Terapie
Anemie ed endocrinopatie
Ilaria Tenuti
Medicina Generale, AOU Verona
(aggiornato al maggio 2024)
PREMESSA
È noto come spesso le endocrinopatie siano accompagnate da quadri di anemia di vario tipo ed è altresì noto che le anemie spesso possano sottendere un'endocrinopatia misconosciuta. Il rapporto tra sistema endocrino ed anemia è quindi biunivoco (1).
Molti studi hanno evidenziato come gli ormoni intervengano sull'eritropoiesi attraverso meccanismi diversi:
- stimolando la produzione renale di eritropoietina (EPO);
- favorendo l'attività dell'EPO sui precursori midollari;
- stimolando direttamente il midollo stesso.
Si deve inoltre ricordare che i processi immunitari, spesso associati alle endocrinopatie, e alcuni farmaci impiegati nella terapia possono interferire con l’assorbimento dei componenti fondamentali per l’eritropoiesi e con l’emivita dei globuli rossi.
Le alterazioni ormonali alla base di una singola endocrinopatia possono essere associate a più forme di anemia, che hanno un ruolo importante nella progressione delle complicanze.
DISFUNZIONI TIROIDEE
Anemia e disfunzione tiroidea si verificano spesso contemporaneamente, ma rimane poco chiaro il comune denominatore dei due disordini (2). Sappiamo che gli ormoni tiroidei stimolano la proliferazione degli eritrociti (3):
- direttamente, potenziando l'effetto dell'EPO su colonie eritroidi;
- indirettamente, aumentando la produzione di EPO in risposta all'ipossia.
Ipotiroidismo
L’anemia, che in molti pazienti può essere il primo segno di ipotiroidismo, ha fenotipi molto variabili: normocitica, microcitica o macrocitica. L’anemia che si osserva nei pazienti ipotiroidei è anche influenzata da possibili carenze nutrizionali associate: ciò rende più difficile una sua definizione. Come è noto, gli ipotiroidei autoimmuni hanno elevata incidenza di anemia megaloblastica, dovuta alla carenza di fattore intrinseco per presenza di gastrite atrofica.
La forma più frequente è l’anemia da carenza di ferro: se questa è stata causata dall’ipotiroidismo, sarà necessario trattare quest’ultimo in modo adeguato per ottenere valori emocromocitometrici accettabili. L'anemia sideropenica:
- influenza negativamente lo stato tiroideo, poiché il ferro è vitale per l'attività della perossidasi tiroidea, l’enzima contenente ferro, fondamentale nelle prime tappe della sintesi dell'ormone tiroideo;
- può indurre alterazioni nel controllo del sistema nervoso centrale sull'asse tiroideo e ridurre il legame della T3 ai suoi recettori epatici;
- compromette il metabolismo della tiroide, anche diminuendo il trasporto di ossigeno.
È importante ricordare che il livello di ferro nel nostro organismo può essere in grado di modificare la risposta alla profilassi con lo iodio, che infatti risulta meno efficace nei soggetti con anemia e/o nei soggetti con risposta più scarsa al trattamento marziale.
Ipertiroidismo
Il meccanismo con cui si sviluppa l’anemia nel paziente affetto da ipertiroidismo è meno chiaro. Spesso negli ipertiroidei sono stati rilevati elevati livelli di EPO. Un’ipotesi fisiopatologica potrebbe essere un’alterato metabolismo del ferro, che, associato a stress ossidativo, indurrebbe maggiore fragilità degli eritrociti, con conseguente riduzione della loro sopravvivenza (2).
Alla luce di quanto riportato, si consiglia di valutare lo stato ematologico nei pazienti con disturbi tiroidei, poiché l’anemia in pazienti con distiroidismi è condizione frequente, spesso non riconosciuta. È altresì utile nella pratica clinica prendere in considerazione possibili disfunzioni tiroidee sia nella diagnosi differenziale di anemia di ndd, sia in caso di anemia resistente al trattamento.
IPOSURRENALISMO
Studi sperimentali hanno evidenziato come la surrenectomia causi una moderata anemia, responsiva alla terapia con glucocorticoidi o EPO.
Nei pazienti con morbo di Addison si osserva un’anemia normocitica/normocromica, simile a quella del modello animale. L’anemia dell’iposurrenalico viene spesso sottovalutata per la concomitante riduzione del volume plasmatico che altera la concentrazione emoglobinica e l’ematocrito, quindi non correlata alla riduzione del volume eritrocitario.
Il ruolo dei glucocorticoidi nell’anemia non appare chiaro: a dosi fisiologiche hanno solo effetti lievi sull’eritropoiesi, a dosi farmacologiche causano modesta eritrocitosi. Tuttavia, non è stato ancora definito se l’effetto degli steroidi surrenalici sia diretto sui precursori eritroidi o mediato da EPO.
IPOPITUITARISMO
Nei pazienti ipofisectomizzati o con ipopituitarismo si osserva anemia normocromica/normocitica da ridotta produzione midollare. L’anemia è corretta da terapia sostitutiva tiroidea, surrenalica e gonadica.
Modelli sperimentali e dati di letteratura mettono in rilievo il ruolo dell’IGF-1 nella modulazione dell’eritropoiesi. Nella pratica clinica in soggetti affetti da deficit di GH si registra il miglioramento della crasi ematica a seguito della somministrazione di GH, effetto verosimilmente correlato all’aumento dei valori di IGF-1, in assenza di alterazioni dei livelli di EPO (4).
IPERPARATIROIDISMO
Talvolta nell’anemia può essere osservato un quadro di iperparatiroidismo primitivo (5). Per quanto riguarda le possibili relazioni tra iperparatiroidismo e anemia, elevati valori di PTH interferiscono con la normale eritropoiesi attraverso un duplice meccanismo:
- a livello midollare tramite la down-regulation dei recetttori per l’EPO sui progenitori eritroidi, con meccanismo non del tutto chiaro;
- a livello periferico, aumentando la permeabilità degli eritrociti al calcio, favorendone l’ingresso all’interno della cellula, con conseguente incremento della fragilità osmotica e lisi cellulare dell’eritrocita.
L’anemia può essere causata anche da un meccanismo indiretto:
- da danno renale come in caso di nefrocalcinosi;
- da mielosclerosi, con riduzione della proliferazione dei precursori eritroidi.
DISFUNZIONE GONADICHE
L’anemia è tra i sintomi che si manifestano con maggiore frequenza nei soggetti con carenza di testosterone, mentre è ben noto l’effetto positivo degli androgeni sull’eritropoiesi, sia a livello fisiologico che farmacologico, motivo per cui sono stati utilizzati in terapia, indipendentemente dalla causa dell’anemia.
Il meccanismo tramite cui il testosterone agisce sul sistema emopoietico è duplice:
- diretto:
- aumenta l’attività del midollo osseo (stimolazione CFU-E);
- stimola l’incorporazione del ferro nei globuli rossi;
- aumenta la captazione del glucosio con attivazione della glicolisi;
- potenzia l’effetto dell’IGF-1, con maturazione e proliferazione dei pro-eritroblasti;
- aumenta l’emivita dei globuli rossi;
- indiretto:
- stimola l’EPO sul potenziamento dell’attività dell’RNA-polimerasi, con incremento della massa renale (6).
Gli androgeni a dosi farmacologiche stimolano la produzione di globuli rossi attraverso un documentato aumento di EPO. In un gruppo di uomini trattati con testosterone per 36 mesi i livelli di emoglobina risultavano significativamente aumentati rispetto al gruppo trattato con placebo (7). Uno studio del 2018 aveva l’obiettivo di determinare se la somministrazione di testosterone, in uomini di età ≥ 65 anni (età media 74.8 anni, BMI medio 30.7) che presentavano bassi livelli di testosterone e anemia inspiegabile, fosse in grado di incrementare i livelli di emoglobina. Il trattamento con testosterone ha determinato un aumento dei livelli di emoglobina di 1 g/dL rispetto al basale nel 54% dei casi (8). Questo studio indica che negli uomini ultra65enni potrebbe essere utile misurare i livelli di testosterone al fine di valutare la possibilità di utilizzare l’ormone come strumento terapeutico, anche se sono necessari ulteriori studi, dati i noti effetti collaterali del testosterone.
DIABETE MELLITO tipo 2
La coesistenza di anemia col diabete mellito è evidenza clinica rilevante: si calcola che la prevalenza di anemia sia del 14-45% nei soggetti diabetici. In questi, inoltre, il rischio di sviluppare anemia è circa 2-3 volte maggiore che nei non diabetici.
Il rischio di sviluppare anemia è prevalentemente legato al danno renale, ma la patogenesi dell’anemia nel DM2 è multi-fattoriale e complessa:
- carenza di ferro:
- iporesponsività all’EPO, dovuta alla sua glicazione e a quella del suo recettore;
- insufficienza renale;
- neuropatia autonomica con riduzione della stimolazione adrenergica per la produzione di EPO;
- ipogonadismo con ridotti valori di testosterone;
- elevati livelli di citochine pro-infiammatorie, che favoriscono l’apoptosi dei precursori eritroidi;
- proteinuria con eliminazione di EPO con le urine.
Sempre in pazienti con DM2 la terapia con ipoglicemizzanti orali può contribuire all’insorgenza di anemia, in quanto la metformina riduce l’assorbimento di vitamina B12 dopo 4 mesi di somministrazione. I dati di letteratura riportano che l’anemia megaloblastica può insorgere anche dopo 5-10 anni di terapia con metformina, a causa delle riserve epatiche di vitamina B12. Quindi appare utile dosare periodicamente i livelli di vitamina B12 nei pazienti che assumono metformina. I tiazolidinedioni possono contribuire all’anemia, favorendo l’accumulo midollare di grasso con riduzione della massa eritroide. Al contrario, gli inibitori del DPP-4 migliorano l’anemia, aumentando i livelli di EPO, data la riduzione della sua degradazione da parte del DPP-4.
L’anemia del diabetico, causata in parte dall’insufficienza renale, può a sua volta indurre la progressione della nefropatia diabetica, favorendo un circolo vizioso che porta all’insufficienza renale terminale, con aumento della pressione glomerurale e proteinuria. La presenza di anemia nel diabetico incrementa il rischio di progressione delle complicanze micro- e macro-vascolari ed è un fattore di rischio indipendente di mortalità cardio-vascolare (associandosi a ipertrofia del ventricolo sinistro e scompenso cardiaco). Da cui si evince come la correzione dell’anemia nel diabetico riduca l’insorgenza di complicanze e di mortalità (9).
UN LINK AL CONTRARIO: TALASSEMIA
Negli ultimi decenni, i soggetti talassemici sopravvivono a lungo in relazione al miglioramento delle cure, ma vanno incontro a malattie da accumulo di ferro nei parenchimi ghiandolari, con conseguenti ipofunzioni endocrine:
- ipogonadismo ipogonadotropo per deficit di LH ed FSH (50% dei casi) (10);
- deficit di GH, che si manifesta come ritardo nella crescita (15-20%);
- IGT e DM2 (10%).
CONCLUSIONI
- L’anemia può essere conseguenza dell’endocrinopatia e va trattata se persiste anche dopo la correzione dei valori ormonali.
- Si devono valutare le concause dell’anemia, che eventualmente vanno corrette (deficit di vitamina B12, folati, ferro).
- Nel diabetico l’anemia deve far parte della valutazione delle complicanze ed essere corretta in base al meccanismo patogenetico prevalente. Un’attenzione particolare va posta all’effetto sull’anemia della terapia ipoglicemizzante.
- Servono ulteriori studi per definire il ruolo di IGF-1 e degli ormoni tiroidei.
- Un’anemia da cause inspiegabili potrebbe essere spiegata da un’endocrinopatia misconosciuta.
BIBLIOGRAFIA
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Effetti endocrino-metabolici dei farmaci psichiatrici
Paola Sartorato
Medicina Interna, Montebelluna
(aggiornato al 10 settembre 2017)
METABOLISMO
Il trattamento con farmaci psichiatrici, in particolare alcuni anti-psicotici, può correlarsi all’insorgenza di complicanze metaboliche e cardio-vascolari; i pazienti trattati possono essere a maggior rischio di obesità, sindrome metabolica e diabete tipo 2.
Recentemente le società scientifiche coinvolte hanno evidenziato la necessità che questi pazienti vengano regolarmente monitorati anche per queste sequele legate alla terapia. Questi eventi avversi si osservano più frequentemente in una popolazione considerata vulnerabile, ovvero soggetti al primo episodio di schizofrenia, naive per altri farmaci psicotropi, bambini e adolescenti. Le malattie e i fattori di rischio cardiometabolici presentati dai pazienti psichiatrici derivano dall’interazione di una serie di fattori, quali background genetico, patologie sottostanti, stile di vita ed effetti dei farmaci psicotropi (1).
Gli effetti avversi metabolici secondari ai trattamenti anti-psicotici sono oramai noti, di diversa entità in relazione alla classe del farmaco e alle caratteristiche cliniche del paziente. Il clinico dovrebbe scegliere il farmaco con minor impatto sul profilo metabolico, minimizzando i rischi; i pazienti dovrebbero essere incoraggiati e coinvolti in progetti educazionali riguardanti alimentazione e attività fisica.
Obesità
Pazienti affetti da malattia psichiatrica sono di per sé maggiormente a rischio di obesità, fattori di rischio cardiovascolare e morbilità e mortalità a essi correlate, con un impatto significativo sulla qualità di vita. L’incremento ponderale è un noto effetto avverso di alcuni dei farmaci anti-psicotici utilizzati, sia in acuto che in mantenimento, e può presentarsi nel 15-72% dei pazienti schizofrenici; evidenze suggeriscono effetti simili anche in pazienti con disturbo bipolare (2).
Studi e meta-analisi descrivono un’eterogeneità di effetto sul peso corporeo, sia tra i diversi anti-psicotici che per uno stesso farmaco da soggetto a soggetto.
Tabella 1 Rischio di incremento ponderale associato ai diversi anti-psicotici (3) |
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Minore | Amilsulpiride, aripiprazolo, asenapina, lurasidone e ziprasidone |
Intermedio | Iloperidone, quetiapina, risperidone, paliperidone, sertindolo e zotepina |
Alto | Clozapina, olanzapina, clorpromazina e tioridazina |
Poiché con ogni classe di questi farmaci è stato evidenziato un incremento ponderale rispetto al placebo, nessuno di questi si può considerare neutrale sul peso corporeo.
L’incremento del peso corporeo in corso di terapia anti-psicotica sembra svilupparsi in tre stadi:
- rapido incremento del peso entro i primi tre mesi di terapia;
- progressivo ma più lento incremento del peso entro l’anno;
- plateau con mantenimento del peso nel tempo.
Diversi fattori possono contribuire all’incremento del peso, quali caratteristiche demografiche, ambito di trattamento, trattamenti pregressi e concomitanti, dieta, attività fisica e BMI. Per clozapina e olanzapina sembra esserci una correlazione positiva tra incremento del peso corporeo e concentrazione plasmatica dei farmaci.
L’approvazione da parte dell’FDA di alcuni anti-psicotici di seconda generazione per il trattamento di disturbo bipolare e schizofrenia anche in bambini/adolescenti ha consentito di osservare un impatto importante sull’incremento del peso corporeo in questa categoria di pazienti (4). Disregolazioni dell’appetito, dell’introito di cibo e del senso di sazietà moderano e modulano l’incremento di peso in questi pazienti. Studi condotti su modelli animali e in parte riprodotti nell’uomo hanno evidenziato effetti degli psicofarmaci su neurotrasmettitori, peptidi e ormoni che regolano l’appetito e l’omeostasi energetica. In pazienti trattati con alcuni anti-psicotici di seconda generazione si è osservato un significativo incremento dei livelli di leptina. I dati riguardanti la ghrelina sono eterogenei: sembra che i valori al mattino a digiuno decrescano all’inizio del trattamento, per poi aumentare dopo l’esposizione cronica agli anti-psicotici. Nell’uomo non vi è dimostrazione che gli anti-psicotici si leghino a recettori ipotalamici tradizionalmente associati con la regolazione del peso corporeo. L’unico meccanismo comune a tutti gli anti-psicotici è il forte legame al recettore dopaminergico D2 (antagonismo, agonismo parziale); gli anti-psicotici presentano capacità di legame e affinità diverse ai recettori di serotonina, acetilcolina, istamina e noradrenalina. È stata evidenziata una correlazione tra la modulazione dell’attività del recettore dopaminergico D2 e il comportamento alimentare (2). Poiché anche la serotonina gioca un ruolo importante nella regolazione dell’introito di cibo e del senso di sazietà, è logico supporre che gli effetti sul peso corporeo siano legati anche alla modulazione di questo sistema, vista l’azione antagonista sul recettore 5-HT2c della maggior parte degli anti-psicotici di seconda generazione. È importante sottolineare che l’effetto di questi farmaci sul peso corporeo non è attribuito alla modulazione di un solo neurotrasmettitore, ma a un sistema complesso, in cui sembra svolgere un ruolo importante anche la farmacogenomica, in particolare per i sistemi dopaminergico e serotoninergico (5).
Per quanto riguarda il monitoraggio di questa complicanza, una consensus (6) raccomandava già nel 2004 il monitoraggio mensile di peso, BMI e circonferenza vita nei primi 3 mesi di trattamento anti-psicotico, in particolare nei pazienti con noti fattori di rischio.
Vi sono evidenze cliniche sull’efficacia del cambio di anti-psicotico in caso di incremento corporeo > 5% in corso di terapia. Nei pazienti a maggior rischio sono suggeriti programmi educazionali dietetici; alcuni studi hanno evidenziato anche l’efficacia della metformina associata agli anti-psicotici nel ridurre l’impatto negativo della terapia sul peso corporeo (7).
Sindrome metabolica
Il trattamento con farmaci anti-psicotici pone il paziente a maggior rischio di presentare anche altri eventi avversi cardiovascolari e metabolici, quali iperglicemia, ipertensione arteriosa e dislipidemia, maggiormente evidenti in corso di primo trattamento (8).
Tabella 2 Rischio di sviluppare sindrome metabolica associato ai diversi anti-psicotici (3) |
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Minore | Aripiprazolo e ziprasidone |
Intermedio | Quetiapina, risperidone, paliperidone, amisulpiride e sertindolo |
Alto | Clozapina, olanzapina e clorpromazina |
Una meta-analisi condotta su 112 studi ha rilevato che il 49.7% dei pazienti in trattamento con clozapina presentava un quadro di sindrome metabolica. Circa il 25% dei pazienti in trattamento anti-psicotico ha alterata glicemia (> 100 mg/dL) e circa il 50% presenta dislipidemia (9). Il peggioramento dei valori pressori sembra secondario all’incremento del peso corporeo ed è in parte attenuato dall’azione ipotensiva di alcuni di questi farmaci, che agiscono come modulatori agonisti dei recettori adrenergici.
Tabella 3 Rischio di dislipidemia associato ai diversi anti-psicotici (3) |
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Minore | Aripiprazolo, ziprasidone |
Intermedio | Quetiapina, risperidone |
Alto | Clozapina, olanzapina |
Gli effetti di olanzapina, clozapina e quetiapina non sono secondari solo all’incremento del peso, ma legati a un’azione diretta del farmaco sul metabolismo lipidico, che determina in particolare un incremento dei livelli dei trigliceridi, ma anche di colesterolo LDL. Non sono ancora chiari i meccanismi fisiopatologici sottostanti questa disregolazione del profilo lipidico.
Anche per questa possibile complicanza si suggerisce valutazione del profilo lipidico a inizio terapia, dopo 3 mesi e poi annualmente o dopo 5 anni in relazione al rischio (6). Come per l’obesità, vi sono evidenze sull’efficacia di un eventuale cambio di farmaco, scegliendone uno più neutro sull’assetto lipidico.
Diabete mellito
In corso di trattamento con anti-psicotici vi è un incremento del rischio di sviluppare DM tipo 2, in particolare per i farmaci di seconda generazione (1.3 volte vs farmaci di prima generazione). Il rischio è comunque individualizzato per tipo di farmaco: in particolare, olanzapina, clozapina e in misura minore quetiapina e risperidone, pongono il paziente a maggior rischio di sviluppare questa complicanza (3). Anche in questo caso i soggetti trattati giovani (bambini/adolescenti) sembrano a maggior rischio di alterazioni del metabolismo glucidico, in assenza, anche per età, di altri fattori di rischio associati. L’impatto di questi farmaci, in particolare clozapina e olanzapina, sul sistema glucidico sembra essere legato alla loro capacità di legame per i recettori muscarinici M2 e M3 espressi nel pancreas, con effetti sulla secrezione insulinica legata alla via colinergica (10).
ALTRE PATOLOGIE ENDOCRINE
Prolattina
L'iperprolattinemia secondaria all’assunzione di anti-psicotici/neurolettici è nota fin dai primi anni ‘70. L’iperprolattinemia in pazienti affetti da malattia psichiatrica è comune, in particolare nella schizofrenia la frequenza è elevata e correlata a tipo di farmaco e dosaggio in corso. Il 40-90% dei pazienti in trattamento con fenotiazine o butirrofenoni presenta iperprolattinemia, fino ad arrivare al 50-100% dei pazienti in terapia con risperidone (11).
Tutti i farmaci anti-psicotici hanno azione antagonista sul sottotipo recettoriale dopaminergico D2. Gli anti-psicotici tipici agiscono bloccando tutte le vie dopaminergiche cerebrali; alcuni atipici, in particolare clozapina, olanzapina, quetiapina e aripiprazolo, hanno un’azione antagonista più selettiva sulle vie dopaminergiche, con minor impatto sui livelli di PRL (12). L’aripiprazolo, agonista parziale del recettore D2, può addirittura ridurre l’iperprolattinemia. Non è comunque possibile categorizzare chiaramente gli anti-psicotici in base agli effetti sui livelli di prolattina, essendo questi correlati anche a dose, durata del trattamento, età e genere. Oltre ai neurolettici, anche alcuni anti-depressivi, come clomipramina e fluoxetina, possono determinare lieve iperprolattinemia, mentre benzodiazepine, litio e anti-convulsivanti hanno bassa probabilità di alterare i livelli di PRL.
Generalmente i livelli di iperprolattinemia secondari a farmaci variano tra 25-100 µg/L, ma risperidone e fenotiazine possono indurre valori anche > 200 µg/L. In presenza di iperprolattinemia in corso di trattamento con anti-psicotici, la sospensione o il cambio della terapia devono sempre essere attentamente discussi con lo psichiatra. Se il trattamento non può essere sospeso o modificato con farmaci con minor impatto sulla PRL e l’insorgenza dell’iperprolattinemia non può essere ricondotta con certezza all’inizio della terapia, è raccomandata la RMN ipofisaria per escludere patologie concomitanti della regione ipotalamo-ipofisaria, in particolare per valori significativi di iperprolattinemia.
Alcuni pazienti con iperprolattinemia farmaco-indotta possono rimanere asintomatici e non devono essere trattati, mentre in presenza di persistenti segni e sintomi di ipogonadismo, può essere presa in considerazione la terapia con estrogeni o testosterone. L’indicazione al trattamento con dopamino-agonisti in questa categoria di pazienti è controversa: gli studi riportano una percentuale di normalizzazione della PRL di circa il 75%, a scapito di un possibile aggravamento della psicosi sottostante; pertanto, anche questa indicazione dovrà essere attentamente discussa con lo psichiatra.
ACTH
Numerose evidenze sottolineano la complessa relazione tra stress, sia fisico che psichico, e alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surreni. La valutazione delle modificazioni di questo asse nell’ambito della patologia psichiatrica è complicata, sia per le modalità di studio dell’asse che per la diverse fasi di malattia in cui questo può essere studiato. Valutazioni più accurate, anche se molto eterogenee, sulle modificazioni dei livelli di cortisolo e ACTH riguardano soprattutto i pazienti schizofrenici e affetti da depressione maggiore.
Nella schizofrenia i livelli di cortisolemia possono essere più elevati nei pazienti rispetto ai controlli in diverse fasi della malattia e con sintomatologia differente. Alcuni studi hanno inoltre evidenziato in alcuni di questi pazienti la scomparsa del ritmo circadiano di secrezione dell’ormone e in condizioni acute di stress fisico/psicologico una risposta ridotta sia di cortisolo che di ACTH ai test rispetto ai controlli, con un profilo di risposta differente rispetto ai pazienti affetti da sindrome depressiva. Escludendo interferenze farmacologiche, circa il 25% dei pazienti schizofrenici sembra avere livelli di cortisolo non sopprimibili dopo desametasone. Ci sono alcuni studi preliminari e non conclusivi sul possibile utilizzo di terapie di blocco dell’asse corticotropo (chetoconazolo, mifepristone) in pazienti affetti da psicosi.
In pazienti affetti da depressione maggiore, è frequente l’attivazione dell’asse corticotropo con mancata soppressione del cortisolo dopo desametasone e i trattamenti farmacologici possono contribuire a regolarizzare l’asse corticotropo, condizione considerata favorevole ma non sufficiente per valutare l’esito del trattamento.
I farmaci anti-psicotici possono influenzare i livelli di cortisolo in vari modi: migliorando la sintomatologia, possono ridurre lo stato di stress e quindi interferire sui livelli di cortisolemia; inoltre, possono influenzare direttamente la secrezione dell’ormone per effetto farmacologico diretto sull’asse. I livelli di cortisolo sembrano essere poco influenzati dagli anti-psicotici di prima generazione, mentre quelli di seconda generazione, in particolare olanzapina, quetiapina e clozapina, possono ridurre in modo significativo i livelli di ACTH e cortisolo, probabilmente attraverso le loro azioni serotoninergiche, adrenergiche e istaminergiche; tale riduzione farmaco-indotta di cortisolo e ACTH è stata documentata anche in soggetti sani (13).
Osteoporosi
La schizofrenia è associata a ridotta BMD, sia nei maschi che nelle femmine, con incrementato rischio di frattura. Rimane difficile chiarire quanto pesino su questa importante comorbilità la malattia di per sé, l’iperprolattinemia farmaco-indotta e i fattori di rischio legati alle abitudini di vita: ridotta attività fisica, fumo di sigaretta, abuso di alcolici, deficit di vitamina D sono fattori di rischio noti per osteoporosi, spesso presenti nella storia di questi pazienti. I farmaci anti-psicotici contribuiscono alla riduzione del BMD, sicuramente mediante l’ipogonadismo secondario all’iperprolattinemia, che pertanto dovrà essere trattato, mentre in questi pazienti le evidenze su iperprolattinemia di per sé e osso non sono ancora tali da suggerire raccomandazioni cliniche specifiche (14,15).
La relazione tra depressione e rischio maggiore di fratture è nota fin dagli anni ’90; evidenze più recenti hanno dimostrato una correlazione tra depressione e osteoporosi e una riduzione della BMD nei casi rispetto ai controlli. Anche in questi pazienti coesistono molteplici fattori di rischio più o meno noti per osteoporosi (ipercortisolismo, iponatremia), oltre all’assunzione di farmaci anti-depressivi. Studi più numerosi con dati sperimentali e clinici riguardano gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SRI) e i triciclici e i loro effetti su osteoblasti, osteociti e osteoclasti che esprimono recettori per la serotonina. Gli studi clinici hanno evidenziato un’aumentata perdita di massa ossea, in particolare nelle donne in post-menopausa in corso di terapia con SRI (16).
Tiroide
Nell’ambito delle terapie psichiatriche sono ben noti gli effetti del litio su morfologia e funzionalità tiroidea. Il litio interferisce con la funzionalità tiroidea agendo a vari livelli: compete con il trasportatore dello iodio, inibisce la sintesi e la secrezione degli ormoni tiroidei, altera la conformazione e la funzione della tireoglobulina e riduce la desiodazione e la clearance della T4. L’anomalia tiroidea più frequente indotta dal litio è il gozzo, riscontrato in circa il 50% dei pazienti, prevalenza che varia in relazione all’area geografica, alla durata del trattamento e agli strumenti diagnostici usati.
L’ipotiroidismo subclinico e conclamato sono anch’essi molto frequenti, con frequenze variabili dal 10 al 50% circa, quest’ultima in particolare in pazienti con positività autoanticorpale. L’ipotiroidismo insorge in media dopo circa 18 mesi dall’inizio del trattamento, ma può comparire anche precocemente; sono a maggior rischio le donne, con storia familiare, con anticorpi positivi e > 50 anni. In pazienti suscettibili il litio incrementa il rischio di sviluppare una patologia autoimmune. Viene suggerito un controllo annuale della funzionalità tiroidea, da anticipare se presenti più fattori di rischio. L’approccio diagnostico e terapeutico, sia per il gozzo che per il distiroidismo è simile a quello della popolazione generale.
L’ipertiroidismo indotto da litio è molto meno frequente e può presentarsi sia come tiroidite non dolente e transitoria a ridotta captazione (pertanto non responsiva a trattamento radiometabolico), sia come forma autoimmune con positività auto-anticorpale (7).
Gli altri psico-farmaci incidono assai meno frequentemente sulla funzione tiroidea:
- la quetiapina è stata associata con un modesto incremento dei valori di T4 senza ripercussioni sui valori di TSH;
- fenitoina e carbamazepina possono ridurre il legame per la TBG e aumentare i livelli circolanti di ormone tiroideo libero;
- gli anti-depressivi triciclici possono interferire sull’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide, riducendo la risposta del TSH al TRH. Per i pazienti in trattamento con questi ultimi farmaci non vi sono linee guida specifiche, ma è raccomandato un controllo periodico della funzionalità tiroidea (17).
Metabolismo del sodio
L’iponatremia rappresenta un disturbo elettrolitico frequente nei pazienti psichiatrici, la cui valutazione, a volte complessa, richiede una diagnosi differenziale tra una forma secondaria ai trattamenti in atto e una forma legata alla psicosi, con polidipsia psicogena e intossicazione d’acqua. Tra i farmaci psico-attivi la SIADH è stata associata all’assunzione di SRI, carbamazepina, oxcarbazepina e litio. La frequenza di iponatremia secondaria all’uso di SRI è variabile e legata al cut-off usato: Na < 135 mEq/L nel 9-40%, < 130 mEq/L nello 0.6-2.6%, con rischio maggiore nei pazienti con concomitante utilizzo di diuretici tiazidici. Gli SRI a maggior rischio sembrano essere fluoxetina, citalopram ed escitalopram, mentre sembra minore il rischio con paroxetina e sertralina. Anche duloxetina e venlafaxina possono indurre iponatremia precocemente, in particolare nei soggetti anziani. I triciclici e la mirtazapina hanno un minor profilo di rischio per l’iponatremia. Si tratta di una complicanza potenzialmente severa legata ai trattamenti, di cui bisogna tener conto, in particolare in soggetti anziani con concomitanti fattori di rischio che manifestino alterazioni dello stato di coscienza (18).
I sali di litio, ampiamente utilizzati nel trattamento del disturbo bipolare, rappresentano la più frequente causa iatrogena di diabete insipido (DI) nefrogenico: si stima che in corso di terapia con litio dal 20 al 40% dei pazienti possa presentare DI, con l’insorgenza di ridotta capacità di concentrare le urine e quindi moderata poliuria già a 8 settimane dall’inizio del trattamento, effetto generalmente reversibile alla sospensione della terapia. In alcuni casi sono richiesti mesi o anni per un recupero totale della capacità renale di concentrare le urine. Gli effetti renali del litio sono legati al dosaggio, alla durata del trattamento, all’età del paziente, alle comorbilità e al contemporaneo utilizzo di altri farmaci. Dopo un uso prolungato del farmaco, in alcuni pazienti si instaura un danno renale irreversibile da nefropatia interstiziale cronica, anche se il rischio assoluto sembra comunque basso rispetto alla popolazione generale (0.5% vs 0.2%). Il litio è un composto naturale, idrosolubile, che non si lega alle proteine plasmatiche e viene eliminato immodificato quasi esclusivamente dal rene. A livello renale il litio viene filtrato completamente a livello del glomerulo come sodio e potassio e viene riassorbito per circa l’80% a livello del tubulo prossimale; ne deriva che circa il 20% del litio filtrato si ritrova a livello del dotto collettore. All’aumento del litio intra-cellulare corrisponde a livello renale un’inibizione del cotrasporto Li-Na, con aumento dell’eliminazione del sodio dall’organismo e conseguente poliuria. L’accumulo di concentrazioni citotossiche di litio determina una ridotta espressione delle acquaporine, in particolare AQP2 e 3; la riduzione di tali canali dell’acqua, regolati dalla vasopressina (AVP) e localizzati a livello apicale della membrana plasmatica delle cellule dei dotti collettori, determina marcata inibizione del riassorbimento d’acqua e quindi poliuria e polidipsia e conseguente diabete insipido nefrogenico, definito dalla perdita di un volume urinario > 3-3.5 L/24h o > 50 mL/kg/24h, con osmolalità urinaria < 300 mOsm/L. Studi recenti hanno dimostrato come il DI nefrogenico indotto da litio non sarebbe secondario solo all’azione sulla via di segnale di AVP, ma sarebbero coinvolti anche altri fattori AVP-indipendenti, che contribuirebbero a determinare un danno del sistema tubulare (19). In molti pazienti l’aumentato introito di acqua è sufficiente per compensare la poliuria indotta dal farmaco. Nelle forme più severe può essere utilizzata l’amiloride, che inibendo il trasportatore del sodio (ENaC) riduce l’ingresso e quindi la concentrazione di litio nelle cellule, oltre che ridurre il volume urinario. Anche i tiazidici possono rappresentare un’opzione terapeutica, inducendo ipovolemia e determinando un incremento del riassorbimento tubulare di acqua, con riduzione della poliuria. Recentemente nel trattamento del DI nefrogenico da litio resistente ad altre terapie è stato segnalato l’utilizzo con successo di acetazolamide (20).
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Manifestazioni psichiche in corso di malattie endocrine
Pierantonio Conton
UOC Medicina Interna - UOSD Malattie Endocrine, del Metabolismo e Nutrizione, Ospedale Dell'Angelo, ASL 12 Veneziana
Tireotossicosi
Le alterazioni psicologiche e comportamentali dovute alla tireotossicosi sono molteplici e con incidenza variabile, che può raggiungere comunque il 60-70% dei pazienti.
Classicamente è riportata una condizione di ansia e disforia, labilità emotiva, insonnia e, talora, disturbi dell’intelletto. La capacità di concentrazione può essere particolarmente compromessa. D’altra parte, questo può essere uno dei disturbi più precoci della tireotossicosi, assieme all’irrequietezza e ai tremori. Il paziente appare irritabile, nervoso, facilmente propenso alla collera; talora esprime idee di riferimento o franca paranoia. I pensieri e l’eloquio possono fluire velocemente e talvolta susseguirsi sconnessi. L’attività motoria è accelerata e associata ad agitazione. I disturbi del sonno includono, oltre all’insonnia, sogni vividi e incubi, portando a conseguente senso di stanchezza diurna (elemento distintivo dal vero disturbo maniacale). Più raramente, in alcuni pazienti, le alterazioni comportamentali possono progredire verso forme aspecifiche di psicosi più strutturate, con sentimenti di delusione o di natura paranoide. Convulsioni epilettiformi sono rare. Nella “tempesta tireotossica ” l’insorgenza dei disturbi può essere molto rapida.
In contrasto con questo quadro clinico, alcuni pazienti denotano uno stato psichico definibile come “tireotossicosi apatica”, che mima una sorta di depressione, più comunemente osservabile nel paziente anziano, raramente tuttavia anche nell’adolescente. Questa sindrome si caratterizza per apatia, letargia, pseudo-demenza, calo ponderale, deflessione del tono dell’umore a esordio “melancolico”. Tale corteo sintomatologico può talora ritardare la diagnosi di tireotossicosi o, peggio, condurre a terapie farmacologiche psichiatriche potenzialmente esacerbanti la patologia tiroidea (1-3).
Ipotiroidismo
È ben noto il quadro neurologico con grave ritardo mentale (“cretinismo”) che si associa all’ipotiroidismo neonatale. Nell’ipotiroidismo dell'adulto gli iniziali cambiamenti del comportamento e le alterazioni neuro-psicologiche sono sfumati, aspecifici e mal definiti dal paziente stesso (ad es. stanchezza, facile affaticabilità), con conseguenti difficoltà o ritardi diagnostici. I disturbi cognitivi comprendono scarsa attenzione e capacità di concentrazione, rallentamento del pensiero, difficoltà nel calcolo e nella comprensione di quesiti complessi. Risulta frequentemente ridotta la capacità della memoria a breve termine (più raramente la memoria remota), come anche, in fasi più avanzate, l’abilità nello svolgere le comuni attività della routine quotidiana, fino ad arrivare a forme di demenza, reversibili, specie nel paziente anziano. Appare ridotta sia la reattività agli stimoli esterni e l’interesse per il mondo circostante, che la capacità di portare a termine l’attività lavorativa. La libido è diminuita. L’eloquio risulta più lento, “impoverito”, talvolta con ripetizioni. L’attività motoria è rallentata. In alcuni casi si realizza una sindrome melancolica, con facilità al pianto e alla delusione, stipsi, insonnia, idee suicidarie. Negli stadi più avanzati dell’ipotiroidismo possono comparire sindromi allucinatorie visive, comportamento bizzarro e idee paranoidi, nonché, nelle condizioni più gravi, sonnolenza, letargia: i pazienti possono trascorrere molte ore diurne nel sonno, fino ad arrivare allo stato soporoso o al coma.
Da segnalare inoltre una specifica forma di encefalopatia nella tiroidite di Hashimoto, caratterizzata da remissioni e recidive, crisi comiziali focali o generalizzate, transitori deficit neurologici e una molteplicità di manifestazioni psichiatriche, comprendenti allucinazioni, demenza e psicosi acuta (1-3).
Ipercortisolismo
Le alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), sia endogene che conseguenti all’impiego di farmaci che ne alterano i meccanismi di feed-back (tipicamente i “cortisonici”), si correlano allo sviluppo di alterazioni comportamentali, fino allo sviluppo di psicopatie, in relazione soprattutto alla cospicua presenza nel sistema nervoso centrale di recettori per i glucocorticoidi (GR). La sindrome di Cushing si accompagna spesso inizialmente a disfunzione affettiva; in fase conclamata si osservano disturbi maniacali, sindromi ansiose, disfunzione cognitiva e ideazione suicidaria presente nel 10% dei pazienti. La depressione è comunque il disturbo psichiatrico più frequentemente associato: si tratta di una forma atipica (con livelli di CRH soppressi), caratterizzata da iperfagia, astenia ed eccessiva sonnolenza, che si contrappone alla forma melancolica presente nell’iperattività dell’asse HPA sostenuta dallo stress (iperarousal, insonnia, anoressia). Studi più recenti hanno dimostrato l’esistenza di alterazioni funzionali dei GR nel SNC in alcune forme di depressione (“resistenza ai glucorticoidi”), in cui l’ipercortisolemia risulta essere un epifenomeno di compensazione e non secondario all’attivazione dell’asse HPA. In considerazione del loro largo impiego clinico, si deve segnalare che anche la somministrazione di glucocorticoidi sintetici, anche per brevi periodi di tempo, è potenzialmente in grado di causare disturbi quali mania/ipomania (più frequenti), inoltre apatia, ansia, disturbi da attacco di panico, depersonalizzazione, delirium. L’assunzione cronica è più frequentemente associata allo sviluppo di depressione simile alla sindrome di Cushing (2-6).
Iposurrenalismo
Nel morbo di Addison si riscontrano frequentemente deficit di concentrazione, irrequietezza, irritabilità, disturbi del sonno. I disturbi elettrolitici secondari in fase di scompenso possono condurre ad alterazioni della memoria e dello stato di coscienza, fino al coma. Nel 20% dei casi si associa depressione, con apatia, astenia, perdita dell’iniziativa. Nel 20-40% dei pazienti si riscontrano forme di psicosi, con allucinazioni, deliri paranoidi, negativismo, postura bizzarra o catatonica. Possono infine associarsi dispercezioni sensoriali. In una minoranza di casi tali disturbi possono persistere anche dopo l’inizio della terapia sostitutiva (2-6).
Acromegalia
I dati presenti in letteratura, talora non univoci, riportano come principale alterazione nell'acromegalia la perdita di iniziativa e spontaneità, con instabilità dell’umore. Sono presenti inoltre alterazioni dell’autostima, dismorfismo della percezione corporea, talora segni di ansia e rabbia nei confronti dell’inefficienza medica. Non sono classicamente riportate evidenti alterazioni intellettuali. Schizofrenia e psicosi maniaco-depressiva sono eventi rari. Le alterazioni neuropsichiatriche non appaiono correlabili ai valori plasmatici di GH, d‘altra parte l’impiego di analoghi della somatostatina sembra migliorare la qualità di vita psicologica e di relazione dei pazienti acromegalici (2,3).
Deficit di GH
Nell’infanzia il deficit di ormone somatotropo è correlabile a ritardo dell’apprendimento e dell’attenzione, ridotto rendimento scolastico. I bambini si dimostrano spesso psicologicamente immaturi e talora con disturbi della personalità. Nei pazienti adulti si riscontrano più spesso astenia, ridotta qualità del sonno, alte percentuali di disturbi d’ansia, fobia, ritiro sociale e depressione, apparentemente reversibili con la terapia sostitutiva. Sono descritte correlazioni positive tra concentrazioni plasmatiche di IGF-1, quoziente intellettivo e livello educazionale, tanto più forti quanto più precocemente insorge il deficit. Relazioni tra disponibilità di GH a livello ippocampale e turnover della dopamina sembrano spiegare possibili deficit della memoria (2,3).
Iperprolattinemia
Nell'iperprolattinemia, più spesso associati al sesso femminile, si riscontrano stati di depressione, ansia, ostilità. Il 30% delle pazienti presenta criteri diagnostici di depressione maggiore. Nel sesso maschile il calo della libido classicamente riportato può talora condurre a stati depressivi. Attraverso le vie endorfiniche l’eccesso di PRL aumenta la soglia del dolore e l’appetito. I disturbi migliorano con il trattamento dopaminergico. Le strette relazioni circolari tra prolattina, emozioni e sentimenti, suggeriscono che alterazioni della personalità e influenze comportamentali - ambientali potrebbero avere un ruolo nella stessa genesi della patologia iperprolattinemica. La PRL è identificata come componente di una serie di comportamenti e meccanismi metabolici necessari per la cura della prole (“programma materno”) (1,3,7).
Ormoni sessuali
Rapide oscillazioni nei livelli di estrogeni, come ad esempio nel peri-partum, possono ricoprire un ruolo nell’insorgenza di disturbi bipolari e depressione maggiore nel sesso femminile. La loro progressiva riduzione nella fase peri-menopausale è associata a un aumento di incidenza di depressione. Nel maschio il deficit di testosterone può associarsi, oltre al calo della libido, a deflessione del tono dell’umore, irritabilità, deficit della concentrazione e della memoria a breve termine, peggioramento della performance lavorativa. L’impiego di steroidi anabolizzanti e androgeni negli atleti a scopo dopante è associato a disturbi comportamentali e dell’umore, ansia, aggressività, disturbi del comportamento alimentare e sviluppo di psicosi croniche in individui predisposti, correlabili all’entità e al prolungato periodo di assunzione. Brusche sospensioni di tali pratiche possono aumentare l’incidenza di depressione e suicidio (1,8,9).
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Conseguenze endocrine delle malattie psichiatriche
Fedra Mori
UOC di Endocrinologia, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea, Roma
(aggiornato all’8 luglio 2020)
TIROIDE E PSICHIATRIA
EFFETTI DEGLI ORMONI TIROIDEI SUL SNC
Gli ormoni tiroidei giocano un ruolo fondamentale nell'omeostasi metabolica, nella crescita e sviluppo, soprattutto del sistema nervoso centrale (SNC), che appare molto sensibile alla loro azione durante la vita intra-uterina.
La tiroide fetale nell’uomo diventa pienamente funzionante a partire dal II trimestre di gestazione, ma il feto esprime recettori per gli ormoni tiroidei dalla 9° settimana, poiché da questo momento gli ormoni tiroidei di origine materna regolano il processo di proliferazione e migrazione neuronale nella corteccia cerebrale, ippocampo ed eminenza mediale del feto. Dalla 14° settimana anche la tiroide fetale contribuisce alla presenza di ormoni tiroidei. In questa fase cominciano la neurogenesi, la migrazione neuronale, la crescita assonale, l’arborizzazione dei dendriti, la formazione delle sinapsi, la differenziazione delle cellule gliali e la formazione della mielina (1). Dalla 28° settimana la madre e il feto contribuiscono in egual misura allo sviluppo del SNC, ma poiché la tiroide fetale non è pienamente matura fino alla nascita, una condizione di insufficiente produzione di ormoni materni può indurre effetti avversi anche in questa fase (2).
Dopo la nascita il completamento di alcuni processi (mielinizzazione e migrazione delle cellule granulari nel giro dentato dell’ippocampo e del cervelletto, delle cellule piramidali nella corteccia cerebrale e delle cellule di Purkinje nel cervelletto) dipenderà solo dall'attività della tiroide infantile (1).
Alla luce di queste evidenze, una condizione di franco ipotiroidismo materno, soprattutto nel I trimestre di gravidanza, indurrà la comparsa di danni irreversibili del SNC (tabella) (3), che clinicamente si manifesteranno con ritardo dello sviluppo cognitivo, strabismo, sordità e disturbi dell’eloquio, spasticità o paralisi degli arti inferiori, atassia, fino al cosiddetto cretinismo (3). Alcuni studi in pazienti nati da madri con disfunzione tiroidea sembrano inoltre indicare un aumentato rischio di epilessia, disordini dello spettro autistico, disordini da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) e altre condizioni psichiatriche (4,5).
Alterazioni del SNC secondarie a deficit di ormoni tiroidei (in ordine cronologico , dal I trimestre alla vita post-natale) |
Diminuzione della proliferazione delle cellule staminali |
Deficit di migrazione neuronale |
Ritardo della proliferazione neuronale |
Diminuita espressione dei fattori di differenziazione neuronale |
Deficit nell’inizio dell’attività primitiva di rete |
Riduzione dello spessore corticale |
Displasia corticale |
Anomalie nella deposizione e stratificazione della corteccia cerebellare |
Deficit di sviluppo di dendriti e assoni |
Diminuita espressione delle proteine coinvolte nella plasticità sinaptica |
Ritardo di mielinizzazione e ridotta guida assonale |
L’ipotiroidismo subclinico materno così come l’ipotiroidismo congenito (atireosi) sembrano associati a minor quoziente intellettivo (QI) nei bambini in età scolare, soprattutto nelle scale di performance (6-8), sebbene i dati della letteratura non siano sempre concordi. Per quanto riguarda l’azione degli ormoni tiroidei sul cervello adulto, sono ormai numerosi gli studi condotti in vitro e in vivo, sugli animali e sull’uomo, che dimostrano come questi ormoni esercitino un ruolo fondamentale nella neurogenesi, sia a livello della zona sub-capsulare dell’ippocampo che nella zona sub-ventricolare che delimita il III ventricolo, cioè nella formazione di nuovi neuroni maturi o di interneuroni e neuroni peri-glomerulari che vanno a integrarsi nel circuito olfattorio (9).
FUNZIONE TIROIDEA E DISTURBI PSICHIATRICI
Depressione
Ipotiroidismo franco: rallentamento del pensiero e del linguaggio, riduzione dell'attenzione e apatia sono tutti segni/sintomi di una condizione di ipotiroidismo conclamato, che possono essere confusi con la depressione (10). L’esecuzione di test può svelare un incremento dei punteggi relativi ad ansia e depressione, che possono migliorare, ma non sempre completamente, con la terapia sostitutiva (11). Raramente il paziente ipotiroideo può sviluppare un quadro di agitazione e franca psicosi (12).
Ipotiroidismo subclinico: il link con la depressione è fortemente controverso. Alcuni dati sembrano indicare una maggiore prevalenza di ipotiroidismo subclinico nei pazienti affetti da depressione (10,13) e almeno dagli anni ’60 è invalso l’uso di aggiungere ormoni tiroidei alla terapia anti-depressiva, anche a dosi sovra-fisiologiche (14), per potenziarne l’effetto e accelerare il miglioramento clinico nei non responder, sebbene una più recente meta-analisi degli studi sull’associazione SSRI + T3 non abbia dimostrato una risposta clinica più rapida rispetto alla terapia con soli SSRI (15).
Nella pratica clinica, quindi, i pazienti affetti da depressione o riduzione del tono dell’umore vengono generalmente sottoposti a valutazione della funzione tiroidea ed eventualmente trattati con L-tiroxina se presente una condizione anche modesta di ipotiroidismo subclinico, nella speranza che tale terapia determini un miglioramento dei disturbi affettivi (16). Un recente lavoro retrospettivo condotto in UK su più di 50.000 pazienti ha, infatti, evidenziato un progressivo incremento durante l’osservazione della prescrizione e del dosaggio di L-T4, anche per condizioni di modesto ipotiroidismo subclinico e in quei pazienti nei quali gli effetti collaterali avrebbero potuto essere maggiori dei benefici, suggerendo un uso che va oltre il semplice controllo del TSH. Infatti, i pazienti con astenia o depressione all’inizio dello studio venivano trattati con dosaggi più elevati di L-T4 (17). Studi più recenti non hanno dimostrato però né una maggiore prevalenza di depressione nei pazienti con ipotiroidismo subclinico rispetto agli eutiroidei (18,19), né che il trattamento con L-T4 in questa classe di pazienti determini un miglioramento dei punteggi di depressione (20-22).
Nel 2018 è stato pubblicato uno studio prospettico (23) su oltre 90.000 adulti (39 ± 6.7 anni) valutati per funzionalità tiroidea, avendo come endpoint lo sviluppo di sintomi depressivi in un periodo medio di follow-up di due anni. Lo studio non ha dimostrato alcuna associazione tra ipotiroidismo subclinico e sintomi depressivi incidenti. Il risultato rimaneva simile nelle diverse classi di età e sesso e non era influenzato dall’aggiustamento per potenziali fattori confondenti (BMI, fumo, uso di alcool, esercizio fisico, comorbilità).
Alcuni piccoli studi sembrano dimostrare invece che l’ipotiroidismo subclinico sia in grado di modificare, seppure sottilmente, alcuni domini cognitivi (memoria verbale e spaziale, funzioni esecutive) e si associ a anomalie delle aree frontali nella MR funzionale. Alcuni soggetti trattati con L-T4 per 6 mesi hanno presentato un miglioramento radiologico e dei punteggi cognitivi (24,25). Molti pazienti ipotiroidei in trattamento con L-T4 continuano a riferire un disturbo dell’umore o delle funzioni cognitive, nonostante valori normali di TSH. Alcuni studi sembrano indicare che in questi pazienti i disturbi affettivi siano legati alla consapevolezza della malattia tiroidea e alla necessità di assumere la terapia, piuttosto che alla funzione tiroidea stessa (26-28). Un’altra possibile spiegazione è la presenza di polimorfismi della desiodasi 2 o dei trasportatori degli ormoni tiroidei, che possono teoricamente indurre una condizione di ipotiroidismo intra-cellulare con bassi livelli di T3 (29,30). Tuttavia, i dati non sembrano dimostrare una correlazione tra depressione e livelli di T3 negli ipotiroidei trattati (31), né che la terapia combinata LT4 + LT3 dia beneficio sulle funzioni cognitive o sull’umore (32,33).
Alla luce di tutte queste evidenze, i disturbi affettivi non sembrano associati all’ipotiroidismo subclinico, ma rappresentano una condizione psichiatrica indipendente molto comune nella popolazione generale e che si presenta con uguale frequenza nei pazienti con ipotiroidismo subclinico. Spesso questi sintomi sono più evidenti in quei pazienti più preoccupati per la propria condizione endocrinologica, sebbene non possa essere completamente esclusa la presenza di sottili deficit dell’umore in particolari sottogruppi di pazienti.
2b. Schizofrenia e disordini bipolari
Diversi studi epidemiologici sostengono la presenza di un legame tra disturbi psichiatrici e malattie autoimmuni, con un aumento del rischio di schizofrenia e disordini bipolari negli individui che hanno una storia personale o familiare di malattie autoimmuni (34 35). La presenza di autoimmunità tiroidea è stata anche proposta come fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di disturbi bipolari, senza associazione con l’esposizione al litio (36). A loro volta i pazienti con disturbi bipolari sembrano presentare un maggiore rischio di sviluppare tiroiditi autoimmuni e alcuni dati della letteratura sembrano suggerire che in alcune famiglie gli AbTPO e la patologia psichiatrica vengano trasmessi in modo associato, tanto da ipotizzare che i livelli di AbTPO possano essere utilizzati come possibile endofenotipo per i disordini bipolari stessi (37). Sia l’iper- che l’ipotiroidismo autoimmune (Graves e Hashimoto) possono essere riscontrati nei pazienti bipolari e schizofrenici, tuttavia l’ipertiroidismo sembra preponderante nei primi mentre nella schizofrenia sembra maggiore il rischio di ipotiroidismo (38). Tale dato sembra confermato anche da un recente studio di popolazione condotto in Israele (39), che ha coinvolto più di 40.000 ipotiroidei e 40.000 controlli, e che ha dimostrato come la schizofrenia sia associata in modo indipendente all’ipotiroidismo, anche dopo correzione per sesso e altri fattori quali età, fumo e classe sociale. Tali evidenze suggeriscono la necessità di valutare sempre la funzionalità tiroidea nei pazienti psichiatrici.
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CORTICOSTEROIDI E PSICHIATRIA
ASSE HPA E RISPOSTA ALLO STRESS
Il processo di risposta allo stress determina l’attivazione diretta e coordinata di diversi sistemi. L’asse ipotalamo-ipofisi-surreni (HPA) rappresenta un sistema centrale di risposta biologica allo stress e appare essenziale nel permettere all’individuo di contrastare quegli eventi che minacciano la sopravvivenza fisica o i cosiddetti stressor psico-sociali, grazie a un adattamento dinamico di fronte al mutare delle sollecitazioni ambientali (1).
L’attivazione dell’asse HPA si traduce in una rete di complessi segnali strettamente regolati da meccanismi inibitori (feed-back) e permissivi (feed-forward). I neuroni della regione parvo-cellulare del nucleo para-ventricolare dell’ipotalamo rilasciano CRH e vasopressina (AVP) nella circolazione portale attraverso l’eminenza mediana. I due ormoni si legano quindi ai recettori presenti sulle cellule ipofisarie e stimolano la secrezione di ACTH, il quale attraverso il circolo ematico giunge al surrene, dove induce sintesi e rilascio di cortisolo (2). Una volta sintetizzato, il cortisolo è in grado di agire ubiquitariamente e determinare una molteplice serie di effetti, attraverso meccanismi genomici e non-genomici. Gli effetti genomici sono mediati dal suo legame con due recettori specifici: i recettori ad alta affinità per i mineralcorticoidi (MR) e i recettori a bassa affinità per i glucocorticoidi (GR), localizzati all’interno del citoplasma (3,4). In condizioni di secrezione basale e all’inizio di un evento stressante, il cortisolo si lega primariamente ai MR, che mostrano la più elevata affinità, mentre i GR vengono legati progressivamente quando la secrezione di cortisolo aumenta durante la risposta allo stress e al momento del picco di secrezione circadiana (5). Una volta legato al cortisolo, il complesso recettore-cortisolo trasloca all’interno del nucleo, dove si lega a sua volta a determinati siti del DNA (glucocorticoid response elements) situati nella regione promoter di geni target, dei quali modula l’espressione, attivandone o reprimendone la trascrizione (6).
Nella risposta allo stress, gli effetti genomici più lenti sono affiancati da quelli non genomici, mediati da recettori di membrana (3,7). Gli effetti dei meccanismi non genomici sono più veloci e necessari per il rapido contrapporsi al mutare delle situazioni ambientali (8). Attraverso questa via il cortisolo modula l’attività di diversi sistemi di neurotrasmettitori, come serotonina, acido-γ-aminobutirrico tipo A (GABAA), glutamato, dopamina e acetilcolina, con effetti sui processi di gratificazione/ricompensa, attenzione, funzioni esecutive, umore ed emozioni (9,10).
I primi effetti dell’incremento acuto della secrezione di cortisolo sono rappresentati da aumento del rilascio di glucosio, necessario per fornire energia ai diversi organi coinvolti nella risposta allo stress, intensificazione dello stato di vigilanza e modificazione della risposta immune (11). Allo stesso tempo vengono inibite le funzioni non immediatamente necessarie, come crescita e riproduzione (7).
Una volta cessato lo stimolo stressante, entrano in gioco i meccanismi di feed-back negativo, che cercano di riportare il sistema alla situazione di base, limitando l’esposizione dei tessuti, compreso il SNC, al cortisolo (12). Attraverso i GR, il cortisolo stesso inibisce a livello ipotalamico e ipofisario l’ulteriore rilascio di CRH e ACTH, mentre il legame con questi recettori nell’ippocampo e nella corteccia pre-frontale contribuisce all’effetto inibitorio attraverso un impulso GABAergico diretto al nucleo para-ventricolare (13). Un altro meccanismo con il quale viene limitata la disponibilità del cortisolo è rappresentato dal suo legame con la cortisol-binding-protein (CBG). Questa proteina, tuttavia, possiede una bassa capacità di legame, che viene rapidamente superata quando la secrezione di cortisolo aumenta in condizioni di stress (14).
L’asse HPA è essenziale anche per il mantenimento dell’omeostasi in assenza di stress. CRH e AVP continuano ad essere secreti in maniera pulsatile e questo determina il rilascio del cortisolo secondo un ben definito ritmo circadiano (15), con picco di secrezione 30-40 minuti dopo il risveglio, successivo declino durante il resto della giornata e nadir che si osserva all’incirca all’inizio del sonno (16). Nei neonati di due mesi d’età è già possibile osservare una secrezione pulsatile di cortisolo (17), sebbene l’andamento adulto di secrezione venga raggiunto intorno al 3° anno di vita (18).
ASSE HPA E PATOLOGIA PSICHIATRICA
Possibile nesso causale
L’ampia capacità del cortisolo di agire su diversi sistemi neurotrasmettitoriali che regolano emozioni, motivazione e comportamento, ne suggerisce un ruolo nell’eziologia di numerose problematiche psichiatriche/comportamentali (5). Alcuni studi su animali sono a favore dell’ipotesi che l’esposizione a uno stress cronico possa condurre a cambiamenti persistenti nella regolazione dell’asse HPA, mediante mutamento dell’assetto neurotrasmettitoriale (19), e l’eventuale perdita del meccanismo di feedback negativo sembra possa favorire lo sviluppo di disturbi affettivi. Una disregolazione dell’asse HPA è infatti frequentemente osservata nei soggetti affetti da depressione maggiore (20), schizofrenia (21), disordini da stress post-traumatico (22) e dipendenza da alcool (23).
Altri dati derivanti da studi su animali e umani sembrano dimostrare che il cortisolo, sempre in condizione di stress ripetuto o duraturo, può esercitare un effetto neurotossico, con ricadute negative su funzioni esecutive, memoria, regolazione delle emozioni e performance cognitive (24,25).
Molto importante sembra la diversa risposta dei singoli individui allo stress, determinata dalla presenza di particolari varianti dei geni coinvolti nella funzione dell’asse HPA: CRH e suo recettore, GR, MR, FK506-binding protein (26).
Cortisolo e depressione
Molti studi hanno riportato un anomalo segnale del GR (22) nei pazienti con depressione maggiore, associato a cronica ipersecrezione di CRH (27). Tale situazione sposterebbe l’asse HPA verso un set-point più elevato, spiegando l’iperattività persistente osservata in alcuni pazienti affetti da depressione maggiore (28,29) o la mancata soppressione del cortisolo in risposta ai test farmacologici (30,31). Il risultante ipercortisolismo potrebbe inoltre modificare l’attività del sistema serotoninergico e dopaminergico, meccanismo che potrebbe spiegare i sintomi più severi o le manifestazioni psicotiche osservate in alcune forme di depressione maggiore (32,33).
Ma la relazione tra depressione e cortisolo è molto più complessa e appare dipendente dalla severità e stadio della malattia e anche dal tipo di metodo utilizzato nella sua valutazione (34). Rispetto alla gravità, sembra che nelle forme più severe di depressione (psicotica, melancolica, bipolare) i valori di cortisolo (basali, circadiani o dopo stimolo/soppressione) siano più elevati di quelli osservati nelle varianti mild (depressione atipica) (35-38). Elevati livelli di cortisolo vengono anche associati al deficit cognitivo osservato nei pazienti affetti da depressione psicotica (38). Inoltre, alcuni studi hanno mostrato diversità nella morfologia del SNC nei pazienti affetti da forme più gravi di depressione rispetto a quelli colpiti da sottotipi più mild: riduzione del volume dell’ippocampo e del lobo frontale, aumento della fessura silviana, riduzione della vascolarizzazione del lobo frontale (39-43).
Per quanto riguarda lo stadio della malattia, invece, la funzione dell’asse HPA non appare alterata nella depressione cronica, mentre i pazienti in fase di remissione sottoposti ad uno stress visivo mostrano un aumento dei valori di cortisolo maggiore rispetto ai controlli (44) e la persistenza di una mancata risposta alla soppressione con desametasone sembra predirne la ricaduta a sei mesi (45).
Prese tutte insieme, queste osservazioni suggeriscono che la disfunzione del cortisolo sia proporzionale alla corrente classificazione nosografica della depressione maggiore (37).
Cortisolo e schizofrenia
Gli studi sulla relazione tra asse HPA e schizofrenia hanno prodotto risultati non sempre concordanti. Alcuni sembrano indicare un’iperattività dell’asse, con valori di cortisolemia basale più elevati (46,47), mentre altri non hanno dimostrato alcuna differenza rispetto ai controlli (23). Più costantemente è riportata una ridotta risposta del cortisolo allo stress, indipendentemente da stadio di malattia, farmaci, o cronicità (23,48). Alcuni autori hanno inoltre suggerito che più elevati valori di cortisolemia basale sia associno a maggiore severità clinica, ridotta capacità di interazione sociale e delle performance cognitive (49,50).
EARLY LIFE PROGRAMMING E PATOLOGIA PSICHIATRICA
Nella relazione tra asse HPA e disturbi emotivi/comportamentali appare sempre più importante l’effetto dell’esposizione durante la vita intra-uterina e post-natale precoce a condizioni in grado di interagire da un lato con lo sviluppo e la maturazione del SNC e dall’altro con il sistema di risposta allo stress, fenomeno definito come “early-life programming” (51). Numerosi dati (52) indicano come uno stress materno durante la gravidanza o nei primi anni di vita post-natale aumenti il rischio per la prole di successive problematiche cognitive, comportamentali ed emotive, quali ansia, depressione, ADHD, disordini dello spettro autistico, disturbi della personalità e disturbi del comportamento (51,53,54). Alcuni lavori sembrano dimostrare che condizioni di stress in età infantile siano fortemente predittrici della presenza di un ridotto feed-back inibitorio dell’asse HPA (51) o comunque di un’alterazione della sua funzionalità. Uno studio su bambine e adolescenti tra 6 e 16 anni, vittime di abusi sessuali, ha dimostrato inizialmente valori di cortisolemia basale più elevati rispetto ai controlli, condizione che si invertiva in età adulta (55).
Il risultato dello stress pre- e post-natale sulla prole sembra dipendere da diversi fattori, quali il tipo di stress (56), il momento della vita in cui questo viene vissuto (57), il sesso del nascituro (58), oppure una specifica “vulnerabilità genetica” del bambino. Ad esempio, il rischio di schizofrenia sembra maggiormente associato a un intenso stress vissuto nel I trimestre di gravidanza (59), mentre la presenza di specifiche forma di COMT, l’enzima che metabolizza le catecolamine, pare associarsi alla diagnosi di ADHD in adolescenti figli di madri che hanno sofferto di ansia nel periodo della gravidanza (60). Un possibile meccanismo alla base di questa relazione potrebbe essere una modificazione epigenetica (metilazione del DNA, modificazioni post-traslazionali degli istoni, regolazione genetica attraverso microRNA) di quei geni associati con la regolazione dell’umore o la risposta allo stress (51), alterazioni che non solo possono potenzialmente modificare la risposta alle avversità del singolo individuo, ma possono essere anche trasmesse attraverso le generazioni (26,61,62). Nei piccoli di ratto sottratti alle cure materne è stata osservata l’esagerata metilazione di specifiche regioni del gene che codifica per GR (NR3C1) (61) e alcuni dati sembrano suggerire che tale alterazione possa modificare anche nell’uomo la funzione dell’asse HPA e aumentare il rischio di sviluppare disordini psichiatrici (63,64).
Numerosi studi hanno cercato di verificare come lo stress pre-natale possa interferire sull’anatomia del SNC (52). I risultati più interessanti sembrano dimostrare assottigliamento dello spessore della corteccia del lobo frontale e temporale (65,66), riduzione del volume della sostanza grigia (67) e del cervelletto, aumento del volume dell’amigdala (68) o ancora riduzione del volume dell’ippocampo (69) e della corteccia cingolata anteriore (70). Nei bambini l’assottigliamento della corteccia pre-frontale dell’emisfero di destra sembra associato a comportamenti esternalizzanti (72), mentre negli adolescenti l’assottigliamento della corteccia soprattutto frontale e temporale sembra associato a elevati sintomi depressivi (66). Tale alterazione dello sviluppo corticale è stata inoltre osservata nei pazienti affetti da depressione maggiore, indipendentemente dalla presenza di stress prenatale (72). L’amigdala è la struttura cerebrale coinvolta nella regolazione delle emozioni e un incremento del suo volume sembra collegarsi a disordini comportamentali (73).
Partendo dai lavori condotti sugli animali, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sull’asse HPA e sul ruolo del cortisolo quale possibile meccanismo sottostante alla relazione tra stress prenatale e l’insorgenza di successive problematiche comportamentali/psichiatriche. Durante la gravidanza il cortisolo materno aumenta di due-tre volte rispetto ai valori pre-gravidanza, con un picco di concentrazione al III trimestre, largamente dovuto alla produzione placentare di CRH. L’esposizione fetale al cortisolo materno è parzialmente limitata dalla azione dell’11ß-HSD2, ma di fatto i valori prenatali di cortisolo materno correlano con quelli fetali (74). Quindi, una madre che si trova a vivere uno stress prolungato e ripetuto potrebbe esporre il feto a livelli esagerati di cortisolo. I dati della letteratura sembrano indicare che nell’uomo l’esposizione a elevati livelli di cortisolo durante la gravidanza si associa a basso peso alla nascita, ridotta circonferenza cranica (75,76), ma anche a una più intensa risposta del cortisolo allo stress in epoca infantile e durante l’adolescenza, alterato sviluppo mentale e psico-motorio (77-79), minor QI, disordini da iperattività/deficit di attenzione, disordini affettivi, del comportamento e del controllo delle emozioni (80,81). I figli di madri che durante la gravidanza hanno consumato elevate quantità di liquirizia (che contiene un naturale inibitore della 11β-HSD2) e che quindi sono stati esposti ad elevate concentrazioni di cortisolo in utero, hanno un rischio tre volte maggiore di presentare sintomi di ADHD, minor QI e pubertà più precoce (82). Livelli elevati di cortisolo materno nelle fasi precoci della gravidanza sembrano associarsi a maggior volume dell’amigdala e più frequenti problemi affettivi nelle bambine (83), mentre è stata osservata un’associazione tra livelli di CRH materno durante la gravidanza e assottigliamento della corticale nella zona temporale frontale della prole (84).
Tutti questi lavori sembrano quindi suggerire che la relazione tra cortisolo e patologia psichiatrica abbia un’origine molto precoce, addirittura prenatale, e impongono un’importante riflessione sulle misure da adottare per prevenire o modificare il decorso di patologie così invalidanti.
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ESTROGENI E PSICHIATRIA
EFFETTI DEGLI ESTROGENI SUL SNC
Gli ormoni gonadici non indirizzano soltanto lo sviluppo somatico ma anche quello cerebrale, creando le basi per un dimorfismo sessuale che inizia già in epoca gestazionale e si concretizza ancora più fortemente in epoca puberale. Gli estrogeni, e in particolare il 17ß-estradiolo (E2), sembrano garantire il mantenimento di una normale funzione cerebrale durante tutta la durata della vita attraverso diversi meccanismi: promuovono la mielinizzazione neuronale, incrementano plasticità e densità delle sinapsi, facilitano la connessione neuronale, espletano un ruolo anti-ossidante, inibiscono la morte neuronale, mediano l’espressione del BDNF e influenzano positivamente l’attività mitocondriale neuronale (1,2).
Gli estrogeni possono certamente avere un’influenza sull’umore e sulla regolazione cognitiva, grazie all’ampia diffusione dei loro recettori nel cervello e alla capacità di modulare sintesi e attività di molteplici neurotrasmettitori. In particolare, per la regolazione dell’umore appare importante la presenza di recettori estrogenici in regioni quali la corteccia pre-frontale e l’ippocampo (3,4).
Gli studi condotti su animali evidenziano che la somministrazione di E2 è in grado di determinare un incremento della sintesi e disponibilità della serotonina, attraverso la limitazione dell'attività della monoamino-ossidasi (MAO) e l’incremento delle diverse forme di triptofano-idrossilasi, enzimi coinvolti su fronti opposti nel metabolismo di questo neurotrasmettitore (5-7). Un ulteriore effetto anti-depressivo potrebbe essere esercitato dagli estrogeni attraverso la loro modulazione positiva del BDNF (8).
SCHIZOFRENIA
La schizofrenia rappresenta uno dei più comuni disturbi psichiatrici che colpiscono la nostra società, interessando circa 7 individui su 1000 (9).
Il suo esordio avviene generalmente in età adolescenziale, persiste per tutta la vita ed è caratterizzata da sintomi positivi (delusione, allucinazioni), negativi (comportamenti inappropriati, isolamento sociale, apatia, disorganizzazione) e deficit cognitivi, generalmente a largo spettro, che possono interessare memoria, attenzione e funzioni esecutive (9-11).
I maschi presentano un maggiore rischio di malattia prima dei 40 anni (RR 1.5) (12,13), mentre il rischio per le donne è più alto nel periodo peri-menopausale (14).
Sebbene i risultati degli studi non siano sempre omogenei, le donne prima della menopausa sembrano presentare un decorso meno grave rispetto agli uomini, con minor frequenza di disturbi cognitivi (9), minor numero di ricoveri (15) e minor dosaggio di neurolettici (16). Esistono anche altre differenze tra i sessi: gli uomini affetti sembrano mostrare una riduzione del volume del lobo temporale sinistro e del lobo parietale inferiore rispetto a soggetti sani dello stesso sesso, mentre tale differenza non è stata osservata nelle donne (17,18). Il migliore decorso di malattia osservato nelle donne potrebbe essere spiegato da un lato dalla migliore compliance e dal minore abuso di sostanze che spesso le pazienti mostrano rispetto ai maschi, ma anche da un possibile ruolo protettivo esercitato dagli estrogeni. Gli estrogeni giocano un ruolo importante nella modulazione di diversi sistemi neurotrasmettitoriali (dopaminergico, GABAergico, serotoninergico, noradrenergico e colinergico), tutti coinvolti nello sviluppo e nell’espressione della sintomatologia schizofrenica (2,19-21). Questi dati, associati alle osservazioni precedenti, hanno suggerito per gli estrogeni, soprattutto E2, sia un ruolo di protezione rispetto all’insorgenza della schizofrenia sia di modulazione positiva di alcuni sintomi psicotici. Il brusco declino di questi ormoni, che si verifica con la menopausa, potrebbe essere responsabile del secondo picco di incidenza della patologia che si osserva in questa fase della vita (22). Peraltro già nelle donne sane il periodo peri- e post-menopausale sembra associato a una riduzione della memoria verbale e della fluenza fonemica, oltre che a un aumentato rischio di depressione (23). Ad ulteriore sostegno di tale ipotesi, alcuni ricercatori hanno evidenziato nelle donne schizofreniche in età fertile livelli di estrogeni più bassi di quelli rilevati nelle donne sane, così come un esordio o riacutizzazione di malattia in quelle fasi del ciclo mestruale nelle quali questi ormoni sono fisiologicamente ridotti o nel post-gravidanza (24). Le donne schizofreniche con ciclo regolare sembrano mostrare funzioni cognitive superiori rispetto a quelle affette dalla stessa patologia ma con cicli irregolari (25) e nelle stesse pazienti l’età del menarca sembra inversamente correlata con l’età di insorgenza della patologia (16).
Azione terapeutica degli estrogeni e dei SERM
Diversi studi clinici di breve durata, condotti in donne in età fertile o in menopausa, hanno dimostrato come il trattamento con estrogeni (E2 per via orale o trans-dermica), da soli o in aggiunta alla terapia anti-psicotica, sia in grado di migliorare tutti i diversi sintomi della schizofrenia (positivi, negativi, cognitivi) (26-30). Pochi studi hanno invece valutato l’effetto della terapia combinata (estrogeni + progestinici) con risultati non univoci (31,32), sebbene in queste pazienti appaia evidente anche una disregolazione dei livelli di progesterone (33).
Se da un lato, tuttavia, la prescrizione di estrogeni per un breve periodo si è dimostrata efficace e sicura, dall’altro il trattamento a lungo termine rimane controverso. Nelle donne in menopausa la terapia con soli estrogeni aumenta il rischio di neoplasia mammaria ed endometriale (34,35), sebbene offra una protezione contro la malattia cardio-vascolare (36) e appaia ridurre il declino cognitivo (37).
Poiché le donne con schizofrenia richiedono un trattamento cronico, l’interesse dei ricercatori si è rivolto quindi verso i SERM (selective estrogen receptor modulators), che esplicano un effetto estrogenico ed anti-estrogenico a secondo del tessuto con cui interagiscono. Tra questi, il più studiato è il raloxifene, con un effetto anti-estrogenico su mammella e utero (38) e azione agonista sui recettori serotoninergici nei gangli basali, corteccia frontale e striato, tutti siti coinvolti nell’eziologia/sintomatologia della schizofrenia (39). Come per gli estrogeni, gli studi al momento disponibili sono di breve durata (8-24 settimane) e sembrano indicare efficacia e sicurezza del raloxifene (60-120 mg/die), da solo o in associazione alla terapia anti-psicotica, nel trattamento delle donne in menopausa affette da schizofrenia (40,41). Tuttavia, i risultati degli studi non sono sempre concordi, probabilmente perché influenzati da variabili difficilmente confrontabili, che possono modulare la risposta al raloxifene, come età di insorgenza, durata e gravità della patologia, tipo di anti-psicotico utilizzato, dosaggio del SERM, profilo genetico della paziente (42). Al momento il raloxifene non è raccomandato per il trattamento della schizofrenia, se non in studi sperimentali, sebbene gli studi appaiano promettenti. Gli anti-psicotici, quindi, rimangono l’unico trattamento possibile per le donne in menopausa, sebbene tali farmaci si mostrino meno efficaci in questa fase della vita e più frequentemente accompagnati da effetti collaterali di tipo metabolico, cardio-vascolare e neurologico (43).
DEPRESSIONE
La depressione rappresenta una condizione disabilitante, che incide profondamente sulla vita personale, affettiva e sociale di un individuo e che interessa circa 300 milioni di persone nel mondo. I sintomi, che insorgono già in adolescenza, possono essere di tipo psicologico (sentirsi giù, tristi, senza speranza, privi di motivazione o interessi, irritabili, colpevoli, privi di stima per se stessi, avere fantasie suicidarie), fisico (cambiamenti della qualità e della durata del sonno, modificazione del peso e dell’appetito, perdita di energia, dolori inspiegabili, perdita di interesse per la sessualità) e sociale (ridotta capacità lavorativa, evitamento della socialità, difficoltà nella vita familiare) (44).
La depressione rappresenta una delle cause più importanti di disabilità per le donne, che presentano un rischio quasi doppio di ammalarsi rispetto agli uomini, soprattutto durante la vita riproduttiva (45). Tale predisposizione appare influenzata da fattori sociali, psicologici e genetici, così come da fattori biologici. Infatti, alcune donne sembrano sperimentare una maggiore vulnerabilità alla depressione in alcune fasi della loro vita (finestre di vulnerabilità), quali il periodo luteale, il post-partum o la fase di transizione verso la menopausa (46). Questi periodi “finestra” sono caratterizzati da modificazioni dell’ambiente ormonale al quale queste donne sembrano particolarmente sensibili. L’importanza e l’attenzione che viene rivolta a queste finestre di vulnerabilità è testimoniata anche dal riconoscimento del “disordine disforico premestruale” e dalla sua inclusione nel DSM-V (47).
L’esistenza di una depressione associata alla menopausa appare invece ancora un punto controverso. Diversi studi (48-50), sia trasversali che longitudinali, sembrano dimostrare un incremento del rischio di depressione nel periodo di transizione verso la menopausa (da due a quattro volte rispetto alla pre-menopausa) e identificano una serie di fattori predisponenti, quali la presenza di sintomi vasomotori, l’abitudine tabagica, lo stato di salute, i disturbi del sonno, precedenti episodi di depressione maggiore. Per quanto riguarda la relazione con l’assetto ormonale, i dati non sono sempre concordi. Il Penn Ovarian Ageing study (49) sembra mettere in relazione le fluttuazioni dei valori di FSH ed estradiolo che si osservano in peri-menopausa con un peggioramento dello stato dell’umore, a sostegno dell’ipotesi che l’impatto sul rischio di malattia sia esercitato maggiormente dalle variazioni piuttosto che dal valore assoluto degli ormoni sessuali. L’aumento del rischio di depressione in menopausa è stato associato a un polimorfismo per il recettore per gli estrogeni (51-53), sebbene gli studi di popolazione che hanno valutato il ruole di tale variazione allelica abbiano prodotto conclusioni non univoche.
Terapia estrogenica per la depressione
Sebbene ci siano pochi studi randomizzati che hanno esaminato l’efficacia della somministrazione di estradiolo in donne con esordio o ripresa di depressione in fase peri-menopausale (talvolta con risultati difficilmente confrontabili), i dati della letteratura sembrano promettenti, indicando un’azione anti-depressiva di questo ormone somministrato per via orale o trans-dermica, anche in associazione a un progestinico (54-57). L’efficacia sembra però limitata nelle donne ormai in menopausa da molti anni (58). Altri studi suggeriscono che l’estradiolo possa aumentare la risposta clinica agli anti-depressivi (SSRI) o in taluni casi avere una efficacia sovrapponibile nella riduzione dei sintomi depressivi, con un’azione apparentemente svincolata dal controllo delle vampate e dal miglioramento del sonno (59,60). Tuttavia, anche in questo caso si tratta di studi di breve durata, condotti in genere su campioni non troppo grandi di donne e di età talvolta diverse, il che rende impegnativo tradurre questi risultati in indicazioni operative/terapeutiche concrete, sebbene possano ampliare il nostro armamentario terapeutico e condurci a un trattamento sempre più personalizzato delle nostre pazienti in menopausa.
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ANDROGENI E PSICHIATRIA
EFFETTI DEL TESTOSTERONE SUL SNC
La prima funzione del testosterone si manifesta durante la vita prenatale, quando è indispensabile per indurre la differenziazione sessuale e lo sviluppo del pene, dei testicoli e dell’apparato genitale maschile (1). Il testosterone svolge anche un ruolo importante nella differenziazione sessuale del SNC, dove interviene in senso dimorfico proprio sulla modulazione della funzione riproduttiva, sessuale, cognitiva e psicologica (2). La sua azione viene esplicata sia direttamente, attraverso recettori specifici (recettori androgenici, AR), sia indirettamente attraverso i recettori estrogenici, dopo la sua aromatizzazione in estrogeni da parte dell’aromatasi cerebrale. Inoltre, sempre nel tessuto cerebrale il testosterone può agire dopo trasformazione in DHT, che si comporta come ligando per gli AR (3).
Gli studi sugli animali e sull’uomo hanno dimostrato che l’espressione degli AR è specifica per le diverse regioni cerebrali (4) e dipendente dal genere, quindi con differente attivazione in funzione del sesso (5). Nel SNC dei mammiferi gli AR sono localizzati in aree critiche per le funzioni cognitive e l’umore, come la corteccia frontale, l’ippocampo, l’amigdala e l’ipotalamo (6,7), ma sono stati osservati anche in regioni cerebrali coinvolte nell’eziologia delle psicosi, come i neuroni dopaminergici del mesencefalo (8). Il testosterone sembra inoltre in grado di agire direttamente, e sempre in modo dimorfico, sulla morfologia delle strutture cerebrali corticali (9), e insieme al DHEA sembra regolare neurogenesi e apoptosi nelle strutture limbiche, soprattutto amigdala e ippocampo (10).
TESTOSTERONE E PSICHIATRIA
È stato ormai dimostrato che esistono differenze di genere per quanto riguarda esordio, incidenza, sintomi e decorso di malattie quali schizofrenia e disturbi dell’umore (depressione e disturbi bipolari) (11,12): mentre per gli estrogeni è stato proposto un effetto neuro-protettivo (13), appare meno chiaro il ruolo del testosterone in termini di prevenzione o induzione della patologia psichiatrica.
Diversi dati sembrano indicare che il testosterone possa mediare o favorire la sintomatologia neuropsichiatrica. Ad esempio, gli studi condotti su soggetti che abusano di androgeni sintetici a scopo anabolizzante, indicano che elevati livelli di androgeni possono favorire l’insorgenza di psicosi, aggressività, ansia (14-16), oltre ad esercitare un possibile effetto neurotossico con degenerazione neuronale e apoptosi (17).
Per quanto riguarda la schizofrenia, alcuni autori hanno riportato nei pazienti affetti un'associazione tra bassi livelli di testosterone e sintomi negativi più severi, peggiore funzione cognitiva ed alterata elaborazione delle emozioni (18-20).
Molto più numerosi sono i dati che tentano di stabilire un nesso di tipo causale tra testosterone e disturbi del tono dell’umore. Nei giovani pazienti con ipogonadismo congenito viene riportata elevata incidenza di disfunzioni sessuali, ansia e depressione, sulle quali la terapia sostitutiva con testosterone sembra avere un impatto decisamente positivo (21). Anche la terapia di deprivazione androgenica (ADT), utilizzata nel trattamento dei pazienti con carcinoma della prostata, sembra indurre la comparsa o il peggioramento di disturbi depressivi (22,23) e un recente studio australiano ha osservato un rischio di sviluppare depressione nei pazienti in ADT 10 volte maggiore rispetto ai controlli (24).
Negli uomini il declino dei valori di testosterone legato all’età è associato a sintomi di tipo depressivo (25), che la terapia sostitutiva sembra migliorare (26), come confermato anche da una recente meta-analisi (27).
Da queste pubblicazioni non possiamo però estrapolare la conclusione che la terapia con testosterone sia in grado di indurre la remissione di un disturbo depressivo maggiore o che possa facilitare la risposta alla terapia anti-depressiva. Infatti, la maggior parte di questi dati si riferisce a pazienti “endocrinologici”, che per vari motivi hanno ridotti livelli di testosterone, ma non una diagnosi psichiatrica di depressione, e nei quali l’effetto sull’umore della terapia sostitutiva è generalmente valutato attraverso questionari auto-somministrati (28). Anche nei “Testosterone Trial” (29), un gruppo di sette studi coordinati controllati con placebo, condotti su uomini anziani con ridotti livelli di testosterone, nel braccio in terapia sostitutiva si è osservato un piccolo ma statisticamente significativo miglioramento dell’umore e dei sintomi depressivi. Tuttavia, i partecipanti al “Testosterone Trial” non sono stati selezionati sulla base di una diagnosi di disturbo depressivo. I risultati possono quindi solo suggerire che una non meglio definita condizione depressiva associata all’ipogonadismo, non necessariamente sovrapponibile alla depressione maggiore, può essere migliorata dalla terapia con testosterone. Per spiegare questi risultati è stata ipotizzata l’esistenza di un disturbo distimico late-onset, non associato a coesistente depressione maggiore o familiarità per malattia depressiva, ma correlato ad un declino età-dipendente dei valori di testosterone (28). Gli uomini affetti da questo particolare disturbo sembrano presentare valori di testosterone più bassi dei controlli di pari età, non depressi, e la terapia sostitutiva sembra esercitare un effetto positivo sul loro tono dell’umore (30,31). I lavori epidemiologici condotti su ampie popolazioni che comprendevano soggetti di entrambi i sessi, non sono stati tuttavia in grado di dimostrare un’associazione tra livelli di testosterone e prevalenza di depressione (32). Analogamente, gli studi condotti su pazienti con una diagnosi di depressione che rispecchiava i criteri del DSM-5, non hanno osservato alcuna superiorità del testosterone rispetto al placebo, nel controllo della malattia, né hanno verificato alcun beneficio derivante dalla somministrazione dello stesso nei pazienti non responsivi alla terapia psichiatrica (33,34).
Anche per quanto riguarda la popolazione femminile, i dati della letteratura non sono sempre concordi. Alcuni studi sembrano suggerire che alcune condizioni cliniche caratterizzate da aumentata concentrazione di androgeni, come la sindrome dell’ovaio policistico, siano associate allo sviluppo di ansia e sintomi depressivi (35,36), mentre per alcuni ricercatori la relazione tra testosterone e depressione nelle donne è mediata dalla condizione menopausale (37).
In letteratura ci sono studi in donne con depressione maggiore che hanno osservato valori di testosterone totale più bassi rispetto ai soggetti di controllo (38), mentre in uno studio prospettico su 3302 pazienti durato 8 anni le concentrazioni più elevate di testosterone si associavano a maggiore gravità della problematica psichiatrica (39). Altri autori non hanno invece trovato alcuna associazione tra livelli di androgeni o SHBG e sintomi o disturbi depressivi (40).
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