di terapia con statine (mg/die) e riduzione di LDL-C (modif da 5)
Molecola Bassa intensità (riduzione < 30%) Moderata intensità (riduzione 30-49%) Alta intensità (riduzione ≥ 50%)
Atorvastatina   10-20 40-80
Rosuvastatina   5-10 20-40
Simvastatina 10 20-40  
Pravastatina 10-20 40-80  
Lovastatina 20 40-80  
Fluvastatina 20-40 40 x 2/die; XL 80  
Pitavastatina   1-4  

 

 

Effetti su HDL-C: le statine sono in grado di aumentarne i livelli dall’1 al 10% (8):

  • simvastatina (20-40 mg/die) può essere più efficace di atorvastatina (20-40 mg/die) nell'aumentare le concentrazioni di HDL-C e apoA1;
  • rosuvastatina può essere anche più efficace, in grado di aumentare HDL-C fino al 10%;
  • in pazienti con sindrome metabolica, rosuvastatina (10-20 mg) può essere più efficace di atorvastatina (10-20 mg) nell'aumentare le particelle HDL grandi. Non è comunque chiaro se questo abbia rilevanza clinica (6).

Effetti su Lp(a): gli studi hanno riportato assenza di effetti o un modesto aumento di Lp(a) dopo terapia con statine.

Effetti su trigliceridi: questi farmaci di solito riducono i livelli dei TG del 10-20% rispetto ai valori basali, ma le statine più potenti (atorvastatina, rosuvastatina, pitavastatina) usate ad alte dosi hanno un robusto effetto in pazienti con livelli elevati di TG. Il meccanismo di riduzione dei TG sembra essere parzialmente indipendente dalla via di LDL-R, e può coinvolgere sia una aumentata captazione di VLDL da parte degli epatociti che una riduzione del tasso di produzione di VLDL. Questi effetti sembrano dipendenti dalle concentrazioni di VLDL pre-terapia.

Prevenzione del rischio CV. Grandi studi clinici e metanalisi hanno confermato l’efficacia delle statine. In particolare, nella metanalisi CTT con i dati di oltre 170.000 soggetti in 26 studi randomizzati e controllati (30), per ogni mmol/L (= 39 mg/dL) di riduzione di LDL-C con le statine si otteneva una riduzione del 22% di eventi CV maggiori (IMA, morte da malattia coronarica, ictus di qualunque genere o rivascolarizzazione coronarica), del 23% di eventi coronarici maggiori, del 20% di morte da coronaropatia, del 17% di ictus totali, del 10% di mortalità totale a 5 anni.
Le statine non sono efficaci solo in pochi gruppi specifici di pazienti, in particolare quelli con scompenso cardiaco o in dialisi. Tutte le statine richiedono un aggiustamento del dosaggio nell’insufficienza renale cronica, tranne atorvastatina e fluvastatina (7).
Vi è comunque una risposta inter-individuale variabile, su base genetica, riguardante efficacia e effetti collaterali: le popolazioni asiatiche sembrano avere una sensibilità maggiore alle statine rispetto alle caucasiche, per differenze nella farmaco-cinetica (6).
Alcuni studi hanno anche dimostrato che, al di là della riduzione del colesterolo, le statine avrebbero effetti aggiuntivi, comprendenti proprietà anti-infiammatorie e anti-ossidanti, i cosiddetti effetti pleiotropici. Questi sono stati evidenziati in vitro e in sistemi sperimentali, ma la loro rilevanza clinica rimane non provata.

Modalità di somministrazione e monitoraggio: prima di iniziare un trattamento, è opportuna l’esecuzione di alcuni esami di laboratorio di routine, fra cui ALT e CK. Di solito è raccomandata la somministrazione serale. La risposta alla terapia può essere valutata a 6-8 settimane dopo l’inizio.

Eventi avversi: per quanto siano di solito ben tollerate, possono avere alcuni specifici effetti avversi su muscolo, omeostasi glucidica, ictus emorragico (cfr scheda).

 

Ezetimibe
Meccanismo d’azione:
inibisce l'assorbimento di colesterolo a livello della mucosa intestinale, interferendo con Niemann Pick C1-like receptor 1; la conseguente riduzione dell’apporto di colesterolo al fegato determina un’aumentata espressione del recettore per LDL-C a livello epatico e quindi un’aumentata clearance di LDL dal sangue.
È utilizzato prevalentemente in associazione con una statina, per l’azione complementare. Infatti, le statine inibiscono la sintesi endogena di colesterolo e questo comporta, come per un meccanismo di compenso, un aumento dell’assorbimento del colesterolo intestinale, che può anche raddoppiare, attenuando l’azione ipocolesterolemizzante della statina. Quando, invece, si inibisce l’assorbimento intestinale di colesterolo con ezetimibe, si verifica un aumento compensatorio della sintesi epatica di colesterolo (10). L’inibizione contemporanea dell’assorbimento degli steroli e della sintesi di colesterolo ha, quindi, un effetto complementare, che si oppone alla fisiologica reazione dell’organismo alle due azioni.

Effetti su LDL-C: in mono-terapia ezetimibe 10 mg/die riduce LDL-C del 15-22%, in aggiunta a una statina di un ulteriore 15-27%.

Effetti su HDL-C: in mono-terapia aumento del 3%.

Effetti su TG: in mono-terapia riduzione dell’8%.

Prevenzione del rischio CV: ne è stata dimostrata l’efficacia nel ridurre gli eventi CV.

Modalità di somministrazione: può essere somministrato al mattino o alla sera, indipendentemente dai pasti. Non sono necessari aggiustamenti della dose in caso di lieve insufficienza epatica o insufficienza renale anche severa.

Eventi avversi: sono stati osservati aumenti delle transaminasi in studi clinici controllati con ezetimibe + statina. In caso di tale co-somministrazione, eseguire test di funzionalità epatica all’inizio del trattamento e secondo quanto raccomandato per la statina. L'aggiunta di ezetimibe alla terapia con statine non sembra aumentare l'incidenza di livelli elevati di CK, al di là quanto osservato con la sola statina.

 

Inibitori di PCSK9

Meccanismo d’azione: PCSK9 si lega a LDL-R sulla superficie degli epatociti, promuovendone la degradazione all’interno del fegato. Gli inibitori di PCSK9 sono anticorpi monoclonali, che impediscono il legame di PCSK9 con LDL-R e quindi ne inibiscono la degradazione. I risultati migliori sono stati dimostrati in combinazione con le statine, perchè queste aumentano i livelli circolanti di PCSK9.

Effetti su LDL-C: riduzione di circa il 60%, con differenze dipendenti dai dosaggi. In combinazione con statine ad alta intensità o alla massima dose tollerata hanno ridotto LDL-C del 46-73% più del placebo e del 30% più dell’ezetimibe. Per il meccanismo d’azione, sono efficaci nel ridurre LDL-C in tutti i pazienti capaci di esprimere LDL-R a livello epatico, compresi quelli con FH eterozigote e, anche se in misura minore, in quelli con FH omozigote con residua espressione di LDL-R (dimostrato per evolocumab).

Effetti su HDL-C e ApoA-1: aumento in funzione del dosaggio.

Effetti su Lp(a): a differenza delle statine, riduzione anche del 30-40%.

Effetti su TG: riduzione.

Prevenzione del rischio CV: in combinazione con statine ad alte dosi possono ridurre eventi CV e mortalità per tutte le cause in pazienti con ASCVD clinica (11,12). La riduzione del rischio CV appare in linea con la riduzione di LDL-C.

Modalità di somministrazione: ogni due settimane o una volta al mese, a dosi diverse a seconda del farmaco utilizzato.

Eventi avversi: lievi e relativamente non frequenti, soprattutto prurito nel sito di iniezione e sintomi simil-influenzali.
Si segnala che il costo di questi farmaci è particolarmente elevato.

 

Resine sequestranti gli acidi biliari

Meccanismo d’azione: non sono assorbite in circolo, né alterate dagli enzimi digestivi. Legano gli acidi biliari, riducendone il ricircolo entero-epatico e determinando così una deplezione di bile a livello epatico. Il conseguente aumento della sintesi di acidi biliari a partire dal colesterolo porta a un aumento compensatorio dell'attività del LDL-R a livello epatico, con aumentato sequestro di LDL-C dal circolo. Riducono anche i livelli di glucosio nei pazienti iperglicemici.

Effetti su LDL-C: riduzione del 18-25% con 24 g di colestiramina.

Prevenzione del rischio CV: riduzione degli eventi CV proporzionale al grado di diminuzione di LDL-C.

Modalità di somministrazione: quattro ore prima o un’ora dopo altri farmaci.

Eventi avversi: possono aumentare i livelli di TG in pazienti predisposti e ridurre l'assorbimento di vitamine liposolubili; causano effetti collaterali di tipo intestinale (flatulenza, stipsi, dispepsia e nausea), presentano importanti interazioni con molti altri farmaci. Sono ritenuti contro-indicati se TG > 500 mg/dL (7).

 

Lomitapide

Meccanismo d’azione: inibisce la proteina microsomiale di trasporto dei TG, che facilita l’incorporazione di esteri colesterilici e trigliceridi nelle VLDL a livello epatico e nei chilomicroni a livello intestinale, attraverso l’interazione rispettivamente con apoB-100 e apoB-48. Ha indicazione solo per pazienti adulti affetti da FH omozigote.

Effetti su LDL-C: riduzione del 44-50%, con effetto indipendente da LDL-R.

Modalità di somministrazione: orale.

Eventi avversi: aumento delle transaminasi, steatosi epatica, scarsa tollerabilità gastro-enterica.

 

 

NUOVI FARMACI PER L’IPERCOLESTEROLEMIA (approvati dall’EMA nel 2020, saranno disponibili a breve in Italia)

 

Acido bempedoico

Meccanismo d’azione: inibisce a livello epatico l’enzima ATP-citrato liasi, coinvolto nel processo di sintesi del colesterolo a monte del bersaglio delle statine.

Efficacia: in uno studio clinico di fase 3 in 269 pazienti già in terapia con ezetimibe 10 mg/die, dopo 12 settimane si osservava una riduzione di LDL-C rispetto al basale del 23.5% con acido bempedoico (180 mg/die) vs un aumento del 5% nel braccio ezetimibe + placebo (13). Un altro studio di fase 3 in 382 pazienti che assumevano la dose massima tollerata di statina, ha evidenziato dopo 3 mesi una riduzione di LDL-C rispetto al basale del 36.2% nei pazienti che oltre alla statina assumevano acido bempedoico 180 mg + ezetimibe 10 mg in associazione fissa, del 23.2% con solo ezetimibe, del 17.2% con solo acido bempedoico. Negli studi di fase 3 si è osservata anche una diminuzione significativa di PCR (14).

Indicazioni: approvato da EMA negli adulti affetti da ipercolesterolemia primaria (FH eterozigote e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta:

  • in mono-terapia:
    • in associazione a una statina o con una statina in associazione ad altre terapie ipolipemizzanti nei pazienti non in grado di raggiungere gli obiettivi di LDL-C con la dose massima tollerata di una statina;
    • in mono-terapia o in associazione ad altre terapie ipolipemizzanti in pazienti intolleranti alle statine o nei quali ne è contro-indicato l’uso;
  • in associazione fissa con ezetimibe (180 mg/10 mg):
    • in combinazione con una statina nei pazienti non in grado di raggiungere gli obiettivi di LDL-C con la dose massima tollerata di una statina oltre a ezetimibe;
    • in mono-terapia in pazienti intolleranti alle statine o nei quali ne è contro-indicato l’uso, e che non sono in grado di raggiungere gli obiettivi di LDL-C solo con ezetimibe;
    • nei pazienti già in trattamento con l’associazione di acido bempedoico ed ezetimibe sotto forma di compresse distinte con o senza statina.

Modalità di somministrazione: orale, 180 mg/die.

Eventi avversi: aumenta le concentrazioni plasmatiche delle statine. Segnalati come “comuni” (1/10-100) aumento di transaminasi e di uricemia, gotta, anemia; “non comuni” (1/100-1000) aumento di creatinina e riduzione della velocità di filtrazione glomerulare.

 

Inclisiran

Meccanismo di azione: è uno small-interfering RNA, che inibisce la sintesi di PCSK9, attivando una via naturale di silenziamento selettivo dell’espressione genica. La molecola è stata legata a una N-acetil-galattosamina sintetica, che ne permette l’aumentata adesione alla membrana cellulare degli epatociti con specificità di azione. Negli epatociti riduce contemporaneamente i livelli di PCSK9 sia intra- che extra-cellulari, causando una diminuzione sostanziale e protratta di LDL-C.

Efficacia: sono stati pubblicati i risultati di 3 RCT (ORION-9, ORION-10, ORION-11) (15,16) su pazienti adulti con LDL-C elevato nonostante il trattamento con la dose massima tollerata di statina, con o senza terapia ipolipemizzante addizionale ma non in terapia con anticorpi anti-PCSK9. Dimostrata riduzione di LDL-C di circa il 50%, simile a quella ottenuta con anti-PCSK9. Rispetto al placebo, risultavano migliorati oltre a LDL-C, anche colesterolo totale, non HDL-C e apoB, TG e Lp(a) ed erano aumentati i livelli di HDL-C. È attualmente in corso uno studio per gli esiti CV (29).

Indicazioni: approvato da EMA per il trattamento di adulti con ipercolesterolemia primaria (FH eterozigote e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta:

  • in combinazione con una statina o con una statina e altre terapie ipolipemizzanti nei pazienti incapaci di raggiungere gli obiettivi di LDL-C con la dose massima tollerata di una statina;
  • da solo o in combinazione con altre terapie ipolipemizzanti nei pazienti che siano intolleranti alle statine, o per i quali una statina sia contro-indicata.

Modalità di somministrazione: sottocutanea alla dose iniziale di 284 mg, con una seconda somministrazione a tre mesi e poi ogni sei mesi.

Eventi avversi: generalmente simili al placebo, tranne disturbi nel sito di iniezione, di solito lievi o moderati, non persistenti.

 

 

RACCOMANDAZIONI ESC/EAS 2019 PER LA TERAPIA FARMACOLOGICA DELL’IPERCOLESTEROLEMIA (1)

  1. Prescrivere una statina ad alta intensità fino alla massima dose tollerata, per raggiungere l’obiettivo definito per lo specifico livello di rischio (raccomandazione classe I, livello A).
  2. Se l’obiettivo non è raggiunto alla massima dose di statina tollerata, è raccomandata la combinazione con ezetimibe (raccomandazione classe I, livello B).
  3. In prevenzione primaria per pazienti ad alto rischio ma senza FH, se non raggiunto l’obiettivo di LDL-C alla massima dose tollerata di statina ed ezetimibe, può essere considerata la combinazione con inibitore di PCSK9 (raccomandazione classe IIb, livello C).
  4. In prevenzione secondaria per pazienti a rischio molto alto che non raggiungano il loro obiettivo alla massima dose tollerata di statina ed ezetimibe, è raccomandata la combinazione con inibitore di PCSK9 (raccomandazione classe I, livello A).
  5. Per pazienti con FH a rischio molto alto (cioè con ASCVD o con un altro FR maggiore) che non raggiungano il loro obiettivo con la massima dose tollerata di statina ed ezetimibe, è raccomandata la combinazione con inibitore di PCSK9 (raccomandazione classe I livello C).
  6. Se una terapia con statina non è tollerata a qualunque dosaggio (anche dopo rechallenge), da considerare l’ezetimibe (raccomandazione classe IIa, livello C).
  7. Se una terapia con statina non è tollerata a qualunque dosaggio (anche dopo rechallenge), può essere considerato anche un inibitore di PCSK9 aggiunto a ezetimibe (raccomandazione classe IIb, livello C).
  8. Se l’obiettivo non è raggiunto, può essere considerata la combinazione di statina con un sequestrante degli acidi biliari (raccomandazione IIb, livello C).

 

 

Tabella 4
Intensità della terapia ipolipemizzante
(mod. da 1)
Terapia Riduzione media di LDL-C
Statina intensità moderata ≈30%
Statina alta intensità ≈50%
Statina alta intensità + ezetimibe ≈65%
Inibitore PCSK9 ≈60%
Inibitore PCSK9 + statina alta intensità ≈75%
Inibitore PCSK9 + statina alta intensità + ezetimibe ≈85%

 

 

Anziani
Negli anziani ≤ 75 anni è raccomandata la terapia con statine in prevenzione primaria, in accordo con il livello di rischio (raccomandazione di classe I, livello A).
Negli anziani > 75 anni può essere considerato l’inizio di una statina in prevenzione primaria, se a rischio alto o molto alto (raccomandazione di classe IIb, livello B).
Si consiglia di iniziare con la dose più bassa di statina nei pazienti con compromissione della funzionalità renale o a rischio di interazioni farmacologiche.
Rimborsabilità secondo nota AIFA 13 dopo gli 80 anni: non è prevista in prevenzione primaria, mentre non ci sono limiti in prevenzione secondaria.

 

Sindrome coronarica acuta
Per i pazienti che presentino una s. coronarica acuta (SCA) e livelli di LDL-C non a target nonostante terapia alla massima dose tollerata con statina ed ezetimibe, dovrebbe essere considerata precocemente dopo l’evento (se possibile durante l’ospedalizzazione per SCA) l’associazione con un inibitore di PCSK9 (raccomandazione di classe IIa, livello C).

 

Pazienti a rischio CV molto alto sottoposti a intervento percutaneo sulle coronarie (PCI)
Nei pazienti con programmazione di PCI, sia in caso di SCA che in elezione, deve essere considerato di routine un pre-trattamento o un carico con statine ad alte dosi (su un background di terapia cronica).

 

Pazienti in dialisi
Per coloro che al momento dell’inizio della dialisi siano già in terapia con statine e/o ezetimibe deve essere considerata la prosecuzione di questi farmaci, soprattutto se affetti da ASCVD (classe IIA, livello C).
Per pazienti con nefropatia in dialisi liberi da ASCVD non è raccomandato l’inizio di una statina.

 

Donne
Valgono in genere le stesse indicazioni sia per il genere maschile che per quello femminile, ma i farmaci ipolipemizzanti non dovrebbero essere somministrati in caso di:

  • gravidanza pianificata;
  • gravidanza in atto;
  • allattamento in corso.

In pazienti con severa FH, in questi casi possono essere considerati sequestranti degli acidi biliari (che non sono assorbiti) e/o aferesi delle LDL.

 

 


TRATTAMENTO DELL’IPERTRIGLICERIDEMIA

 

FARMACI DISPONIBILI IN ITALIA (1)

Sono disponibili fibrati, omega-3, volanesorsen (sono stati già descritti sopra gli effetti sui TG di statine, ezetimibe, inibitori di PCSK9).

 

Fibrati

Meccanismo d’azione: sono agonisti di peroxisome proliferator-activated receptor-alfa (PPAR-α), che fra l’altro regola vari passaggi del metabolismo di lipidi e lipoproteine, agendo attraverso fattori di trascrizione.

Efficacia: Abbassano i livelli di TG sia a digiuno che post-prandiali e i remnant ricchi di TG. L’impatto clinico varia fra i diversi membri della classe dei fibrati, arrivando a una riduzione del 50% dei livelli di TG, con una riduzione fino al 20% di LDL-C (anche se si può osservare un piccolo aumento paradosso di LDL-C per elevati livelli di TG) e un aumento di HDL-C fino al 20%. L’entità dell’effetto dipende molto dai livelli lipidici basali. Gli effetti sia su HDL-C che sui TG sono risultati molto minori (rispettivamente circa del 5% e 20%) in studi di intervento a lungo termine in pazienti con DM2 ma senza livelli elevati di TG. L’efficacia dei fibrati nel ridurre gli eventi CV è molto meno robusta di quella delle statine e richiede ulteriori conferme.

Eventi avversi: sono di solito ben tollerati, con modesti eventi avversi, in particolare miopatia, aumento degli enzimi epatici, colelitiasi, sintomi gastro-enterici (< 5% dei pazienti) ed eruzione cutanea (< 2%). Il rischio di miopatia è 5.5 volte maggiore con un fibrato in mono-terapia (soprattutto gemfibrozil) che con una statina.

 

Acidi grassi omega-3

Meccanismo d’azione: influenzano le concentrazioni di lipidi sierici e lipoproteine, in particolare VLDL, con meccanismi ancora poco chiari, almeno in parte legati a interazione con PPAR e ridotta secrezione di apoB.

Efficacia: acido eicosapentaenoico (EPA) e docosaenoico (DHA) possono essere usati a dosi farmacologiche (2-4 g/die) per ridurre i TG fino al 45% in modo dose-dipendente. Fino al 2018 trial e metanalisi non avevano fornito chiare evidenze di efficacia sulla riduzione degli eventi CV indotta da omega-3, peraltro spesso utilizzati negli studi alla dose di 1 g/die, troppo bassa per influenzare in modo importante i lipidi plasmatici. Lo studio JELIS (25), in cui 18645 pazienti giapponesi con colesterolemia di almeno 6.5 mmol/L (circa 250 mg/dL) erano stati randomizzati a ricevere 1800 mg/die di EPA con statina o solo statina, ha dimostrato una riduzione relativa del 19% degli eventi coronarici maggiori nei pazienti in EPA più statina, con un follow-up medio di 4.6 anni. L’RCT REDUCE-IT (26) ha dimostrato una riduzione del rischio relativo di eventi avversi CV maggiori del 25% con icosapent etile (estere etilico di EPA altamente purificato, alla dose di 2 g x 2/die) rispetto al placebo in pazienti affetti da ASCVD accertata o DM e almeno un altro FR e già in terapia con statine, con LDL 41-100 mg/dL e TG 150-499 mg/dL. L’RCT STRENGTH, che valutava una formulazione di acidi carbossilici omega-3 (EPA e DHA 4 g/die) in pazienti con dislipidemia, ipertrigliceridemia (180-500 mg/dL), bassi livelli di HDL-C e alto rischio CV (70% diabetici) già in terapia con statina, è stato sospeso prima del termine previsto dopo un’analisi intermedia che indicava una bassa probabilità di benefici clinici degli omega-3, eventi avversi CV maggiori simili nei due gruppi, ma maggiore frequenza di fibrillazione atriale e eventi avversi gastro-intestinali (27). Continua pertanto a rimanere incerto il beneficio della terapia con omega-3 sul rischio CV (28).

Eventi avversi: gli omega-3 sono considerati sicuri e privi di interazioni cliniche, ma per effetti anti-trombotici possono aumentare i rischi di sanguinamento in associazione a aspirina/clopidogrel (1).

 

Volanesorsen

Meccanismo d’azione: è un oligonucleotide anti-senso, progettato per inibire la formazione di apoC-III, nota per regolare sia il metabolismo dei TG che la clearance epatica dei chilomicroni e di altre lipoproteine ricche di TG. Il legame selettivo di volanesorsen con l'mRNA di apoC-III causa la degradazione dell'mRNA e impedisce la traduzione della proteina, rimuovendo così un inibitore della clearance dei TG e consentendo il metabolismo attraverso una via LPL-indipendente.

Efficacia: nello studio clinico di fase 3 APPROACH, in pazienti con sindrome da chilomicronemia familiare, volanesorsen ha ridotto TG (-77%), colesterolo totale, colesterolo non-HDL, apoC-III (-84%), apoB-48, e i livelli di TG nel chilomicrone (-83%); inoltre ha aumentato i livelli di LDL-C, HDL-C e apoB (31).

Indicazione: unicamente come coadiuvante della dieta in pazienti adulti affetti da sindrome da chilomicronemia familiare, confermata geneticamente e ad alto rischio di pancreatite, in cui la risposta alla dieta e alla terapia di riduzione dei TG sia stata inadeguata.

Modalità di somministrazione: 285 mg sc ogni 1-2 settimane sotto il controllo di un medico esperto nel trattamento di questo tipo di pazienti.

Eventi avversi: è molto spesso associato a piastrinopenia. Risultano molto comuni anche reazioni cutanee nel sito di iniezione. Sono segnalati inoltre tossicità renale e aumenti degli enzimi epatici.

 

RACCOMANDAZIONI ESC/EAS 2019 PER LA TERAPIA FARMACOLOGICA DELL’IPERTRIGLICERIDEMIA PER RIDURRE IL RISCHIO CV (1)

Anche se il rischio di malattia CV è aumentato per livelli di TG a digiuno > 150 mg/dL, l’uso di farmaci per ridurre i TG può essere considerato solo in pazienti ad alto rischio, con trigliceridemia > 200 mg/dL che non possa essere ridotta con variazioni dello stile di vita. In questo contesto:

  1. la terapia con statine è raccomandata come prima scelta per ridurre il rischio di malattia CV in individui ad alto rischio con ipertrigliceridemia (> 200 mg/dL) (raccomandazione di classe I, livello B);
  2. nei pazienti a rischio alto o molto alto con TG di 135-499 mg/dL nonostante terapia con statina, dovrebbero essere considerati omega-3 (icosapent etile 2 g x 2/die) in combinazione con una statina (raccomandazione di classe IIa, livello B);
  3. nei pazienti in prevenzione primaria, che hanno raggiunto l’obiettivo di LDL-C, con TG > 200 mg/dL, possono essere considerati fenofibrato o bezafibrato in combinazione con statine (raccomandazione di classe IIb, livello B);
  4. nei pazienti ad alto rischio, che hanno raggiunto l’obiettivo di LDL-C, con TG > 200 mg/dL, possono essere considerati fenofibrato o bezafibrato in combinazione con statine (raccomandazione di classe IIb, livello C).

La nota 13 prevede la prescrizione a carico del SSN di fibrati (prima scelta fenofibrato) per  pazienti già in trattamento con statine che presentino HDL basse (< 40 mg/dL nei M e < 50 mg/dL nelle F) e/o trigliceridi elevati (> 200 mg/dL).

 

Donne: valgono in genere le stesse indicazioni sia per il genere maschile che per quello femminile, ma i farmaci ipolipemizzanti sono controindicati in gravidanza e allattamento.

 

Pazienti con compromissione renale: le dosi dei fibrati vanno quantomeno ridotte. In particolare (come risulta dalle schede tecniche dei farmaci):

  • eGFR 30-59 mL/min/1.73 m2: la dose/die di fenofibrato non deve superare i 100 mg standard o i 67 mg micronizzati;
  • creatininemia > 1.5 mg/dL o clearance < 60 mL/min: il bezafibrato è controindicato;
  • eGFR < 30 mL/min/1.73 m2: l’uso di questi farmaci non è raccomandato.

In caso di insufficienza renale cronica moderata o grave, la nota 13 prevede la prescrivibilità SSN dei soli omega-3 per livelli di trigliceridi ≥ 500 mg/dL.

 

Pazienti ≥ 65 anni: non è richiesto un aggiustamento della dose se la funzione renale è integra. Il bezafibrato non dovrebbe essere utilizzato poiché la clearance della creatinina dopo i 70 anni è solitamente < 60 mL/min. I pazienti anziani presentano più spesso comorbilità e necessità di politerapie, con conseguente maggiore probabilità di interazioni ed eventi avversi, di cui tener conto nella pianificazione delle terapie.

 

 

PREVENZIONE DELLA PANCREATITE ACUTA (1)
Per livelli di TG molto alti l’obiettivo della terapia è prevenire l’insorgenza di una pancreatite acuta. A questo scopo, oltre a dieta ipocalorica e ipolipidica e astinenza dagli alcoolici, iniziare un fibrato (fenofibrato) + eventuali omega-3 come terapia aggiuntiva.
Nei diabetici iniziare anche terapia insulinica per ottenere un buon controllo glicemico.
In situazioni di acuzie la plasmaferesi è rapidamente efficace.
Volanesorsen ha indicazione in aggiunta alla dieta in pazienti adulti con chilomicronemia familiare confermata geneticamente, che siano ad alto rischio di pancreatite.

 

 


TERAPIA IPOLIPEMIZZANTE IN BAMBINI E ADOLESCENTI CON IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE

L’ipercolesterolemia familiare (FH) è un’alterazione genetica ereditata in modo autosomico dominante (con una eccezione recessiva), caratterizzata da concentrazioni elevate di LDL-C, che causano patologia CV prematura (32-34). È dovuta a mutazioni che interessano (33):

  • nella maggioranza dei casi il recettore LDL;
  • nel 5% dei casi l’ApoB;
  • in < 1% dei casi PCSK9;
  • in una forma recessiva molto rara il gene LDLRAP (LDL receptor adaptor protein) 1.

La condizione di eterozigosi (HeFH) interessa 1/200 – 1/300 persone nel mondo, nella maggior parte dei casi con livelli di LDL-C di 190-500 mg/dL. La forma omozigote (HoFE), molto più rara, interessa da 1/160.000 a 1/300.000 persone, con livelli di LDL-C abitualmente > 500 mg/dL (34).

 

Criteri per la diagnosi di FH in età pediatrica (1,33)
La diagnosi può essere su base fenotipica o genetica.

Diagnosi fenotipica:

  • alta probabilità di FH:
    • LDL-C ≥ 5 mmol/L (> 190 mg/dL) in due occasioni successive dopo 3 mesi di dieta;
    • LDL-C ≥ 4 mmol/L (> 150 mg/dL) associato a storia familiare di cardiopatia ischemica (CHD) prematura in parenti stretti e/o ipercolesterolemia in un genitore;
  • possibile presenza di FH: LDL-C ≥ 3.5 mmol/L (135 mg/dL) nel bambino con un genitore con una diagnosi genetica.

 

Tappe diagnostiche
Considerare la diagnosi di FH nei bambini in presenza di LDL-C > 150 mg/dL.
Escludere cause secondarie di LDL-C elevato: ipotiroidismo, sindrome nefrosica, malattie colestatiche, obesità, anoressia, terapie farmacologiche (per es. isoretinoidi). Andrebbero considerate anche la sitosterolemia e la malattia da accumulo di esteri del colesterolo, per quanto estremamente rare.
In caso di genitore deceduto per CHD, un bambino con ipercolesterolemia anche moderata andrebbe sottoposto a indagine genetica per FH e per aumento su base ereditaria di Lp(a).
Se disponibile l’indagine genetica, è raccomandato lo screening a cascata della famiglia, usando sia la strategia fenotipica che genotipica. Se non è disponibile l’indagine genetica, deve essere usata una strategia fenotipica basata su livelli di LDL-C specifici per regione, età e genere.
I bambini con sospetto di HeFH dovrebbero essere sottoposti a screening dall’età di 5 anni.
Lo screening per HoFH dovrebbe essere iniziato al momento del sospetto clinico (due genitori affetti o presenza di xantomi) o appena possibile. Può essere considerato anche lo screening universale nell’infanzia.

 

Obiettivi di LDL-C

  • Bambini da 8 a 10 anni: riduzione del 50% rispetto ai livelli pre-terapia, soprattutto in quelli con condizioni ad alto rischio o con altri fattori di rischio maggiori.
  • Dai 10 anni: LDL-C < 3.5 mmol/L (< 135 mg/dL) (consenso di esperti, in assenza di evidenze per un target assoluto in bambini con FH).

 

Farmaci utilizzabili per la terapia dell’FH in età pediatrica (1,33)

Statine. Sono il cardine della terapia ipolipemizzante. Approvate in Europa per l’uso nei bambini:

  • dai 6 anni: rosuvastatina;
  • dagli 8 anni: pravastatina;
  • dai 10 anni: simvastatina, lovastatina, atorvastatina, fluvastatina.

In pazienti con insufficienza renale cronica andrebbero utilizzate statine non escrete dal rene, come atorvastatina o simvastatina.
È necessario tener conto delle potenziali interazioni farmacologiche con le statine:

  • simvastatina e atorvastatina: farmaci metabolizzati dal citocromo P450 (CYP) 3A4;
  • rosuvastatina e fluvastatina: farmaci metabolizzati dal CYP 2C9.

Pravastatina è una statina debole, ma non ha interferenze significative con gli enzimi CYP ed è quindi un farmaco sicuro per iniziare il trattamento nei bambini.

Ezetimibe. Approvato per l’uso nei bambini > 10 anni e molto ben tollerato.

Alimenti arricchiti con steroli/stanoli vegetali. L’uso non è raccomandato per bambini < 6 anni.

Alirocumab ed evolocumab. Non hanno indicazione per l’età pediatrica, con l’eccezione di evolocumab in caso di HoFH in adolescenti di età ≥ 12 anni.

 


BIBLIOGRAFIA

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Francesco Tassone
Endocrinologia, Ospedale S. Croce e Carle, Cuneo

 questo capitolo è in attesa di aggiornamento

Le dislipidemie, malattie metaboliche dovute a disordini del trasporto dei lipidi plasmatici, rappresentano uno dei più importanti fattori causali dell’arteriosclerosi e delle sue complicanze d’organo, come l’infarto miocardico, l’ictus cerebri e l’arteriopatia periferica. Tali entità cliniche rappresentano le cosiddette malattie cardiovascolari (CVD), cause principali di mortalità e morbilità in Europa, ma anche nei paesi in via di sviluppo. Se da un lato le cause di aterosclerosi e CVD sono multifattoriali e possono essere messe in relazione a stili di vita (come fumo, sedentarietà, dieta), dall’altro è dimostrato come anche alcune patologie quali il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa e le dislipidemie abbiano un ruolo fondamentale nel loro determinismo.
Per quanto attiene alle dislipidemie, comprendenti un ampio spettro di anormalità lipidiche, l’appropriato trattamento di alcune di esse rappresenta la base degli interventi di prevenzione primaria e anche secondaria delle CVD su base ischemica.

L’elevazione della colesterolemia totale e di quella LDL è stata oggetto di particolare studio negli ultimi decenni, anche perchè può essere modificata con interventi mirati sullo stile di vita e con terapie farmacologiche. Numerosi trial randomizzati e controllati (RCT) hanno fornito l’evidenza scientifica che riducendo la colesterolemia totale e/o LDL si può prevenire la CVD, pertanto colesterolemia totale e LDL rappresentano i target principali della terapia delle dislipidemie.

Negli ultimi anni si è inoltre chiarito come altri tipi di disordine lipidico, oltre all’elevazione della colesterolemia totale e/o LDL, possono predisporre alla CVD precoce, in particolare la relativamente frequente “dislipidemia aterogena”, caratterizzata da aumentati livelli di lipoproteine a bassissima densità (VLDL) e di conseguenza aumentati livelli di trigliceridi, incremento delle lipoproteine a bassa densità (LDL) “piccole e dense” e ridotti livelli di lipoproteine ad alta densità (HDL). Tuttavia, sono al momento limitati i dati di evidenza sulla riduzione del rischio di CVD impiegando terapie ipolipemizzanti in questo particolare “setting clinico” e pertanto trigliceridemia e colesterolemia-HDL rappresentano  al momento target opzionali nella prevenzione CVD.

La possibilità di intervento positivo sulla prevenzione della CVD grazie alla disponibilità di terapie ipolipemizzanti sicure, efficaci e ben tollerate, ha contribuito alla diffusione dell’interesse per il medico clinico nell’ambito della lipidologia. Pertanto, l’appropriata diagnosi e il trattamento dei disordini lipidici affrontata nei capitoli successivi rivestono un ruolo importante nella pratica clinica dello specialista che deve misurarsi con queste patologie.

 

Bibliografia

  1. Harrison’s Principles of Internal Medicine – 18° edition - Chapter 356. Disorders of Lipoprotein Metabolism. The McGraw-Hill Companies, Inc. 2012.
  2. The Task Force for the management of dyslipidaemias of the European Society of Cardiology (ESC) and the European Atherosclerosis Society (EAS). ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias. Eur Heart J 2011, 32: 1769-818.
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Fabrizio Muratori
UOC Endocrinologia e Diabetologia, Ospedale Sant'Anna, Como

 questo capitolo è in attesa di aggiornamento


RAZIONALE DELL’INTERVENTO FARMACOLOGICO NELLA TERAPIA INTEGRATA DELL’OBESITÀ

La gestione terapeutica dell’obesità è piuttosto complessa e richiede un approccio multidimensionale, con l’associazione di varie modalità terapeutiche integrate fra loro. Le linee guida dell’obesità indicano con molta chiarezza che il primo gradino della terapia è rappresentato dalla modificazione dello stile di vita attraverso l’educazione alimentare e l’esercizio fisico; il trattamento farmacologico dovrebbe quindi essere preso in considerazione solo dopo che è stata valutata l’efficacia della dieta, dell’esercizio fisico e, dove indicato, della terapia cognitivo-comportamentale e che tali approcci terapeutici si siano dimostrati inefficaci o nell’indurre perdita di peso o nel mantenimento del peso perso.
È comunque riportato in letteratura che la restrizione calorica, associata o meno a tecniche cognitivo-comportamentali, non è in grado di garantire, nella maggioranza dei casi, un calo ponderale adeguato e il mantenimento dei risultati raggiunti nel lungo periodo (1). Ormai è opinione comunemente consolidata che sia corretto utilizzare le varie terapie (dietologica, comportamentale, farmacologica e chirurgica) in modo integrato. È noto da molti anni che associare farmaci alla terapia del comportamento (educazione alimentare e terapia del movimento) induce un aumento della perdita di peso rispetto a quella ottenuta con il solo trattamento comportamentale (2,3). La decisione di iniziare il trattamento e la scelta del farmaco (quando fosse possibile) dovrebbero comunque avvenire dopo discussione con il paziente, sia dei potenziali benefici che dei limiti del farmaco, inclusi il suo meccanismo d’azione, gli effetti collaterali e il potenziale impatto sulla motivazione del paziente stesso. La terapia farmacologica dell’obesità richiede, infatti, una profonda conoscenza delle molecole a disposizione e dei loro meccanismi d’azione, ma soprattutto richiede esperienza nel campo terapeutico, per potere valutare al meglio le modalità e i tempi di somministrazione dei singoli farmaci (4).
Il ruolo del farmaco nell’obesità è di supportare gli altri presidi terapeutici ed è codificato dalle linee guida: secondo i National Institutes of Health, i farmaci anti-obesità sono indicati come parte di un programma globale che includa la dieta e l’attività fisica, in soggetti con BMI ≥ 30 kg/m2 oppure in soggetti con BMI ≥ 27 kg/m2 con altri fattori di rischio o altre patologie correlate all’obesità (tabella 1).

 

Tabella 1
Guida per la scelta del trattamento integrato del paziente obeso
  BMI
Trattamento 25–26.9 27–29.9 30–34.9 35–39.9 > 40
Dieta, esercizio fisico, terapia comportamentale + + + + +
Terapia farmacologica - Con comorbilità + + +
Terapia chirurgica - - Con comorbilità + +

 

A questo proposito si potrebbe obiettare che il limite di BMI di 27 è del tutto arbitrario, poiché se un paziente ha un BMI inferiore e presenta dei fattori di rischio correlati all’eccesso di peso, l’unica terapia efficace è la riduzione del peso stesso. Proprio per questo motivo l’uso di un eventuale farmaco ha in realtà una sola indicazione-controindicazione (che poi è la stessa di ogni terapia): il rapporto costo-beneficio, intendendosi per costo ogni elemento che può causare un danno al paziente.
Dopo la sospensione dal commercio di sibutramina nel gennaio 2010, in Italia è attualmente autorizzata una sola molecola per la terapia a lungo termine dell’obesità: orlistat. Vi sono studi controllati che valutano l’efficacia di questo farmaco per periodi che variano da due a quattro anni continuativi (5-7). Nella maggior parte degli studi che non utilizzano ausilio farmacologico il calo ponderale avviene nei primi sei mesi, a cui segue, nella maggior parte dei soggetti, un recupero ponderale. Anche con l’ausilio farmacologico si assiste a un calo ponderale più marcato nei primi sei mesi, seguito da un calo ponderale più lento nel periodo successivo. Alla sospensione del farmaco il peso viene generalmente recuperato, se il paziente non ha saputo modificare gli stili di vita in modo stabile. In questo contesto e alla luce delle attuali conoscenze, la terapia farmacologica ha lo scopo non tanto di aumentare il calo ponderale, ma di permettere a un maggior numero di soggetti obesi di raggiungere e mantenere gli obiettivi prefissati. Infatti, il ruolo dei farmaci nella terapia dell’obesità va inteso anche come un aiuto nel favorire l’adesione, da parte del paziente, all’approccio terapeutico globale, che comprende anche il trattamento nutrizionale, il cambiamento degli stili di vita e la terapia cognitivo-comportamentale (8,9).

 

Mantenimento del peso e supporto farmacologico
La posizione della comunità scientifica su questo aspetto della terapia dell’obesità è ormai consolidata. Il trattamento del paziente obeso (con le diverse modalità terapeutiche oggi a disposizione) deve proseguire anche dopo avere ottenuto un importante calo ponderale (10). Infatti, il mantenimento dei risultati ottenuti dopo riduzione del peso corporeo rappresenta uno degli aspetti più controversi e deludenti del trattamento del soggetto obeso, a causa dell’elevatissima frequenza di recidive a cui va incontro il paziente (11). Il successo, per il medico e il paziente, consiste nel raggiungere e mantenere l’obiettivo clinico stabilito. Per obiettivo clinico si intende raggiungere la riduzione ponderale necessaria a migliorare in modo sensibile i rischi legati all’obesità, specie quelli cardiovascolari. Sono stati condotti negli ultimi anni importanti studi per verificare se la terapia farmacologia (associata ovviamente a modifiche dello stile di vita, educazione alimentare e attività fisica) fosse in grado di modificare la tendenza al recupero di peso o addirittura fosse capace di fermarlo. I maggiori studi internazionali hanno dimostrato che l’aggiunta della terapia farmacologica (sibutramina, orlistat, lorcaserina e l’associazione fentermina/topiramato) induce un rallentamento consistente nel recupero di peso e, per quanto riguarda orlistat, è anche in grado di ridurre la comparsa di diabete mellito nei pazienti obesi seguiti per quattro anni (7-12).
In soggetti selezionati, si può ipotizzare il concetto di “ciclo terapeutico”, da prendere in considerazione a lungo termine. Se i risultati della precedente terapia sono stati soddisfacenti, negli anni successivi, quando compaiono situazioni o circostanze negative che comportino un recupero di peso, può essere presa in considerazione l’eventualità di nuovi cicli di terapia farmacologica per aiutare il paziente a gestire il momento difficile (9).

 

Bibliografia essenziale

  1. Douketis JD, Feightner JW, Attia J, Feldman WF. Canadian Task Force on Preventive Health Care.Periodic health examination, 1999 update: 1. Detection, prevention and treatment of obesity. CMAJ 1999, 160: 513-25.
  2. Weintraub M. Long-term weight control study: conclusions. Clin Pharmacol Ther 1992, 51: 642-6.
  3. James WP, Astrup A, Finer N, et al, for the STORM Study Group. Effect of sibutramine on weight maintenance after weight loss: a randomised trial. Lancet 2000, 356: 2119–25.
  4. Muratori F, Di Sacco G, Pellegrino D, Vignati F. La terapia farmacologica dell'obesità. In: Fatati G e Amerio ML (Eds), Dietetica e Nutrizione. Clinica, terapia e organizzazione, 2° Edizione, Il Pensiero Scientifico 2012: 491-538.
  5. Sjostrom L, Rissaanen A, Andersen t, et al. Randomised placebo-controlled trial of orlistat for weight loss and prevention of weight regain in obese patients. Lancet 1998, 352: 167-72.
  6. Davidson MH, Hauptman J, Di Girolamo M, et al. Weight control and risk factor reduction in obese subjects treated for 2 years with orlistat. JAMA 1999, 281: 235-42.
  7. Torgerson JS, Hauptman J, Boldrin MN, Sjostrom L. XENical in the prevention of Diabetes in Obese Subjects (XENDOS) Study. Diabetes Care 2004, 27: 155–61.
  8. Weintraub M, Sundaresan PR, Schuster B, et al. Long term weight control: the National Heart, Lung and Blood Institute funded multimodal intervention study I-VII. Clin Pharmacol Ther 1992, 51: 581-646.
  9. Standard Italiani per la Cura dell'Obesità, SIO-ADI 2012-2013.
  10. Apfelbaum M, Vague P, Ziegler O, et al. Long-term maintenance of weight loss after a very-low-calorie diet: a randomized blinded trial of the efficacy and tolerability of sibutramine. Am J Med 1999, 106: 179-84.
  11. Wadden TA, Sternberg V, Letiziak KA, et al. Treatment of obesity by very-low-calorie diet, behavior therapy, and their combination: a five-year perspective. Int J Obes 1989, 13: 39-46.
  12. Garvey WT, Ryan DH, Look M, et al. Two-year sustained weight loss and metabolic benefits with controlled-release phentermine/topiramate in obese and overweight adults (SEQUEL): a randomized, placebo-controlled, phase 3 extension study. Am J Clin Nutr 2012, 95: 297-308.

 


FARMACI CHE RIDUCONO L’ASSUNZIONE DI CIBO

È noto da molti decenni che l’ipotalamo ha una funzione importante nella regolazione dell’alimentazione. Infatti, negli animali da esperimento la stimolazione elettrica dell’ipotalamo laterale aumenta l’assunzione di cibo, mentre la stimolazione dell’ipotalamo ventro-mediale la diminuisce. Con l’avanzare della ricerca scientifica e delle conoscenze neurofisiologiche sulla regolazione del bilancio energetico, si è però osservato che nella regolazione dell’apporto alimentare il controllo del sistema che regola l’omeostasi del bilancio energetico è estremamente complesso, basandosi sull’integrazione, a livello di numerose aree cerebrali, tra le informazioni metaboliche provenienti dalla periferia e i segnali del sistema nervoso centrale. Lo studio di questi segnali rappresenta il più importante campo di ricerca nell’obesità ed è in rapida evoluzione. Da anni è comunque noto che noradrenalina, serotonina e dopamina, agendo su specifici siti a livello ipotalamico, determinano modificazioni del comportamento alimentare (1).
I farmaci ad azione centrale hanno quindi lo scopo di modulare l’assunzione del cibo e possono essere suddivisi in tre categorie.

  • Farmaci che agiscono sulle vie centrali serotoninergiche: unico farmaco liberatore di serotonina è la lorcaserina, autorizzata in USA dal giugno 2012, un agonista selettivo dei recettori serotoninergici 5HT2C. Tale molecola non è attualmente autorizzata in Italia.
  • Farmaci che agiscono sulle vie centrali catecolaminergiche: fentermina, mazindolo, dietilpropione, fendimetrazina (autorizzate come specialità medicinali negli USA da parte della FDA e non autorizzate in Italia)(2-8). Nel luglio del 2012 la FDA ha approvato, dopo lorcaserina sopra citata, anche l’uso di fentermina–topiramato, una combinazione di un farmaco ad azione noradrenergica e di un farmaco impiegato nel trattamento dell'epilessia e nella profilassi dell'emicrania, per il trattamento dell’eccesso ponderale in pazienti con BMI ≥ 30 kg/m2 o in pazienti con BMI ≥ 27 kg/m2 in presenza di comorbilità (9-13).
  • Farmaci che agiscono sulle vie centrali catecolaminergiche e serotoninergiche: sibutramina. Sospesa dal mercato europeo e negli Stati Uniti nel 2010 (14-16).

Poiché le molecole di questa classe (farmaci ad azione centrale che riducono l’assunzione di cibo) non sono disponibili attualmente in Italia, l’esposizione di questo capitolo è prevalentemente di tipo informativo. In bibliografia vi sono molte voci utili ad approfondire l’argomento per chi fosse interessato.
Nella tabella 2 sono elencate le molecole anti-obesità autorizzate da FDA e AIFA per il trattamento dell’obesità. Il solo farmaco approvato per l’uso nell’obesità come specialità medicinale in Italia è Orlistat (farmaco ad azione periferica). Delle molecole di questa tabella, negli Stati Uniti la fentermina è ancora oggi il farmaco più utilizzato nel trattamento dell’obesità (dove è in commercio come specialità medicinale dal 1959). Il farmaco ad azione catecolaminergica più impiegato in Italia, nel recente passato, è stato la fendimetrazina. Questa era prescrivibile solo sotto forma galenica, unicamente da specialisti in endocrinologia, scienza dell’alimentazione, medicina interna, diabetologia, per un periodo non superiore a tre mesi consecutivi e solo in soggetti con BMI ≥ 30 kg/m2, ma dall’agosto 2011 ne è stata vietata da parte del Ministero della Salute la preparazione e la prescrizione.

 

Tabella 2
Farmaci autorizzati per il trattamento dell’obesità

(al 30/10/2013)
  Autorizzato FDA Autorizzato AIFA
Dietilpropione No
Fendimetrazina No
Fentermina No
Fentermina+Topiramato No
Lorcaserina No
Mazindolo No
Orlistat
Sibutramina No No

 

Bibliografia essenziale

  1. Parker JA, Bloom SR. Hypothalamic neuropeptides and the regulation of appetite. Neuropharmacology 2012, 63: 18-30.
  2. Abenhaim L, Moride Y, Brenot F, et al. Appetite-suppressant drugs and the risk of primary pulmunary hypertension. N Engl J Med 1996, 335: 609-16.
  3. Connolly HM, Crary JL, McGoon MD, et al. Valvular heart disease associated with fenfluramine-phentermine. N Engl J Med 1997, 337: 551-8.
  4. Hendrics EJ, Rothman RB, Greenway FL. How physician obesity specialists use drugs to treat obesity. Obesity (Silver Spring) 2009, 17: 1730-5.
  5. Cercato C, et al. A randomized double-blind placebo-controlled study of the long term efficacy and safety of diethylpropion in the treatment of obese subjects. Int J Obesity 2009, 33: 857-65.
  6. Bray GA, Greenway FL. Pharmacological treatment of the overweight patient. Pharmacol Rev 2007, 59: 151-84.
  7. Bray GA. Medications for weight reduction. Med Clin North Am 2011, 95: 989-1008.
  8. Muratori F, Di Sacco G, Pellegrino D, Vignati F. La terapia farmacologica dell'obesità. In: Fatati G e Amerio ML (Eds), Dietetica e Nutrizione. Clinica, terapia e organizzazione, 2° Edizione, Il Pensiero Scientifico 2012: 491-538.
  9. Fidler MC, Sanchez M, Raether B, et al. A one-year randomized trial of lorcaserin for weight loss in obese and overweight adults: the BLOSSOM trial. J Clin Endocrinol Metab 2011, 96: 3067-77.
  10. O’Neal PM, Smith SR, Weissman NJ, et al. Randomized placebo-controlled clinical trial of lorcaserin for weight loss in type 2 diabetes mellitus: the BLOOM-DM study. Obesity 2012, 20: 1426-36.
  11. Coleman E. FDA briefing document. NDA 22529 Lorquess (Lorcaserin hydrochloride). Tablets 10 mg Sponsor Arena Pharmaceuticals Advisory Committee (2010).
  12. Gadde KM, Allison DB, Ryan DH, et al. Effects of low-dose, controlled-release, phentermine plus topiramate combination on weight and associated comorbidities in overweight and obese adults (CONQUER): a randomised, placebo-controlled, phase 3 trial. Lancet 2011, 377: 1341-52.
  13. Garvey WT, Ryan DH, Look M, et al. Two-year sustained weight loss and metabolic benefits with controlled-release phentermine/topiramate in obese and overweight adults (SEQUEL): a randomized, placebo-controlled, phase 3 extension study. Am J Clin Nutr 2012, 95: 297-308.
  14. James WPT, et al. Effects of sibutramine on cardiovascular outcomes in overweight and obese subjects. N Eng J Med 2010, 363: 905-17.
  15. Caterson ID, Finer N, Coutinho W, et al, on behalf of the SCOUT Investigators.  Maintained intentional weight loss reduces cardiovascular outcomes: results from the Sibutramine Cardiovascular OUTcomes (SCOUT) trial. Diabetes, Obes Metab 2012, 14: 523-30.
  16. Bach DS, Rissanen AM, Mendel CM, et al. Absence of cardiac valve dysfunction in obese patients treated with sibutramine. Obes Res 1999, 7: 363-9.

 


FARMACI CHE RIDUCONO L’ASSORBIMENTO DEI NUTRIENTI

Orlistat     appartiene a una nuova classe di farmaci per l’obesità, in quanto non agisce sopprimendo l’appetito, ma riducendo l’assorbimento dei grassi a livello del tratto gastrointestinale (1). L’azione farmacologica non si manifesta quindi per via sistemica, bensì nel tratto gastrointestinale. Orlistat è un potente inibitore irreversibile delle lipasi ed esplica la sua attività farmacologica nel lume dello stomaco e dell’intestino. La lipasi è l’enzima chiave coinvolto nella digestione dei lipidi alimentari. Le lipasi scindono i lipidi alimentari, in presenza di sali biliari, liberando acidi grassi dal glicerolo dei trigliceridi: gli acidi grassi liberi e il monogliceride sono successivamente disponibili per l’assorbimento attraverso la parete intestinale fino a giungere in circolo; l’anello ß-lattonico di orlistat forma un estere con i residui laterali della serina nel sito attivo delle lipasi, che è stabilizzato dai sali biliari. Il blocco delle lipasi determina una minore degradazione dei trigliceridi alimentari, con conseguente riduzione del loro assorbimento (circa il 30% in meno)(2). I trigliceridi non assorbiti passano attraverso il tratto intestinale e sono eliminati con le feci. Orlistat non ha effetti sulle altre funzioni pancreatiche, né sull’assorbimento dei carboidrati e delle proteine (3). Orlistat ha un assorbimento sistemico del tutto trascurabile (96% della dose totale).
Orlistat è stato valutato in studi clinici il cui disegno sperimentale prevedeva che i pazienti, a seguito di un periodo di run-in con il solo placebo, venissero randomizzati al placebo o al farmaco in esame. Dopo 12 mesi di trattamento, un cross-over randomizzava nuovamente i pazienti a placebo o Orlistat. La dieta è stata lievemente ipocalorica nel primo anno (circa 1500 Kcal/die), contenente approssimativamente 30% di calorie sotto forma di grassi, mentre nel secondo anno è stata assunta una dieta normocalorica. La perdita di peso nei 12 mesi è stata significativamente più elevata con orlistat, rispetto al placebo, in tutti gli studi clinici (10% di riduzione del peso iniziale rispetto al 6.1% del gruppo trattato con placebo). Vi è inoltre da aggiungere che la percentuale di pazienti che ha raggiunto una perdita di peso > 10% è stata significativamente più elevata nei pazienti trattati con orlistat (38.8% vs 17.6%). Altro dato significativo è che i pazienti trattati con orlistat durante il primo e il secondo anno, abbiano recuperato meno peso durante il secondo anno, rispetto ai pazienti che erano passati dalla terapia con orlistat al trattamento con placebo al termine del primo anno (4,5). La terapia con orlistat è inoltre associata a un significativo miglioramento di alcuni fattori di rischio per la patologia cardiovascolare, quali riduzione del colesterolo totale, del colesterolo LDL, dei trigliceridi e infine riduzione della pressione arteriosa (5). È importante notare che il miglioramento del quadro lipemico è maggiore nei soggetti che assumono il farmaco rispetto a quelli trattati con placebo, anche a parità di dimagrimento. Infatti, l’effetto di orlistat sul colesterolo LDL è indipendente dalla perdita di peso, come anche l’azione sull’assorbimento del colesterolo alimentare. Questi effetti sono legati al meccanismo d’azione del farmaco: il blocco delle lipasi induce una minore degradazione dei trigliceridi alimentari a formare acidi grassi e monogliceridi. Questa ridotta formazione di acidi grassi determina anche una minore solubilizzazione del colesterolo alimentare, con conseguente vantaggiosa riduzione del suo assorbimento.
La dose consigliata è di 120 mg (una capsula) prima, durante o fino ad un’ora dopo il termine dei pasti. Dal 2009 è in commercio la dose inferiore da 60 mg; in questo caso il farmaco non necessita di ricetta medica.
Gli effetti collaterali sono la diretta conseguenza dell’azione farmacologica di riduzione dell’assorbimento dei grassi alimentari e riguardano principalmente il tubo digerente con feci poltacee, oleose, crampi addominali, flatulenza, aumento della frequenza di defecazione, incontinenza fecale, disturbi tutti rilevati soprattutto in pazienti che non diminuivano la quota alimentare di grassi. Infatti, gli effetti collaterali sopra indicati non sono correlati alle dosi di farmaco utilizzate, bensì alla quantità di grasso eliminato con le feci.
Molti degli studi clinici condotti con orlistat hanno incluso una valutazione dei livelli delle vitamine liposolubili e del ß-carotene ed è stata notata una diminuzione significativa di dette vitamine, senza comunque effetti sfavorevoli sul metabolismo del calcio e sulle ossa (6). in pazienti trattati per lungo tempo con orlistat è consigliata la supplementazione con vitamine liposolubili: tale supplemento dovrebbe essere somministrato due ore prima o due ore dopo l’ultima somministrazione di orlistat (7). Orlistat, dato che può comportare un’aumentata eliminazione di ossalato urinario, è da usare con cautela in caso di nefrolitiasi da ossalato di calcio (8).
Il farmaco è praticamente privo di interazioni farmacologiche con altre molecole: non sono descritte interazioni sfavorevoli con alcool etilico assunto alla dose di 40 g/die, con contraccettivi orali, glibenclamide, pravastatina, atenololo, furosemide, nifedipina, digossina, fenintoina (9-15).
I criteri adottati in studi controllati sono la logica conseguenza dell’attività farmacologica della molecola, che, riducendo l’assorbimento dei grassi alimentari, è indicata soprattutto in quei pazienti che già sono aderenti a una dieta ipocalorica: in questi soggetti, infatti, riducendo ulteriormente l’introito calorico, si assiste a un maggiore calo ponderale. A nostro avviso, l’importanza di questo farmaco non è comunque data solo da questo aspetto, ma dagli effetti gastroenterici che insorgono quando si aumenta in modo eccessivo l’introito di grassi: questa sorta di “effetto antabuse” permette una maggiore aderenza alla dieta corretta. Ciò è probabilmente più evidente nei soggetti affetti da obesità morbigena (BMI > 40 kg/m2) (16) proprio perché in questi pazienti l’eccesso di alimenti grassi è notevolmente marcato. Queste considerazioni, unite alla scarsità di assorbimento sistemico e alla mancanza di interazione con altri farmaci, fanno ritenere orlistat un farmaco particolarmente indicato nelle fasi di mantenimento.

 

Effetto di orlistat nella prevenzione del diabete di tipo 2 in pazienti obesi
I dati più significativi sull’impiego di orlistat nei soggetti obesi diabetici o con ridotta tolleranza glicidica provengono dallo studio XENDOS, che ha valutato l’efficacia del farmaco, rispetto al placebo, nel ridurre la comparsa di diabete mellito di tipo 2 nell’arco di quattro anni (17). Il trattamento con farmaco o con placebo era accompagnato a modifiche dello stile di vita, dieta moderatamente ipocalorica e moderato esercizio fisico. Sono stati seguiti 3304 pazienti obesi (BMI > 30 kg/m2) con normale (79%) o ridotta (21%) tolleranza al glucosio, trattati per quattro anni con orlistat 120 mg o placebo 3 volte al dì. È stata valutata la progressione del peso e la progressione del diabete di tipo 2. Lo studio ha dimostrato che, rispetto al placebo, orlistat in associazione al cambiamento dello stile di vita determina a 4 anni un’evidente riduzione del peso e una significativa riduzione dell’incidenza di diabete mellito di tipo 2 (-37%) rispetto alle sole variazioni dello stile di vita e una significativa e sostanziale riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare.
Un altro studio, condotto per un anno su 220 soggetti (18), ha dimostrato l’efficacia di orlistat rispetto al placebo, nel migliorare il controllo glicemico e ridurre la progressione del diabete, oltre a migliorare il profilo lipidico e i livelli pressori.

 

Orlistat e profilo lipidico
Orlistat è in grado di influire positivamente sul profilo lipidico anche grazie al suo meccanismo di azione. Gli effetti favorevoli di orlistat sul profilo lipidico sono stati documentati nello studio XENDOS (17), che ha dimostrato una riduzione significativa del colesterolo LDL a un anno (-11.4% vs placebo -1.6%) e a quattro anni (-12.8% vs -5.2%), associata a una riduzione significativa del rapporto colesterolo LDL/HDL: a un anno -0.5% vs placebo -0.3%, a quattro anni – 0.6% vs -0.4%.

 

Bibliografia essenziale

  1. Guerciolini R. Mode of action of orlistat. Int J Obes Relat Metab Disord 1997, 21: S12-23.
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Simona Ferri
SC di Endocrinologia - Ospedale Maggiore e Bellaria - Azienda USL di Bologna

(aggiornato al 5 agosto 2016) questo capitolo è in attesa di aggiornamento

 

DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA

Sono sindromi eterogenee, caratterizzate dall’assenza parziale o completa di tessuto adiposo bianco, che determina livelli bassi o indosabili di leptina, citochina derivante dal tessuto adiposo stesso. La leptina regola numerosi processi metabolici, inclusa l’omeostasi glucidica, l’insulino-sensibilità e l’ossidazione degli acidi grassi, e ha un ruolo importante nella regolazione dell'appetito (effetto anoressizzante). I pazienti affetti da lipodistrofia presentano difetti della differenziazione degli adipociti, che causano una maggiore disponibilità di acidi grassi liberi. Questi si depositano selettivamente nel tessuto adiposo viscerale, con conseguenti alterazioni metaboliche peculiari, quali insulino-resistenza, diabete mellito e ipertrigliceridemia. Tali alterazioni causano secondariamente lo sviluppo di aterosclerosi, steatosi epatica non alcolica (NAFLD) e pancreatiti acute. Spesso le donne affette presentano sindrome dell'ovaio policistico. L’80% dei pazienti con lipodistrofia soddisfa i criteri diagnostici per la sindrome metabolica.

 

CLASSIFICAZIONE E PATOGENESI

Si distinguono forme congenite e acquisite (tabella); la patogenesi delle forme congenite dipende da mutazioni con deficit di molecole coinvolte nella differenziazione degli adipociti e nel metabolismo lipidico. Le forme acquisite si verificano frequentemente nei pazienti HIV in terapia anti-retrovirale (HAART); in altri casi le sindromi lipodistrofiche si associano ad altre patologie autoimmuni (1).

 

Classificazione lipodistrofie
Congenite Lipodistrofia generalizzata congenita (s. di Berardinelli-Seip)

Lipodistrofie parziali familiari:

  • s. di Dunnigan
  • s. di Kobberling
  • mutazione del gene PPAR-gamma
  • displasia mandibolo-acrale

Atri tipi

Acquisite

Lipodistrofia generalizzata acquisita (s. di Lawrence)
Lipodistrofia parziale acquisita (s. di Barraquer-Simons)
Lipodistrofia HIV-relata

Lipodistrofie localizzate:

  • da farmaci
  • da compressione
  • idiopatica
  • variante centrifuga

 

Nei pazienti con lipodistrofia è stato inoltre dimostrato un aumento sierico dei livelli di apolipoproteina CIII (apoCIII), importante regolatrice della sintesi di trigliceridi, sintetizzata principalmente a livello epatico e in minor parte nell’intestino tenue. ApoCIII è un’inibitore non competitivo della lipoproteina lipasi (LPL), che idrolizza i trigliceridi in acidi grassi liberi e favorisce il catabolismo delle lipoproteine ricche di trigliceridi con successiva clearance epatica. Un aumento di apoCIII è associato quindi a ipertrigliceridemia (2).

 

LIPODISTROFIE CONGENITE

Lipodistrofia generalizzata congenita (CGL) – s. di Berardinelli-Seip
Epidemiologia. Patologia a trasmissione autosomica recessiva, la prevalenza è stimata a livello mondiale circa 1/10.000.000. La caratteristica determinante è la totale assenza di tessuto adiposo, già riconoscibile a 2 anni di età (ma talvolta anche dalla nascita), con conseguente aspetto muscoloso.
Clinica. L’infanzia è caratterizzata da rapida crescita staturale e aumento dell'età ossea. A partire dall’adolescenza si manifesta tipicamente acanthosis nigricans, soprattutto a livello di collo e ascelle, ma anche di inguine e tronco. Frequentissime sono epatomegalia e steatosi, che spesso portano a cirrosi epatica; molto frequente anche la splenomegalia. Il fenotipo può apparire spesso acromegalico, per la presenza di prognatismo e ispessimento di mani e piedi. Nelle donne in età post-puberale si sviluppa frequentemente una s. dell’ovaio micropolicistico, associata spesso a clitoridomegalia e frequente infertilità, non descritta nel maschio. Sono frequenti le lesioni ossee di tipo litico, mentre in alcuni pazienti è stata descritta cardiomiopatia ipertrofica e ritardo mentale. A livello metabolico l’insulino-resistenza è per la maggior parte dei casi severa e spesso esita in diabete mellito tipo 2 già dall’adolescenza; anche l’ipertrigliceridemia è maggiormente severa, con frequenti complicanze pancreatitiche.
Genetica e patogenesi. Gli AGPAT (1-acylglycerol-3-phosphate O-acyltransferase) sono enzimi coinvolti nella sintesi di trigliceridi e fosfolipidi; l’isoforma AGPAT2 è espressa a elevati livelli nel tessuto adiposo e una sua mutazione pare che determini lipodistrofia mediante una deplezione di trigliceridi nel tessuto adiposo, riducendo inoltre la disponibilità di fosfolipidi, importanti per i segnali intra-cellulari e di membrana. I pazienti affetti da tale forma (CGL di tipo 1) presentano un risparmio del tessuto adiposo a carico delle aree meccanicamente protettive o di cuscinetto, come le regioni peri-articolari, le orbite, la vulva, i palmi delle mani, le piante dei piedi, lo scalpo, la lingua, il cavo orale e la regione peri-caliceale dei reni. Il risparmio di tali aree adipose sta a indicare una verosimile iperespressione delle altre isoforme di AGPAT.
Nelle CGL di tipo 2 si ha il coinvolgimento del gene che codifica per la seipina (BSCL2), che pare avere un ruolo importante nell’adipogenesi; la sua espressione è inoltre elevata a livello del tessuto encefalico e bassa a livello del tessuto adiposo: questo potrebbe spiegare il deficit cognitivo e il quadro clinico più grave che si può riscontrare nella CGL di tipo 2.
Le mutazioni di AGPT2 e BSCL2 sono responsabili del 95% delle forme. Molto più rare sono la CGL 3, associata alla mutazione di CAV1, che codifica per la caveolina, e la CGL 4, associata alla mutazione di PTRF.
Alcuni pazienti non presentano nessuna delle mutazioni note, a indicare che probabilmente anche altri geni sono coinvolti (1,3,4).

 

Lipodistrofia parziale familiare - varietà Dunnigan
Patologie a trasmissione autosomica dominante molto eterogenee. La più frequente, descritta da Dunnigan, comprende circa 200 pazienti e si caratterizza per una normale distribuzione del tessuto adiposo nell'infanzia, con progressiva perdita di grasso dagli arti e successivamente da addome e torace a partire dalla pubertà. Molti pazienti, in particolare le donne, accumulano grasso a livello di collo, visceri e viso, con aspetto cushingoide. La RMN dimostra in questi pazienti la perdita di grasso sottocutaneo, con accumulo dello stesso nello spazio inter-muscolare di braccia e gambe, oltre a eccesso di grasso intra-addominale. Le complicanze metaboliche, come insulino-resistenza, ipertrigliceridemia, bassi livelli di HDL, sono molto più frequenti nelle donne; generalmente il diabete si sviluppa dalla II decade di vita. Il meccanismo patogenetico coinvolge il gene LMNA, il cui difetto causa la morte degli adipociti.

 

Lipodistrofia parziale familiare tipo Kobberling
Sindrome rara a trasmissione autosomica dominante, la cui diagnosi è resa difficile dalla mancanza di test di validazione genetica. È caratterizzata da perdita di tessuto adiposo dagli arti inferiori, accumulo di grasso sottocutaneo a livello del tronco e ipertensione arteriosa. Le complicanze metaboliche sono quelle tipiche delle altre forme di lipodistrofia.

 

Lipodistrofia parziale familiare associata a mutazione del gene PPAR-gamma
Rara forma di lipodistrofia parziale, caratterizzata da perdita di tessuto adiposo da arti e viso, associata a mutazione del gene PPAR-gamma, che normalmente interviene nella differenziazione dell'adipocita.

Sono state inoltre descritte pazienti femmine con deplezione adiposa da braccia e gambe, con risparmio del tessuto adiposo del viso ed eccessiva deposizione intra-addominale senza mutazioni del gene PPAR-gamma né di LMNA, il che suggerisce che intervengano altre mutazioni.

 

Lipodistrofia associata a displasia mandibolo-acrale
Patologia estremamente rara, descritta in 40 pazienti, caratterizzata da ipoplasia clavicolare, acro-osteolisi, contratture articolari, pigmentazione cutanea, facies da neonato, alopecia, atrofia cutanea, anormalità della dentizione e lipodistrofia.
I pazienti affetti vengono suddivisi in varianti:

  • di tipo A: deplezione delle riserve adipose sottocutanee negli arti e normale deposizione o eccesso a viso e collo;
  • di tipo B: perdita di grasso sottocutaneo più generalizzata. In alcuni pazienti sono state descritte inoltre le complicanze metaboliche tipiche della lipodistrofia.

Anche in questi pazienti è stato riconosciuto come meccanismo patogenetico una mutazione del gene LMNA.

Altre forme di lipodistrofie congenite comprendono la sindrome SHORT, caratterizzata da bassa statura, iperestensibilità delle articolazioni, difetti corneali e dell'iride, dove la distribuzione del grasso è pressochè assente nel sottocutaneo, eccetto che nella zona sacrale e glutea (1).

 

 

LIPODISTROFIE ACQUISITE

Sono più frequenti delle forme ereditarie.

 

Lipodistrofia generalizzata acquisita (AGL) o s. di Lawrence
Epidemiologia
: la lipodistrofia generalizzata è molto rara, descritta in 80 pazienti con un rapporto M:F = 1:3 e di cui la stragrande maggioranza è di razza caucasica.
Clinica: la perdita di tessuto adiposo avviene generalmente già dall’età infantile o dalla pubertà, ma può esordire anche nell’adulto, coinvolgendo gran parte dei distretti corporei, in particolare viso e arti; spesso il tessuto adiposo viene perso anche dal sottocutaneo di palme delle mani e dorso dei piedi, mentre risultano preservati il grasso retro-orbitario e il grasso bruno. Tipicamente i bambini affetti presentano appetito vorace. Spesso sono presenti già dall’infanzia acanthosis nigricans e epato-steatosi. Nel 20% dei pazienti è stata descritta cirrosi epatica.
Patogenesi
: sembra immuno-mediata, in quanto è stato dimostrato che nel 25% dei pazienti la perdita di tessuto adiposo è preceduta da una pannicolite, generalmente successiva a terapia iniettiva sottocutanea con reazione granulomatosa. Inizialmente tale lesione va incontro a guarigione, con una perdita di tessuto adiposo localizzata, ma successivamente si manifesta il quadro della lipodistrofia generalizzata. Un altro 25% dei pazienti presenta un’altra patologia autoimmune associata, in particolare la dermato-miosite. Il restante 50% dei pazienti sembra essere affetto da una lipodistrofia generalizzata idiopatica. I pazienti che presentano una pannicolite come evento iniziale presentano una perdita di tessuto adiposo inferiore e una minore prevalenza di diabete mellito e ipertrigliceridemia (1).

 

Lipodistrofia parziale acquisita – s. di Barraquer Simons
Patologia rara, descritti circa 250 casi di varie estrazioni etniche, con rapporto M:F = 1:4. La perdita di tessuto adiposo è localizzata a viso, collo, arti superiori, torace e parte superiore dell’addome e avviene a partire dall’infanzia o adolescenza. In contrasto con la perdita di tessuto adiposo dai distretti corporei superiori, esso risulta invece in eccesso su anche e arti inferiori, soprattutto nelle donne. Le complicanze metaboliche non sono frequenti. È stato osservato che nel 20% dei pazienti affetti si ha lo sviluppo di una glomerulonefrite membrano-proliferativa, dopo circa 5-10 anni dall’esordio della lipodistrofia. Si è inoltre osservato in alcuni pazienti lo sviluppo di patologie autoimmuni, come LES. La base patogenetica risulta immuno-mediata, in quanto è stata osservata la presenza di bassi livelli di C3 e risulta inoltre dosabile una IgG policlonale, definita fattore nefritico C3, che attivando l’enzima C3-convertasi (C3b,Bb) riduce i livelli di C3 stesso, causando un’incontrastata attivazione della via alternativa del complemento. Rimane tuttora poco chiaro il motivo per il quale venga risparmiato il tessuto adiposo degli arti inferiori (1,5).

 

Lipodistrofia parziale in pazienti affetti da HIV
Epidemiologia
: rappresenta il tipo più frequente di lipodistrofia, osservata nel 40% dei soggetti HIV in corso di terapia anti-retrovirale (HAART) per più di 12 mesi.
Clinica: la perdita di tessuto adiposo avviene a carico di arti, volto (in alcuni casi fino alla scomparsa della bolla adiposa di Bichat), regione temporale. Per quanto riguarda il lipo-accumulo, la manifestazione più eclatante è la comparsa di una massa circoscritta di tessuto adiposo nella regione dorso-cervicale. Talvolta si ha deposizione di adipe nel collo e nel tronco. Anche in questi pazienti si ha un accumulo di tessuto adiposo a livello viscerale, in particolare a livello epatico, con secondaria ipertrigliceridemia, epato-steatosi, insulino-resistenza e bassi livelli di colesterolo HDL. Rara è l’insorgenza di diabete mellito.
Patogenesi: è discussa. Allo stato attuale delle conoscenze è stato dimostrato che:

  • vi è uno stretto legame causale con HAART, in particolare con gli inibitori della proteasi e gli inibitori nucleosidici della trascriptasi inversa;
  • esiste una predisposizione genetica e una diversità razziale (i pazienti afro-americani risultano più protetti rispetto ai caucasici);
  • l’attività fisica costante e il controllo dietetico svolgono un effetto protettivo e contenitivo del fenomeno.

I meccanismi con i quali gli HAART determinano lipodistrofia non sono ancora del tutto chiariti: gli inibitori della proteasi inibiscono l’adipogenesi, causando un’inibizione nella differenziazione dei pre-adipociti e inducono l’apoptosi degli adipociti maturi; gli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa determinano un danno mitocondriale. Altri meccanismi indiretti sono determinati dai cambiamenti immunologici secondari a HAART e infezione da HIV, che determinano riduzione della sintesi di colesterolo HDL.
Pazienti sottoposti allo stesso regime farmacologico possono rispondere, dal punto di vista metabolico, in maniera del tutto differente, a indicare una componente genetica. Sono in corso studi che sembrano evidenziare quadri genetici (su alcuni geni che codificano per proteine e ormoni implicati nel metabolismo lipidico, polimorfismi che riguardano geni implicati nell’apoptosi degli adipociti), che possono conferire protezione o propensione nei confronti della sindrome lipodistrofica (6).

 

Lipodistrofie localizzate
Caratterizzate dalla perdita di tessuto adiposo da piccole aree, con realizzazione di un’impronta. In alcuni pazienti vi può essere un’importante coinvolgimento del tronco o degli arti. Le cause possono essere molto varie, ma nella stragrande maggioranza dei casi sono determinate dalla terapia iniettiva insulinica o corticosteroidea, in rari casi da pegvisomant, oltre a pannicolite o sollecitazione pressoria localizzata ripetuta (1).

 

 

DIAGNOSI

Per porre diagnosi di lipodistrofia possono essere sufficienti le caratteristiche cliniche peculiari, le alterazioni biochimiche, la scarsità di grasso corporeo (valutato con DEXA o RMN) e bassi livelli di leptina, anche se sarebbe comunque necessario effettuare la ricerca del tipo di mutazione, che può orientare sul tipo di evoluzione clinica.

 

TERAPIA

Non vi è un’unica terapia per la lipodistrofia, ma ogni paziente deve ricevere una terapia personalizzata, finalizzata alle complicanze metaboliche che esso presenta.

Gestione della dislipidemia: dieta ipolipidica (< 15% di lipidi) ed esercizio fisico, evitando l’alcool. In caso di persistenza di alterato assetto lipidico nonostante dieta, esercizio fisico e mantenimento dell’euglicemia, è possibile utilizzare fibrati e omega-3 ad elevate dosi. In alternativa ai fibrati, possono essere prescritte statine, facendo attenzione nei pazienti HIV: per interazione con gli inibitori delle proteasi, sono preferibili rosuvastatina, pravastatina e fluvastatina. Evitare estrogeni per il trattamento della PCOS, in quanto potrebbero aggravare la dislipidemia.

Gestione dell’iperglicemia: si possono utilizzare insulino-sensibilizzanti (metformina o glitazonici). Particolarmente indicata risulta la metformina per l’effetto su peso, PCOS e steatosi. Indicata anche la terapia insulinica, che spesso deve essere effettuata ad alte dosi per la presenza di marcata insulino-resistenza.

Pazienti HIV: in quelli con dislipidemia non controllata potrebbe essere indicato il passaggio a una terapia anti-retrovirale differente. Anche se la perdita di tessuto adiposo sottocutaneo spesso può essere irreversibile, in alcuni casi si è assistito a un ripristino della normale distribuzione del grasso dopo mesi dal cambio di terapia. Sono stati inoltre condotti studi con tesamorelina, un GH-releasing hormone, che ha portato a riduzione della circonferenza addominale e del grasso addominale, della pressione e ad aumento dei livelli di adiponectina senza alterazioni dell’omeostasi glucidica. Purtroppo tale terapia risulta costosa e spesso i pazienti non sono complianti perchè è iniettiva sc; inoltre gli effetti favorevoli della terapia scompaiono alla sua sospensione.
La terapia d’elezione delle lipodistrofie generalizzate, congenite o acquisite, è la Metreleptina, analogo ricombinante della leptina. Questa è somministrata uno o due volte al giorno sc, preferibilmente allo stesso orario per mimare il ritmo circadiano della leptina. La dose iniziale raccomandata è calcolata in base al peso corporeo (dose massima giornaliera per peso < 40 kg = 0.13 mg/kg; per peso > 40 kg = 10 mg). L’eliminazione avviene quasi esclusivamente per via renale. Gli effetti collaterali più comuni, riscontrati nel 10% dei pazienti, sono cefalea, ipoglicemia, dolore addominale e calo ponderale, ma complessivamente la terapia è ben tollerata. È stata descritta un’associazione tra terapia con metreleptina e linfoma a cellule T, ma non è stata stabilita una reale relazione causale. In alcuni pazienti affetti da patologia autoimmune si è verificato un’esacerbazione della patologia stessa (epatite autoimmune e glomerulonefrite membrano-proliferativa). Le controindicazioni alla terapia con metreleptina sono obesità comune (obesità leptino-resistente) e ipersensibilità al principio attivo. Il farmaco non è approvato per l'uso in pazienti con lipodistrofia correlata a HIV o in pazienti con malattie metaboliche, compreso il diabete mellito e l’ipertrigliceridemia, senza evidenza concomitante di lipodistrofia generalizzata. Sicurezza ed efficacia di metreleptina sono state valutate in uno studio in aperto a braccio singolo, che ha incluso 48 pazienti con lipodistrofia generalizzata congenita o acquisita e diabete mellito, ipertrigliceridemia e/o livelli elevati di insulina a digiuno. Lo studio ha mostrato riduzioni di HbA1c, glicemia a digiuno e trigliceridi. Possono svilupparsi anticorpi con attività neutralizzante verso leptina e/o metreleptina, che potrebbero causare infezioni gravi o perdita di efficacia del trattamento. In gravidanza l’uso di tale terapia non è raccomandato. Non vi sono informazioni sull’effetto della terapia con metreleptina sull’anziano, per cui anche in pazienti con funzione renale conservata occorre prestare attenzione soprattutto alla scelta della dose iniziale, iniziando con la dose minima efficace. Poichè la metreleptina può potenzialmente alterare l’espressione di CYP450, deve essere utilizzata con cautela nei pazienti in terapia con farmaci metabolizzanti CYP450. A livello molecolare la metreleptina presenta un’elevata analogia strutturale con IL6, IL11, IL12 e oncostatina M, tutte facenti parte della famiglia delle citochine a catena lunga. La metreleptina causa inoltre un effetto insulino-sensibilizzante, aumentando il consumo di glucosio da parte del muscolo scheletrico con secondario effetto ipoglicemizzante. Riduce inoltre il livello di trigliceridi, migliorando secondariamente la steatosi, incrementa i livelli di colesterolo HDL e riduce l’insulinemia. Inoltre la metreleptina ha la capacità di regolare numerosi assi ormonali, come il somatotropo, corticotropotireotropo e gonadotropo, oltre ad avere effetti su osteogenesi, angiogenesi, ematopoiesi. La terapia sostitutiva con leptina in pazienti con lipodistrofia riduce i livelli sierici di trigliceridi, con effetto apparentemente indipendente da una riduzione dei livelli di apoCIII, ma il meccanismo responsabile rimane a tutt’oggi sconosciuto (2). L’efficacia della terapia con metreleptina risulta maggiore nelle forme generalizzate rispetto alle localizzate: poichè i pazienti affetti da lipodistrofia generalizzata presentano mortalità e morbilità maggiori a causa delle suddette anomalie metaboliche, risulta intuitivo il maggiore effetto positivo della terapia dal punto di vista metabolico (7).

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Garg A. Acquired and inherited lipodystrophies. N Engl J Med 2004, 350: 1220-34.
  2. Kassai A, Ranganath M, et al. Effect of leptin administration on circulating apolipoprotein CIII levels in patients with lipodystrophy. J Clin Endocrinol Metab 2016, 101: 1790-7.
  3. Lima J, et al. Clinical and laboratory data of a large series of patients with congenital generalized lipodystrophy. Diabetol Metab Syndr 2016, 8: 23.
  4. Akinci B, Onay H, et al. Natural history of congenital generalized lipodystrophy: a nationwide study from Turkey. J Clin Endocrinol Metab 2016, 101: 2759-67.
  5. Oliveira J, Freitas P, et al. Barraquer-Simons syndrome: a rare form of acquired lipodystrophy. BMC Res Notes 2016, 9: 175.
  6. Da Cunha J, Morganti Ferreira Maselli L, et al. Impact of antiretroviral therapy on lipid metabolism of human immunodeficiency virus-infected patients: old and new drugs. World J Virol 2015, 4: 56-77.
  7. Rodriguez A, Mastronardi C, et al. New advances in the treatment of generalized lipodystrophy: role of metreleptin. Ther Clin Risk Manag 2015, 11: 1391-400.
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Micaela Pellegrino & Francesca Garino
Endocrinologia Diabete e Metabolismo, Ospedale S Croce e Carle, Cuneo

 

Meccanismo d’azione
Inibisce la secrezione insulinica.

 

Indicazioni
Trattamento dell’ipoglicemia sintomatica da iperinsulinismo di diversa eziologia (ipoglicemia idiopatica dell’infanzia, tumori insulari funzionanti, neoplasie extra-pancreatiche determinanti ipoglicemia, ipoglicemia neonatale, tesaurismosi glicogenica, ipoglicemia ad eziologia sconosciuta). Può essere usato in periodo pre-operatorio come trattamento temporaneo e dopo l’intervento se l’ipoglicemia persiste.

 

Contro-indicazioni
Ipoglicemia funzionale, ipersensibilità ad altri tiazidici. Gravidanza e allattamento. Rari problemi ereditari di intolleranza al galattosio, deficit di lattasi congenito o acquisito o malassorbimento di glucosio-galattosio.

 

Preparazioni, via di somministrazione, posologia
cp 25 mg e 100 mg (Proglicem), 100-200 mg/die in 3 somministrazioni (3-8 mg/kg da somministrare frazionati in 2-3 dosi uguali).

 

Precauzioni
Eseguire regolarmente esami ematologici per escludere alterazioni del quadro leucocitario e delle piastrine, oltre al controllo periodico di glicemia, uricemia, glicosuria e chetonuria.
La proprietà anti-diuretica del diazossido può comportare significativa ritenzione di fluidi, che nei pazienti con compromessa riserva cardiaca può sfociare in insufficienza cardiaca congestizia.
Sono stati riferiti chetoacidosi e coma iperosmolare non chetosico in corso di patologie concomitanti.
Raramente l’ipopotassiemia rappresenta un problema, anche se il diazossido viene associato a un diuretico tiazidico.
Nei pazienti con insufficienza renale, si ha allungamento dell’emivita plasmatica del medicinale, con la necessità di ridurre opportunamente il dosaggio e controllare gli elettroliti sierici.
Non sono disponibili specifiche informazioni sull’uso negli anziani. Nei bambini si deve valutare la crescita e lo sviluppo osseo e psichico.

 

Effetti collaterali
Comuni: ritenzione idrosodica, tachicardia, palpitazioni, ipertricosi, anoressia, nausea, vomito, dolori addominali, ipertensione, trombocitopenia, iperglicemia e glicosuria, sintomi extra-piramidali.
Non comuni: pancreatite acuta, dolore toracico, diarrea.

 

Limitazioni prescrittive
Rimborsabile dal SSN con Ricetta Ripetibile Limitativa.