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Gianmarco Negri
Avvocato del Foro di Pavia e Sindaco di Tromello

(aggiornato al settembre 2022)

 

La normativa che regolamenta i percorsi di affermazione di genere è rappresentata dalla Legge 164 del 14 aprile 1982 rubricata “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, poi modificata dalla riforma di semplificazione dei riti (1). All’epoca della sua promulgazione l’Italia ha dimostrato di essere all’avanguardia, sul tema dei diritti, collocandosi come terzo stato europeo (2) nell’offrire una risposta alle istanze delle persone con incongruenza di genere.
A distanza di quarant’anni l’impianto normativo si rivela inadeguato e lacunoso sotto numerosi versanti, alcuni dei quali colmati, solo in parte, per via giurisprudenziale. La modifica del genere di una persona, sia sotto il profilo anatomico che burocratico, è attualmente consentita solo a seguito di una pronuncia giudiziaria. La necessità della sentenza, per avere accesso agli interventi chirurgici, è da ricondurre al divieto degli atti di disposizione sul proprio corpo quando essi cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica (3). Al fine di sollevare il chirurgo dalla responsabilità di menomare organi perfettamente sani, l'ordinamento ha previsto l'autorizzazione da parte del Tribunale come unico strumento in grado di superare il predetto limite di indisponibilità. Detta configurazione evidenzia la totale carenza del potere di auto-determinazione della persona transgender, in quanto il suo consenso non riveste alcun rilievo per il chirurgo, non potendo, quest’ultimo, intervenire in assenza della previa autorizzazione del Giudice.
Parimenti, il procedimento in Tribunale è d’obbligo per quanto riguarda la richiesta di rettificazione dei dati anagrafici, trattandosi di atto di stato civile, che incide sull'assegnazione del genere e del prenome. Procedimento da non confondere con quello per la richiesta di cambio del prenome o del cognome, regolamentato ai sensi del DPR 396/2000, che, seppure distinto, contiene una disposizione che si riflette in quello di affermazione di genere. Nel citato decreto è, infatti, disposto che “il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso” (4). Detta prescrizione si applica anche alla richiesta di rettificazione anagrafica della persona transgender, in quanto il prenome che ella chiede le sia attribuito deve corrispondere al genere di elezione per il quale ha adito il Tribunale. Talvolta, in attesa di poter instaurare il giudizio, le persone transgender azionano il procedimento prefettizio di cui al DPR 396/2000, chiedendo l’attribuzione di un prenome considerato “neutro”, ovvero interpretabile nella sua duplice accezione maschile e femminile. In tale ipotesi il genere rimane invariato e si pone il rischio che, nella fase giudiziale, possa essere rifiutata l’attribuzione di altro prenome più caratterizzato rispetto al genere (5).
Allo stesso modo alcune persone transgender, non riuscendo ad attendere le lungaggini del sistema giudiziario, decidono di sottoporsi al bisturi rivolgendosi a medici che operano oltre i confini nazionali. Il chirurgo che esercita all’estero non è sottoposto alla legislazione italiana e, pertanto, non soggiace al limite di cui all’art. 5 del Codice Civile. In tale ipotesi all’atto della richiesta al Tribunale, di riconoscimento del prenome e del genere elettivo, potrebbero però porsi alcune complicazioni nel momento in cui l’istante dichiarasse la realizzazione di interventi chirurgici non previamente autorizzati.
Una profonda trasformazione, in ordine agli interventi chirurgici, si è verificata, come sopra accennato, per via giurisprudenziale. La Corte di Cassazione (6) e la Corte Costituzionale (7), chiamate a pronunciarsi in ordine al diritto della persona transgender di ottenere una modifica burocratica dei dati anagrafici, mantenendo integri i propri genitali, hanno sancito la non obbligatorietà del bisturi. Con le predette pronunce si è verificata una modifica della precedente giurisprudenza, la valorizzazione del diritto all’auto-determinazione e la garanzia del diritto alla salute come bene preminente rispetto ad altri interessi (8). Fino al 2015, infatti, benché non vi fosse alcuna disposizione che prevedesse in maniera inequivocabile l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico, questo è stato sempre considerato indispensabile. Nemmeno la modifica ad opera della riforma dei riti è stata dirimente sul tema, lasciando aperti dubbi ermeneutici e la necessità di instaurare due procedimenti distinti. Nel corso del primo la persona transgender poteva domandare l’autorizzazione agli interventi chirurgici e, solo dopo esservisi sottoposta, aveva diritto ad adire nuovamente il Tribunale domandando la rettifica dei dati anagrafici. Uno dei problemi più discussi in merito all’obbligatorietà o meno di agire sui caratteri sessuali primari risale all’inciso (9) “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”. La disposizione in esame non specifica il confine della necessarietà e il soggetto preposto alla sua definizione. Per prassi giurisprudenziale quel “quando” è sempre stato interpretato nel senso che gli interventi dovessero essere realizzati “quando ancora la persona non vi si era sottoposta”. Nelle aule dei Tribunali, fino all’anno in cui sono state pronunciate le citate sentenze, una persona transgender, chiamata a definirsi al cospetto del magistrato a cui chiedeva il riconoscimento della sfera identitaria percepita, non era considerata credibile se prescindeva dalla sua anatomia sul pube ritenendola irrilevante o, peggio, se dichiarava di non essere in conflitto con la stessa.
Sempre nel 2015 anche il Parlamento Europeo ha offerto il suo contributo affinché si raggiungesse una visione rinnovata del corpo e della psiche delle persone transgender. Con risoluzione in data 12 marzo 2015 ha infatti chiesto espressamente la “messa al bando della sterilizzazione quale requisito per il riconoscimento giuridico del genere”, richiamando la richiesta del “relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura”. Il Parlamento Europeo ha dunque condiviso l’assunto secondo il quale gli obblighi di sottoporsi al bisturi (con finalità demolitive e/o ricostruttive) dovrebbero “essere trattati e perseguiti come una violazione del diritto all’integrità fisica nonché della salute sessuale e riproduttiva e dei relativi diritti” (10). Sul tema si è espressa anche la Corte Europea dei Diritti Umani, che ha rilevato una violazione della libertà di definire la propria appartenenza sessuale, definita parte essenziale del diritto all’auto-determinazione, la previsione della sterilizzazione come condizione imprescindibile di accesso al percorso di transizione (11). Il 2015 è dunque tappa fondamentale nel riconoscimento del diritto all’identità di genere.
Successivamente a quelle pronunce viene sancito, anche nelle aule di giustizia, il diritto dell’essere umano a essere riconosciuto in una sfera identitaria nella quale la valorizzazione e definizione della stessa trascende il mero dato anatomico. Con le pronunce delle Corti Superiori si è assistito alla presa d’atto della dimensione corporea non tanto, e non soltanto, nella sua forma biologica, ma anche indagando aspetti quali il ruolo di genere e l’espressione di genere. L’esclusione del carattere necessario dell'intervento chirurgico assurge a corollario dell'impostazione, coerente ai supremi valori costituzionali, che rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare il percorso di transizione, il quale “deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere. L’ampiezza del dato letterale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 e la mancanza di rigide griglie normative sulla tipologia dei trattamenti rispondono all’irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive” (12).
L’effetto delle citate pronunce si è riflesso anche nell’ambito procedurale. Da quell’anno non è più stato necessario instaurare due procedimenti distinti, cui si è fatto precedentemente riferimento, bensì è stato possibile domandare contestualmente al tribunale la rettifica dei dati anagrafici e l’autorizzazione agli interventi chirurgici (solo nelle ipotesi in cui questi sono desiderati dalla persona). Il venir meno dell’obbligo di sottoporsi a questi ultimi, infatti, ha reso superflua l’instaurazione della seconda azione giudiziaria. Questo risultato ha prodotto uno snellimento dei tempi per l’ottenimento di documentazione coerente con la percezione di sé, unico elemento in grado di consentire alla persona transgender il pieno diritto alla privacy, presupposto indispensabile affinché ella possa decidere liberamente se narrare o meno a terzi il proprio passato. In forza delle sentenze delle Corti Superiori resta tuttavia in capo al collegio giudicante l’obbligo di verificare l’esistenza di una serie di caratteristiche del percorso, quali la sua definitività, irreversibilità e l’approdo conclusivo dello stesso. In tale ottica il magistrato istruttore, mediante libero interrogatorio della parte in udienza, ricerca la conferma di quanto illustrato nelle relazioni dei medici, che l’hanno accompagnata durante il suo percorso di transizione, e delle deduzioni contenute nell’atto introduttivo. Nelle ipotesi in cui egli ritiene l’istruzione probatoria inidonea alla formazione del suo convincimento, dispone la nomina del C.T.U. (13). In questo caso il processo viene rinviato a un'udienza durante la quale lo specialista nominato giura di adempiere fedelmente l'incarico conferitogli, che si sostanzia nel dare risposta ai quesiti che sono posti dal Giudice. La nomina di un C.T.U. rallenta il procedimento (in quanto sono fissate udienze a ciò predisposte) e, salve le ipotesi in cui la parte sia ammessa al patrocinio a spese dello Stato, è onerosa, in quanto il consulente dev’essere retribuito. Il procedimento si conclude con sentenza collegiale (14), che è immediatamente azionabile per gli eventuali interventi chirurgici. Per la rettifica dei dati anagrafici occorre invece che decorra il termine per il suo passaggio in giudicato (15), affinché sia poi possibile dar impulso ai successivi passaggi amministrativi.
La Legge 164/1982 è stata ritenuta applicabile dalla giurisprudenza anche alle persone intersessuali, che non possono essere definite come appartenenti ad uno dei due sessi in base a criteri oggettivi. L’esistenza di persone che non possono essere incasellate come “maschi” o come “femmine”, a patto che non si intervenga in senso medico e/o chirurgico, smaschera l’artificiosità, a parere di chi scrive, dell’argomentazione che fa della “natura” l’elemento di distinzione tra i sessi e il pilastro su cui basare considerazioni in diritto. Sul punto almeno un accenno merita di essere fatto anche in relazione alla pratica medica di riassegnazione del sesso nel caso di neonati o minori intersessuali, i quali non possono esprimere un valido consenso. Il Comitato Nazionale per la Bioetica (16) ha espresso parere secondo il quale “la compresenza di elementi sessuali discordi, se non è conforme al progetto di essere uomo o donna, rende lecito rimuovere ciò che impedisce la realizzazione, almeno parziale, di questa armonia” e continua affermando che l’ipotesi di registrare all'anagrafe i bambini in cui risulta incerta l’attribuzione del sesso, evitando dunque un'iscrizione come maschio o come femmine “è inaccettabile sulla base di alcuni argomenti: in primo luogo si verrebbe ad istituzionalizzare legalmente ma in modo ben poco trasparente e surrettizio, un tertium genus anagrafico, che non ha alcun riconoscimento normativo nel nostro ordinamento e che provocherebbe pesanti alterazioni nel suo equilibrio sistemico”. Queste considerazioni permettono di rilevare come alcune caratteristiche richiamate per la distinzione tra sessi e generi sono convenzionali più che oggettive, con la conseguenza che alcuni presupposti richiamati dalle Corti, perché i Giudici di merito riconoscano il diritto all’attribuzione di un genere differente, rispetto a quello assegnato alla nascita, si manifestano in tutta la loro indeterminatezza. Una caratteristica, quest’ultima, che diventa ancora più problematica a fronte dell’importante evoluzione del pensiero sviluppato dalle persone transgender, che ha introdotto nelle aule di Giustizia una proiezione della persona ben differente rispetto a quella cristallizzata negli anni di promulgazione della Legge in vigore. Le istanze sottoposte al giudizio dei magistrati sono sempre più orientate alla definizione del proprio genere in modo fluido e indipendente da modifiche sui caratteri sessuali sia primari che secondari. Tuttavia, benché non vi sia alcun obbligo legale precostituito alla modifica dei caratteri sessuali secondari, per il tramite di terapia ormonale sostitutiva (17), è ancora complesso riuscire a perseguire il risultato di una rettifica di dati anagrafici (ed eventuale autorizzazione ad interventi chirurgici) dichiarando la sola volontà di essere riconosciuti nel genere di elezione in assenza di modifiche tramite la farmacologia. La Corte Costituzionale nel 2017 si è infatti espressa in questo senso “Resta fondamentale un accertamento rigoroso, non solo della serietà e univocità dell'intento, ma anche dell'intervenuta oggettiva transizione dell'identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l'intento così manifestato” (…) “va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario esclusivo rilievo ai fini dell'accertamento della transizione”. A tale dettato sfugge, ovviamente, il caso della persona transgender che soffre di patologie che le rendono impossibile assumere ormoni in sicurezza. Questi dettami non devono tuttavia scoraggiare la persona transgender e nemmeno portarla a rinunciare a essere sé stessa. Già nel 2018 il Tribunale di Vercelli, chiamato a pronunciarsi in merito alle richieste di autorizzazioni chirurgiche e rettifica dei dati anagrafici, per una persona che solo temporaneamente non poteva assumere ormoni, ha accolto entrambe le istanze (18). Pende al Tribunale di Monza il procedimento per una persona transgender che ha chiesto il riconoscimento del diritto a sottoporsi ad interventi chirurgici, ma che non vuole venga rettificato il genere e nemmeno il prenome. Si tratta di casi che oggi possono essere considerati isolati ma che rappresentano il futuro.
Le sentenze del 2015 dimostrano che il Diritto è vivente nelle sue forme applicative e nelle menti della magistratura, che ha dimostrato di saper meditare in modo aderente alle istanze sottoposte alla sua attenzione. C’è ancora molto lavoro da svolgere per la salute delle persone transgender. In queste righe ci si è soffermati solo sugli aspetti legali del percorso di transizione in senso stretto ma, ampliando l’ambito di riflessione, ci si scontra con una realtà costellata da episodi di discriminazione, negazione dell’accesso al mondo del lavoro, mobbing, demansionamenti, esclusione sociale, casi di espulsione di figli e genitori transgender dalle famiglie. È necessario approntare strumenti di tutela mirati e non solo norme applicate per analogia. L’Italia, che si è distinta nel 1982 promulgando una legge definita di civiltà (19), merita ora un impianto legislativo aderente alle istanze della sua cittadinanza.

 

Modulistica utile nella gestione dell'incongruenza di genere

 

Bibliografia

  1. D Lgs 150/2011, art 31. G Cardaci. Per un “giusto processo” di mutamento di sesso. In Riv Dir Fam Per 2015, 4: 1459.
  2. Dopo la Svezia nel 1972 e la Germania nel 1980.
  3. Codice Civile art 5.
  4. DPR n 396, 3 novembre 2000, art 35.
  5. Sentenza Tribunale di Pavia 2 febbraio 2006.
  6. Corte Cassazione 15138/2015.
  7. Corte Costituzionale 221/2015 su cui A Lorenzetti. Corte costituzionale e transessualismo: ammesso il cambiamento di sesso senza intervento chirurgico ma spetta al giudice la valutazione. In Quad Cost 4/2015, 1006-1009; 180/2017 e 185/2017, su cui A Lorenzetti. Il cambiamento di sesso secondo la Corte Costituzionale: due nuove pronunce (nn. 180 e 185/2017). In Studium Iuris 2018 (4): 446.
  8. Tra i quali “l’ordine pubblico" secondo il quale, poiché dev’essere garantita la certezza dei rapporti giuridici, l’ordinamento giuridico ha il compito di garantire la riconoscibilità delle persone che li instaurano.
  9. D Lgs 150/2011, art 31, comma 4. Delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso.
  10. Parlamento Europeo. Risoluzione del 12 marzo 2015 sulla relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2013 e sulla politica dell’Unione Europea in materia.
  11. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza del 10 marzo 2015, Affaire YY c Turquie.
  12. Corte Costituzionale 221/2015.
  13. Consulente Tecnico d’Ufficio. Si tratta di norma di un medico psicologo o psichiatra, il quale potrebbe chiedere al Giudice di essere autorizzato a far partecipare alle operazioni peritali il medico endocrinologo.
  14. La decisione in ordine alle domande svolte è assunta da un collegio formato da tre Giudici, dei quali il relatore è il magistrato che ha condotto l’istruttoria.
  15. Il termine è di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza oppure di trenta giorni dalla notifica della stessa alle controparti. Parte necessaria è sempre la Procura della Repubblica, mentre controparti eventuali, a norma dell’art 31 D Lgs 150/2011, sono il coniuge e i figli.
  16. Comitato Nazionale per la Bioetica. I disturbi della differenziazione sessuale nei minori: aspetti bioetici. 25-02-2010.
  17. Corte Costituzionale 221/2015. “Interpretata alla luce dei diritti della persona ‒ ai quali il legislatore italiano, con l’intervento legislativo in esame, ha voluto fornire riconoscimento e garanzia − la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali”.
  18. Sentenza Tribunale di Vercelli 561/2018.
  19. Corte Costituzionale 161/1985. “La legge n. 164 del 1982 si colloca, dunque, nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”.
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In collaborazione con SIAMS

 

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